Illustrazioni di Luca di Battista
Mi trovavo a 2.000 metri, nelle alpi venete, quando ho avuto la conferma che l’ONU aveva formalizzato il mio periodo di tre mesi di tirocinio. Lavoravo in un rifugio CAI, cacciavo le mucche con suoni gutturali quando si mettevano a leccare le finestre della sala da pranzo e conducevo una guerra senza esclusione di colpi con il cuoco leghista di Treviso con cui sfortunatamente condividevo la mia quotidianità.
A settembre scesi a valle dopo cinquanta giorni in cui non vedevo nessun segno di antropizzazione più complesso di una staccionata e nel giro di una paio di settimane ero di nuovo a New York.
Le mie riserve di natura politica nei confronti dell’ONU mi avevano fatto vacillare sulla possibilità di accettare o meno il tirocinio, un’occasione che mi era venuta da un’amica che lavorava lì già da un paio di anni. Per chi aveva visto e vissuto, tramite un’acerba partecipazione politica, il post-Genova nei primi duemila, era difficile fare pace con l’idea di lavorare gratis per il più grande organismo transnazionale del mondo. L’ONU mi sembrava inefficace quando doveva effettivamente operare in virtù dei princìpi migliori per cui è stato fondato, ma incredibilmente efficiente nel plasmare una governance internazionale basata su un’idea discutibile ed etnocentrica di sviluppo e che, per di più, includeva nelle sue innumerevoli derivazioni delle organizzazioni che avevo sempre considerato gli assi del male, come la World Bank o il World Trade Organization.
Se il mio entusiasmo era già poco pronunciato il doganiere del JFK, all’andata, si sentì in dovere di estinguerlo del tutto. Quando mostrai il formulario con la data d’inizio del tirocinio alzò lentamente lo sguardo e, con un ghigno obliquo, mi disse Tanto non ti prenderanno. La mia faccia dev’essere andata in fiamme in una frazione di secondo ma riuscii comunque a mantenere una certa dignità mentre mi scannerizzava le impronte digitali.
Il primo giorno scoprii che non avrei lavorato nel palazzo di vetro ma in uno simile, più modesto, davanti allo stesso e che esisteva un luogo chiamato UN Plaza, attorno al quale si raccoglievano i tanti edifici che componevano l’UN Headquarter.
La responsabile per i tirocinanti si avvicinò a me e a un giovane ragazzo cinese con lo sguardo smarrito. Entrambi indossavamo una camicia celeste pallido a righine. Ci spiegò come fare il ground pass, una sorta di passaporto per entrare dentro i palazzi dell’ONU. Il territorio del complesso dell’UN Headquarter, infatti, non è considerato suolo americano ma internazionale e possono accedervi solo quelli dotati di ground pass o accompagnati da un impiegato.
Dopo aver ottenuto una foto con una telecamera digitale in cui i miei tratti mediterranei risultavano decisamente mediorientali e aver passato il sopracciglio alzato dell’addetto alla security, avevamo preso l’ascensore e mi avevano accompagnato in quello che sarebbe stato il mio ufficio. Il mio ufficio. Mi veniva difficile pensare di avere un mio ufficio all’ONU quando un mese prima scrostavo salsiccia da un grill industriale e poi bevevo le grappe con le mie colleghe di San Vito di Cadore.
Da dentro, l’ONU sembrava un ufficio aziendale come tanti altri, anzi piuttosto triste e dimesso, niente del lusso corporate che domina a New York. Al centro, i cubicoli del personale amministrativo. Negli uffici dotati di finestre, invece, sulle pareti esterne, i funzionari e, ai due lati opposti, direttore e manager.
Come nella migliore letteratura distopica ognuna di queste categorie è contraddistinta da una lettera, G (General Service) per gli amministrativi, P (Professional) per i funzionari e D (Director) per i direttori.
Nel tempo scoprii che la comunicazione rimaneva piuttosto segregata durante il giorno ma in occasione dei tanti compleanni e pensionamenti venivano organizzati rinfreschi mattutini, con le fette di formaggio pre-tagliate nelle vaschette, i bagel e l’uva. L’uva non mancava mai. Lì abbracciavi e ti congratulavi con persone che non avevi mai visto prima, costretto a performare un’affezione che sentivi come un dovere più pesante di un file excel con 150 colonne.
Venni dotata di una email istituzionale e dei manuali che presentavano le attività del dipartimento in cui ero stata reclutata. Area pubblica amministrazione e affari sociali ed economici a.k.a. impero universale delle scartoffie e del tentativo di trasformare le disfunzionalità burocratiche degli stati membri a colpi di ulteriore burocrazia, stile matrioska amministrativa. Una roba che il Castello di Kafka sembra un libro di gomma da dare ai neonati quando fanno il bagnetto. Dopo una mezz’ora comparve la mia supervisor, una donna coreana sui quaranta che parlava un inglese un po’ stentato.
Mi sembrò l’organismo più nervoso che avessi mai incontrato. Nonostante l’ONU non retribuisca minimamente i propri tirocinanti, che sono sprovvisti persino di un accesso gratuito alla mensa per gli impiegati, c’è una competizione fortissima per accaparrarsi uno di questi posti. Ogni post sul sito di reclutamento genera almeno una novantina di richieste, la maggior parte di studenti o laureati in relazioni internazionali di grandi università come NYU o Sciences Po.
Le scuole dell’elite vedono l’ONU come un passaggio prestigioso, una tappa quasi obbligatoria nella formazione di futuri diplomatici e ufficiali di organismi transnazionali. Il prezzo da pagare sono diversi mesi di lavoro non retribuito, che, nell’economia di studenti che in USA pagano tasse universitarie che si aggirano attorno ai 50.000 dollari l’anno, non è poi così rilevante. Chi rimane fuori sono quelli che provengono dalle periferie accademiche, fra cui l’Italia, o da famiglie modeste, per cui sopravvivere un periodo così prolungato senza salario e, per di più, in un luogo economicamente insostenibile come New York, rappresenta uno scoglio quasi insormontabile.
Ma torniamo nel mio ufficio con vista sull’East River. Fra le varie mansioni che mi sono state affidate ho dovuto compilare una lista di paesi europei con delle informazioni dettagliate sul livello di informatizzazione dell’amministrazione pubblica, una cosa entusiasmante che mi faceva trascinare a fine giornata nel lounge dell’Headquarter.
Lì la promiscuità professionale veniva incoraggiata dal vino frizzante e vedevi i pezzi grossi provarci con le giovani tirocinanti di altri dipartimenti, e le P over quaranta ammiccare agli omoni della security (S). Vedevi i G con problemi di alcolismo, e i NP (National Professionals) di passaggio con i primi due bottoni della camicia slacciati e i trolley a fianco alla poltrona, in attesa del loro taxi per l’aeroporto.
Gli highlights della mia internship sono stati:
Quella volta che la mia supervisor, per ricompensarmi da giornate di straordinari, mi aveva portato a mangiare le ostriche per pranzo, ne aveva ordinate venti mangiandone quattro e io mi ero sentita in dovere di finirle, sperimentando un’overdose da zinco nelle successive ore di lavoro.
La festa alla Cuban Mission, leggendaria occasione sociale ONU, in cui si fanno le foto di fianco a quella di Fidel, partono i trenini con la musica caraibica e i P si agitano goffamente in una sala sontuosa e un po’ decadente, vestiti come alla comunione di tuo cugino.
Quella volta che avevo scoperto che il funzionario svedese aveva un frigo segreto in ufficio in cui teneva diverse bottiglie di rosè, vedendola passare ripetutamente con un bicchiere pieno dopo le quattro di pomeriggio per andare dalla mia supervisor, con cui la sentivo sghignazzare. Dopo un paio di sguardi complici e sorrisetti ero riuscita ad ottenere il permesso di accedere alle risorse nascoste.
L’evento decisivo è stato un Meeting di Esperti che avrebbero dovuto riformulare gli obiettivi di sviluppo sostenibile post 2015. La mia supervisor era la coordinatrice e, nelle settimane precedenti l’evento, avevo dovuto alternativamente rassicurarla, spronarla, consigliarla e occuparmi di tutta la parte di comunicazione del meeting. Arrivava nel mio ufficio e parlava concitatamente, aveva spesso una coroncina bianca attorno alle narici e mi aveva promesso che avrebbe spinto con il manager del dipartimento per farmi avere un contratto da consulente alla fine del periodo da tirocinante. Nel corso del meeting ho assistito ad una battaglia fra titani, per la precisione conservatorismo accademico vs macchina dello sviluppo ONU. Ricordo lo scetticismo dei professoroni tedeschi e americani, del genere I vostri obiettivi globali di eliminazione della povertà, annullamento della corruzione, promozione economica e ambientale sono completamente ingenui ed irrealizzabili. Dall’altra parte c’erano i funzionari che sottolineavano come l’ONU non volesse necessariamente da loro la ricetta per il benessere mondiale ma almeno gli ingredienti. Un dialogo fra sordi costato decine di migliaia di dollari che io cercavo di dattilografare in tempo reale.
Alla fine, il manager italiano che arrivava alle 11.30 al lavoro e aveva un inglese decisamente peggiore di quello di mia nonna, mi aveva detto che purtroppo non avevano fondi per i consulenti esterni. Inoltre, essendo italiana, pagavo lo scotto dell’affare di malcostume legato all’ex direttore del dipartimento, anch’esso italiano, che era stato indagato per il corrispettivo internazionale di abuso d’ufficio quando aveva stipato amici e parenti nell’organico.
Se volevo però potevo estendere il mio periodo di internship oppure lavorare da casa come volontaria, chissà che poi questa ulteriore prova di impegno avrebbe aperto qualche porta in futuro. Ringraziai dell’opportunità e rifiutai. Nell’ennesimo rinfresco in ufficio, promosso in occasione della mia dipartita, invece del solito compleanno di x o y, dovetti fare un discorso di commiato.
La mia supervisor mi guardava contrita: “Non avrò più tirocinanti per un po’, è un impegno che preferisco non prendermi”.
Sono piuttosto sicura che gliene siano arrivati un paio il mese dopo, d’altronde ogni funzionario aveva almeno un tirocinante a sua disposizione 365 giorni l’anno. Tolto il personale amministrativo questo significa che più di metà del lavoro giornaliero sostanziale portato avanti dagli ufficiali professionali dell’ONU è a costo zero. La percentuale di assunzioni post tirocinio si aggira intorno a meno del 10%.
Ma d’altronde per salvare il mondo devi essere pur disposto a qualche sacrificio. Maledetto doganiere.
Immagine di copertina: © Luca di Battista
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