Non sono mai stata religiosa. Per anni, ho fatto parte di quel gruppo di atei militanti alla Odifreddi, rigidi e sarcastici, senza nessuna apertura a ciò che non sia irreprensibilmente razionale.
Non ricordo esattamente cosa sia successo a un certo punto, ma qualcosa o qualcuno mi ha suggerito che il mio atteggiamento chiuso e classista non si scostava poi molto da quello religioso che andavo tanto criticando, il quale non vede altra possibilità di verità al di fuori di quella dichiarata dalla propria setta. Quindi, come parte di un processo verso una più generale apertura mentale nei confronti del reale, ho iniziato ad accostarmi timidamente a varie forme di spiritualità, non abbracciandone nessuna, ma imboccando un percorso che mi ha portata addirittura ad esplorare le radici del cattolicesimo stesso e, alla fine, sempre in un’ottica atea, a rivalutare alcuni aspetti sostanziali della religione, intesa come sistema.
Ma partiamo dal principio, con una genesi come si deve. Se non ricordo esattamente quello che mi ha portata a riconsiderare la religione, infatti, ricordo invece benissimo i due episodi della mia infanzia che mi hanno fatto troncare definitivamente con essa:
INTOLLERANZA
Nel primo episodio ho nove anni, devo andare a catechesi ma non ne ho voglia. Padre Andrea non mi piace, è un uomo grosso e oscuro che viene dal sud, parla una lingua misteriosa e racconta storie che per me sono anch’esse misteriose e hanno poco senso. Padre Andrea ha un’unghia del mignolo molto più lunga delle altre, è strana, quando chiedo a mia mamma perché la tenga così, lei mi risponde che è per pulirsi meglio il sedere andando fino in fondo (lei usa un’espressione molto ma molto più colorita di questa che lascio alla fantasia di chi legge). Io lo so che non è vero, ma non riesco a togliermi l’immagine dalla testa. No, a catechesi con Padre Andrea che dice cose assurde e che me lo immagino pulirsi il culo non ci voglio andare. Sto facendo la strada per l’oratorio con Sabrina, siamo ancora abbastanza lontane, allora le do una gomitata leggera e, allungando bene le parole, sibilo: Sabriii, dai che saltiamo catechesii. Lei pensa sia una buona idea. Stiamo un po’ al parco giochi, però poi mi annoio, allora emetto altre vocali stiracchiate che fanno: Sabriii, dai che andiamo a tirare le bacche sulle finestre dove gli altri stanno facendo catechesii. Anche questa lei pensa sia una buona idea. A lezione ci sono anche i bambini più grandi, che ci vedono tirare le bacche e quando escono dall’aula ci aspettano nel cortile con la faccia grigia. Perché non siete venute a catechesi? – sbuffano – Perché non ne avevamo voglia – ridiamo – Ma si deve andare a catechesi – ringhiano – Fate sempre tutto quello che vi dicono di fare? – sfottiamo. Ai bambini più grandi con la faccia grigia non va tanto di venire sfottuti dalle bambine più piccole che saltano catechesi mentre loro si devono sorbire Padre Andrea, e ci intimano di correre, perché adesso ci picchiano. Allora corriamo, corriamo per le scorciatoie e per i prati, corriamo e ci scostiamo le foglie dai volti mentre corriamo, corriamo e ci arrampichiamo sui muretti, e saltiamo i tombini, e ci pungiamo le gambe con le ortiche, ma a un certo punto mentre corriamo io mi accorgo che sto correndo da sola. Mi giro un attimo, solo un secondo per non perdere il ritmo, e vedo che Sabrina l’hanno presa, è a terra, e la stanno frustando con dei rami.
Quella è stata la prima volta in cui ho collegato la religione con qualcosa di brutto per cui la mia testa di bambina non aveva ancora un nome preciso, e che poi ho capito si trattava di intolleranza.
Una ventina di anni più tardi sono seduta di fronte ad un professore universitario, il quale afferma con sicurezza che il cristianesimo ha come sue caratteristiche intrinseche l’egualitarismo e la tolleranza. Storco il naso.
Mi trovo allo Stillpoint Spaces Berlin, un’associazione di psicoterapeuti che si impegna per la diffusione al vasto pubblico della psicologia e della psicoanalisi. L’evento si chiama Secular Christianity: a lecture with Sean McGrath e l’idea di fondo che vuole essere trasmessa è, schematizzando:
– La secolarizzazione è un prodotto del cristianesimo
– La secolarizzazione non sta funzionando
– Se si vuole che la secolarizzazione funzioni la si deve riscoprire alle radici, ovvero tornando al messaggio originario cristiano.
McGrath non lo fa, ma io penso sia utile chiarificare i concetti alla base, a costo di debordare nel superfluo.
Cosa si intende per secolarizzazione? Risponde Habermas: Si intende un processo che ha caratterizzato soprattutto i paesi occidentali in età contemporanea e ha portato al progressivo abbandono degli schemi religiosi. Secondo le teorie della secolarizzazione, la modernità si accompagnerebbe inesorabilmente al declino del sacro, il quale sarebbe inversamente proporzionale all’aumento del progresso, alla diffusione dell’istruzione, ai processi di urbanizzazione e industrializzazione.
Cosa si intende per cristianesimo? Risponde la Treccani: La religione rivelata da Gesù Cristo che è in pari tempo fondatore e oggetto di adorazione. Alcuni suoi caratteri (religione divinamente rivelata, dogmatica, missionaria, universalistica, soteriologica ed escatologica) permettono di raggrupparla nella classe delle religioni ‘moderne’. Da tutte le altre tuttavia si differenzia per il tratto distintivo del culto diCristo, che è Dio fattosi uomo per salvare l’uomo; né Mosè né Maometto né Buddha né Zarathustra né Mani, infatti, ebbero mai culto divino.
Il docente sostiene che il processo di secolarizzazione ha avuto una svolta sbagliata, lo dimostrano il capitalismo, il nuovo successo del nazionalismo, il proliferare del populismo e anche la nascita di molte nuove religioni dallo stampo new age. Tutto ciò viene riassunto sotto il nome di postmodernismo. Queste considerazioni si rifanno alla riflessione di Slavoj Zizek che, nel libro La fragilità dell’assoluto, raccomanda un ritorno alle radici cristiane per combattere tale deriva postmodernista. E’ proprio il riferimento a Slavoj Zizek che mi convince ad andare al seminario, perché Zizek è un ateo impenitente ed un esperto dissacratore, con il quale di solito mi trovo d’accordo, quando riesco a capire quello che dice.
Andiamo quindi al cuore della lezione. Quali sono secondo Zizek e McGrath le caratteristiche della secolarizzazione che affondano le proprie radici del cristianesimo?
Numero uno, il pluralismo. Mentre il postmodernismo si caratterizza per una deriva relativista e nichilista, il cristianesimo propugna l’esistenza di una verità che va ricercata e, allo stesso tempo, celebra la pluralità. Se il punto sulla verità è chiaro (e chi si sognerebbe mai di contestare che il cristianesimo crede in una verità?) quello sulla pluralità mi sfugge completamente. Mi riprometto di riguardarlo, ma dopo 15 minuti di ricerche sono al punto zero, anzi, tutto quello che leggo porta a stabilire che il cristianesimo sia tutt’altro che pluralistico, se con pluralismo intendiamo l’accoglienza verso le altre religioni/sistemi di pensiero. Il messaggio cristiano è sì rivolto a tutti, ma chi non lo ascolta non merita la salvezza.
Numero due, l’egualitarismo. Il concetto viene estratto dalle lettere di San Paolo, il quale paragona il mondo ad un corpo: così come in un corpo tutte le parti sono funzionali, anche nel mondo ogni persona ha il proprio ruolo, e tutte le distinzioni di sesso, razza, genere e classe sono secondarie rispetto alla libertà che ognuno raggiunge dopo essere stato redento da Cristo. Questo atteggiamento egualitario costituiva una minaccia all’Impero Romano all’epoca di Paolo e, secondo McGarth, la può costituire anche oggi nei confronti della deriva nazionalista.
Numero tre, l’umanismo. Nel messaggio originario cristiano, Gesù non è un mediatario fra l’umano e il divino, è egli stesso divino. La divinità, in un certo senso, è umanizzata e distribuita a tutti coloro che credono in Cristo. Secondo McGrath l’umanismo, che nel processo di secolarizzazione si è trasformato nell’affermazione della dignità di tutte le persone, viene screditato da nazionalismo, relativismo e capitalismo, ma è ancora ben radicato nella nostra cultura. Ne viene portato un esempio provocatorio relativo all’intelligenza artificiale. Attraverso l’AI L’uomo non sta cercando di costruire robot sofisticatissimi, sta cercando di creare un uomo ancora più uomo di egli stesso. Avete presente Blade Runner?
Numero quattro, il futurismo. Nell’antichità il tempo era concepito in modo circolare, ad immagine delle stagioni che si susseguono, o dei cicli di morte e rinascita della natura. Questa concezione è ancora presente in alcune filosofie orientali e pratiche new age contemporanee che si ispirano ad esse. Il cristianesimo introduce l’idea di tempo lineare, e il concetto laico di progresso deriva proprio da questa idea. In una concezione lineare del tempo ogni istante è ovviamente unico ed irripetibile Quali sono le conseguenze di ciò? Per McGarth ci sono due possibilità: celebrare ogni minuto come fosse di sostanziale importanza, quindi adottare una visione cristiana, oppure non vedere nessun significato in ciò che si sta facendo, quindi cadere nel nichilismo. Attenzione, qui “visione cristiana” va inteso in senso lato, ovvero come visione che deriva dal cristianesimo, avendo esso introdotto l’idea del tempo lineare. In questa argomentazione credo che le conclusioni vengano tirate troppo in fretta e che il valore concettuale di una visione circolare del tempo venga screditato troppo facilmente. Mi viene in mente il proverbio tedesco Einmal ist keinmal, una volta è nessuna volta: se le nostre scelte sono uniche e non hanno termini di paragone, come si può attribuire ad esse un valore? Inoltre, siamo davvero sicuri che l’idea di progresso abbia portato più benefici che danni?
McGarth conclude ammiccando all’ateismo, sostenendo che cristianesimo e ateismo hanno in comune l’idea che non ci sia alcun Dio sopra di noi. Come abbiamo già accennato nella parte relativa all’umanismo, nel cristianesimo l’umano è già divinizzato. Qui non solo storco il naso, mi viene anche la pelle d’oca.
Riassumendo, quindi, il seminario ha portato alla luce alcune caratteristiche proprie sia di cristianesimo che secolarizzazione, che dovrebbero essere esplorate e sviluppate in una luce cristiana perché portino ad un effettivo e funzionale mondo secolare. Non ho dubbi sulla validità storica dell’argomentazione: senza cristianesimo non ci sarebbe secolarizzazione e alcune caratteristiche proprie dei sistemi etici laici contemporanei derivano proprio dal messaggio cristiano originario, depurato da elementi messianici. Ho qualche dubbio, invece, sul suo rigore logico, in particolare relativamente all’uso piuttosto arbitrario che viene fatto delle parole. Si confonde continuamente “cristiano” con “ciò che è risultato dal cristianesimo”, e il discorso diventa fuorviante. Ma, più in generale, c’è un’altra cosa che mi stona: è davvero necessario dissotterrare le radici del cristianesimo per far funzionare la secolarizzazione? Ovvero, ci si deve proprio rifare ad un sistema che nell’immaginario collettivo è associato alle persecuzioni, alle crociate, alla pedofilia, ai privilegi ecclesiastici? Inoltre, non è una contraddizione evocare una sola religione per gettare le basi di un sistema secolare che dovrebbe essere accettato globalmente? In mezzo a tutte le altre facce convinte mi sento quasi una strega quando sbotto: Credo che solo pronunciando la parola “cristiano” venga creata una frattura con tutto ciò che cristiano non è. Come si può sperare in qualcosa di universalistico e inglobante, se ciò da cui si prende piede è già in sè fratturato?
Per quanto mi riguarda, la mia sola presenza in quella stanza, il mio sentirmi tagliata fuori perché non mi rispecchio nelle radici cristiane (anche se volente o nolente ne faccio parte) è già una conferma logica dell’impossibilità di implementazione pratica di quelle argomentazioni. In parole povere, dopo una ventina d’anni, la religione mi continua a sembrare esclusiva e, di conseguenza, intollerante.
RITUALITÀ
Anche nel secondo episodio ho nove anni, è Natale e vado a messa, un po’ perché altrimenti mio papà e mio fratello sbuffano e mi danno quell’occhiata di questo comportamento è proprio riprovevole, un po’ perché Martin fa il chierichetto e se mi metto nella fila davanti me lo posso guardare per bene tutto il tempo. La messa di Natale è lunghissima, mi sembra siano passati dei giorni quando ho già finito di contare tutte le panche, tutti gli uomini presenti negli affreschi, tutti i cappelli, tutte le candele accese e quelle spente, tutte le persone che cantano e quelle che muovono solo male la bocca, tutte le pieghe del legno della sedia, tutte le persone che hanno preso la particola e quelle che non l’hanno presa, e tutte le altre cose che è possibile contare. Ad un certo punto arriva una parte della messa che non ho mai visto, i chierichetti su segno militare di Padre Andrea portano fuori un nido spelacchiato con dentro una statua di Gesù Bambino e lo appoggiano là alla fine della navata. Io sono davanti e la statua la vedo bene, ha un occhio più grande dell’altro e la vernice sulla bocca è scolorita, sembra una cosa che è stata disegnata in fretta da qualcuno con il parkinson, e in più è finta, è spaventosamente fredda e finta. Mi fa impressione. La gente inizia a mettersi piano piano in fila con cadenza assonnata e piglio serio e io non ci credo, sono sbalordita, quando vedo che una ad una le persone si inginocchiano davanti a quella cosa brutta e inanimata e le baciano i piedi. Sono pietrificata, sono più pietrificata di Gesù Bambino, mi sembra tutto grottesco e sbagliato, e mi rifiuto di andare lì. Senza farmi notare troppo scivolo via dalla bancata e sconcertata mi dirigo verso casa, dove annuncio senza possibilità di replica che io, a messa, non ci vado più.
Quella è stata la prima volta in cui ho collegato la religione a qualcosa per cui un nome semplice ce l’avevo già pronto, quel nome era stupidità.
Quello che ritenevo – e che per lungo tempo ho ritenuto – fosse particolarmente stupido, è la dimensione rituale della religione, ovvero tutta quella serie di pratiche ripetitive e vuote, da compiere con serietà e cieco rispetto verso qualcosa di inconoscibile e inquestionabile. È assolutamente irragionevole, mi dicevo, inutile ed irragionevole.
Avrei cambiato totalmente idea qualche anno più tardi, dopo aver letto La danza della realtà di Jodorowsky.
Il mio percorso di nuova tolleranza verso la parte irrazionale del reale, infatti, è cominciata proprio da una rivalutazione delle pratiche rituali, e l’influenza visionaria dello scrittore e regista cileno ha ricoperto un ruolo importante in questo. Se avete visto i capolavori surrealisti El Topo e La montagna sacra, potete intuire con che tipo di considerazioni abbiamo a che fare, e quanto poco esse abbiano da spartire con il regno del puramente razionale.
In sintesi: Jodorowsky sostiene che il nostro inconscio funzioni in modo simbolico e che noi possiamo comunicare con esso attraverso dei rituali. I rituali riescono a penetrare alcune nostre resistenze mentali e ad andare là nel profondo dove il pensiero razionale non riesce ad agire. Attraverso la suggestione e l’abbandono a tali pratiche, possiamo guarire ferite psicologiche del passato.
Più nello specifico: nel rituale, il guaritore – Jodorowsky stesso in questo caso – ordina alla persona che vuole essere guarita di compiere un atto che all’apparenza può sembrare illogico, ma che in realtà ha lo scopo di portare il “paziente” a percepire la propria situazione da un nuovo punto di vista. Ad esempio, nelle parole dello stesso autore “Un ragazzo si lamenta di ‘vivere tra le nuvole’, di non riuscire a ‘tenere i piedi per terra’ né ad ‘avanzare’ verso un’indipendenza economica. Prendo le sue parole alla lettera e gli propongo di trovare due monete d’oro e di incollarle alle suole delle scarpe, perché calpesti oro tutto il giorno. A partire da quel momento, scende dalle nuvole, mette i piedi per terra e comincia a camminare… In questo atto mi sono servito addirittura delle parole usate dal mio paziente.”
Dopo aver letto il libro ho iniziato ad autoprescrivermi dei piccoli rituali e in generale ad adottare un punto di vista sul mondo molto più giocoso ed aperto alle interpretazioni. Senza entrare nello specifico, direi che dopo questo cambiamento le cose hanno iniziato a diventare molto più interessanti. E bizzarre.
Non ho collegato questa catena di pensieri alla ritualità della religione fino a quando, in una maratona di video youtube in post-sbornia, sono inciampata in un Ted Talk di Alain De Botton che parlava di Ateismo 2.0.
Nel suo discorso, Alain de Botton prende in rassegna i caratteri della religione che possono essere utilizzati dall’ateismo per migliorare il processo di secolarizzazione. Anche secondo lui, come secondo Zizek e McGarth, infatti, non abbiamo avuto successo nel creare un mondo secolare che funzioni. Il presupposto da cui de Botton parte, che credo sia molto vero, è che in assenza di religione ci siamo ritrovati in assenza di una guida, privati di qualcosa che ci unisca in una comunità e che nutra la nostra esigenza di moralità. Sembra che, nel mondo secolarizzato, l’uomo cresciuto sia un’entità totalmente razionale, indipendente, che ha bisogno solo di dati e di informazioni per funzionare bene. Ma non è così, e la religione lo sa bene. Pensate ai vostri amici. Quanti di loro vanno a messa la domenica anche se non sono credenti “perché così incontrano qualcuno e fanno due chiacchiere”? Oppure quanti di loro in famiglia si fanno i regali di Natale anche se in chiesa non ci mettono piede dal ‘92? Per l’ateo convinto questo è un atteggiamento intellettualmente poco onesto. Se non sei credente, allora non devi avere nulla a che fare con la religione. Ma l’ateismo, talvolta, non tiene conto delle esigenze morali e sociali dell’uomo. Nel pathos di respingere gli aspetti negativi della religione, ci si è trovati a “buttare via il bambino con l’acqua sporca” e ad essere ciechi di fronte a ciò che di buono poteva essere salvato. Quindi, si chiede Botton e mi chiedo anch’io, cosa possiamo rubare dalla religione per creare un senso di appartenenza e di condivisione, senza cadere in pratiche normative e insensate?
Numero uno, recuperiamo la sua capacità di raccogliere le persone attorno ad un fulcro comune, che, se per la religione sono le scritture, per una società atea può essere la cultura. Raduniamoci per leggere Platone, Shakespeare, Jane Austen, Leopardi, per contemplare un quadro di Michelangelo, per ascoltare una composizione di Bach.
Numero due, recuperiamo la ripetizione: una volta usciti da scuola, quando forse siamo troppo giovani per capire esattamente quello che stiamo studiando, spesso la storia, l’arte, la poesia diventano un ricordo del passato. Ma solo attraverso il contatto ripetitivo con determinati concetti, essi iniziano a circolare nel nostro organismo influenzandoci. Questo la religione lo sa benissimo, costringendoci a ripetere frasi e gesti per tutta la vita.
Numero tre, recuperiamo la scansione del tempo: la religione ha un calendario, delle scadenze, degli appuntamenti, il mondo secolare no, o comunque molti meno e organizzati in modo molto meno strutturato. Immaginate un giorno all’anno in cui, semplicemente, ci si ritrova per guardare la luna. Avete presente il sentimento che si prova, contemplando la luna? Come ci si sente più piccoli, più parte di qualcosa di grande, come i problemi quotidiani scompaiano, di fronte alla vastità del cosmo? Forse questo basterebbe, anche se solo per un giorno, per farci sentire più vicini e più simili, e per aiutarci a cambiare prospettiva sulla nostra vita.
De Botton conclude il suo discorso così: “The people in the modern world, in the secular world, who are interested in matters of the spirit, in matters of the mind, in higher soul-like concerns, tend to be isolated individuals.They’re poets, they’re philosophers, they’re photographers, they’re filmmakers. And they tend to be on their own. They’re our cottage industries. They are vulnerable, single people. And they get depressed and they get sad on their own. Now think about religions, think about organized religions. What do organized religions do? They group together.” E, riassumendo in una parola, come riescono le religioni a raggruppare i fedeli attorno a loro stesse? Lo fanno soprattutto attraverso forme di ritualità.
Di solito chi rifugge dalla religione, chi la abbandona, non vuole più averci a che fare. Siamo onesti, c’è dell’odio nei confronti della religione. Io non ho problemi a dirlo, che odio la religione, la odio per tantissimi motivi, primo fra tutti il suo aspetto autoritario, che si approfitta della debolezza dell’uomo. Però le religioni sono anche sistemi intelligenti, con un’organizzazione complessa che funziona da migliaia di anni e che conoscono benissimo i bisogni più intimi dell’essere umano. Sarebbe davvero irragionevole e stupido, da parte di una società secolarizzata e razionale, non approfittare dell’insegnamento che ci hanno lasciato.
Immagine di copertina: Salem, film di Rob Zombie – screenshot
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