Le Lunghe Ciglia di Agata è stato, per tanti anni, lo pseudonimo narrativo-giornalistico di un personaggio buffo nato nella provincia milanese, diviso tra la brava gente di paese, con la quale è cresciuto, che alla bella gente di città. Nata come firma dell’allora Zero2 (oggi Edizioni Zero), Le Lunghe Ciglia di Agata è un appellativo che si è portato dietro per molto tempo, talvolta come una piaga, talvolta come una corona. Nel corso degli anni ha scritto molto di Milano, ma anche di una generazione probabilmente estinta.
In questo articolo sono raccolti (e datati) alcuni suoi brevissimi racconti (più brevi di quello che possiate immaginare), pensieri, pagine di diario, annotazioni. Sono stati estratti dai suoi blog ormai chiusi o cancellati, taccuini, diari, appunti.
Gli scritti non hanno alcuna connotazione comune tra loro, se non quella di essere ad opera dello stesso autore.
È notte. L’uomo entra nella stanza e nella stanza c’è la donna. È seduta su di un divano di pelle. È agosto e lei è grassa e il grasso si sta sciogliendo su quel divano.
La stanza è nella penombra.
L’uomo chiede alla donna come sia andata la sua giornata e la donna vorrebbe raccontare, ma non ha nulla da dire.
Allora l’uomo si siede al fianco della donna in attesa che arrivi il giorno e che lei si sciolga completamente.
(2016)
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Il portiere dello stabile di via Vittor Pisani 10 si chiama Domenico e da Piazza Repubblica fino a Stazione Centrale lo conosco tutti, commercianti, privati, cani e gatti e barboni.
Lo conoscono perché beve troppo.
Domenico il Portiere afferra le chiavi delle cantine e scende le scale per andarci. In cantina. Ne scende metà camminando e l’altra metà rotolando.
Lo portano via d’urgenza che si è spaccato tutto, perché è caduto di faccia. Gli hanno dovuto bucare la gola per fargli uscire l’aria dato che era tutto bloccato. Si chiama tracheotomia.
Dopo due mesi di ospedale, Domenico il Portiere torna a lavorare.
Non ha più la mascella. Cioè, la testa gli è diventata piccina piccina, hai capito?
Cioè, se vuoi avere la testa piccina basta che ti fai togliere la mascella.
E’ una soluzione, dopotutto.
(2013)
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La ragazza con i capelli sempre raccolti, quella che abita nell’appartamento davanti alla finestra del mio ufficio, davanti alla mia scrivania, oggi ha litigato con la donna delle pulizie.
La ragazza si è arrabbiata perché qualcosa a me oscuro non è stato pulito. La donna delle pulizie ha urlato in faccia alla ragazza dai capelli sempre raccolti che quell’oscura cosa è stata pulita perfettamente. Allora la ragazza ha ribadito con un urlo ancor più forte che non è vero, questo non è vero. La donna delle pulizie allora ha detto alla ragazza di andarsene a fanculo.
Poi si è girata verso la finestra, in uno scatto d’ira che io ho pensato Ora si butta di sotto, oppure spicca il volo. Invece mi ha guardato. Da un palazzo all’altro, fin dentro il mio ufficio, sopra la mia scrivania.
E ha mandato a fanculo pure me.
(2013)
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Ho provato a stare per molto tempo con la testa sotto il cuscino, con le spalle che sudavano insieme al culo e ai coglioni. Con la finestra aperta e le zanzare. Ho provato a soffocare.
Ho provato a mettermi seduto composto, con le gambe accavallate, senza la camicia a petto nudo, ad un metro dal muro e guardarlo. Il muro. Seguirne le imperfezioni che il rullo e la vernice hanno lasciato nell’imbiancatura, le macchie di sporco che forse le mie mani una notte che non mi reggevo, forse le sue entrambe appoggiate mentre la prendevo da dietro.
Ho provato sul balcone più alto, a guardare di sotto per perdermi nella vertigine e forse perdere l’equilibrio.
Ho provato con il cielo, di notte, di giorno. Che dicono che con il cielo si riesce bene, che è così lontano.
Ho provato a inspirare ed espirare nel sacchetto di carta, annusandomi. Ho provato a chiuderlo forte, subito dopo.
Ho provato con te e senza di te.
Niente. Restano lì, come il bagliore delle lucciole sempre acceso, anche quando dovrebbero nascondersi.
(2014)
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Quando ho deciso di diventare un delfino era una notte come quella dei cartoni animati della Walt Disney. Il cielo era dopo la seconda stella a destra.
Così ho stretto fortissimo gli occhi, che ci vedevo un sacco di luci dentro, lì in quel buio oltre i miei occhi con tutti quei colori meravigliosi.
Ho stretto forte anche i pugni e forse anche i denti, che poi i molari mi facevano male.
E mi sono messo a pensare di voler diventare un delfino. Hai capito? Non è difficile, te lo sto dicendo. Niente geni della lampada, niente preghiere a qualche dio, niente di niente.
Solo pensare fortissimo di volere diventare un delfino.
Eccomi qui, io con gli altri delfini, ad inseguire la barca e il capitano in una notte che pare uguale a quella che mi ha portato al mare.
Così ho lasciato tutti a riva, la mia mamma e il mio papà, mio fratello e mio cugino con le sue siringhe di eroina. I miei amici con le bottiglie e i bicchieri e le cannucce e le scuse e le facce dietro e le facce davanti diverse dalle facce dietro, tutti a riva a far girare gli ombrelli sopra le teste e a specchiarsi nell’acqua calma, fino a scaricarsi di dosso quella loro figura falsa e infinita.
Li ho lasciati sulla spiaggia, forse un po’ invidiosi di vedermi saltare tra le onde, io che ora abbraccio le sirene e mi lascio portare sotto, negli abissi, dove non posso più vederle, ma solo sentirle, avvinghiate a me con quella coda che hanno, fatta di diamanti meravigliosi.
E qui non ci sono i cantanti finti che soffiano bugie a noi e a loro stessi, qui non ci sono il rumore della pellicola e la magia dei film, in cui puoi essere tu quello che spara e che ama e che scopa e che è Dio, lì per un un’ora e mezza o poco più.
Io sono un delfino e posso solo fare quel verso strambo che sembra una risata e forse lo è davvero. Posso solo ridere e ballare sulle onde.
E qui non ci sono le streghe e qui io non devo chiedere se voglio fare qualcosa di speciale.
Il capitano mi porta lontano, sulla schiuma, nella scia della sua barca e forse nemmeno lo sa, forse nemmeno mi ha visto, nemmeno se salto.
E qui io sono io, senza pancia, senza braccia, senza Ticket Restaurant, senza Inter, senza MacBook Pro, senza te.
Qui sono io che mi lascerò prendere da una rete, quando sarò stanco e non mi farò più del male e dimenticherò quello che non ho fatto e non abbiamo fatto. Oppure finirò negli abissi, tra le ombre del passato illuminate, un attimo soltanto, dalle code delle sirene in una notte come quella dei cartoni animati della Walt Disney.
(2012)
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Il bambino mantiene l’equilibrio su gambette instabili, piedini avvolti dentro calze antiscivolo. Osserva il proprio cane, di cui non riesce ancora a pronunciare il nome, mentre tenta di afferrare una mosca che gli svolazza intorno. Il bambino sente lo schiocco delle ganasce dell’animale ogni volta che manca la presa.
E ride, il bambino, ride fino ad avere le lacrime. Fino quasi a smettere di ridere e iniziare a piangere.
Il padre, pochi metri distante, controlla che la vita vada via liscia come deve.
(2017)
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Un uomo cammina lungo strade secondarie nel cuore di Roma. Quell’uomo non si sente più un uomo. Non si sente un ragazzo né un bambino né niente. Non si sente nulla nemmeno fuori, oltre le cuffie AKG che gli chiudono le orecchie come un cappello di lana che indossi per proteggerti dal freddo.
Il freddo non c’è, ma la musica protegge quest’uomo che non si sente.
Fuori tutto scorre a ritmo della sua musica, quella che ha scelto per camminare, e a volte Roma è una ragnatela che ti tiene lì, ad aspettare che il grande insetto venga a prenderti.
Un uomo cammina dentro la ragnatela Roma, con lo sguardo basso sui piedi e la musica dentro, il silenzio fuori.
Quest’uomo pensa che è tutto così scontato e banale, anche soltanto quel camminare senza fermarsi mai, eppure c’è qualcosa in fondo ad ogni cosa, che ti tiene a galla e quell’uomo, che si sente affogare, lo sta cercando.
Ma Roma è una ragnatela che nasconde tutto di fasci luminosi e promesse buie.
L’uomo non sente più le cose che gli permettevano di starsene fuori da tutto il resto e quest’uomo è come se non volesse più niente, allora si mette la maschera, anche ora mentre cammina. E rialza la testa.
Se tu lo vedi fuori, con gli occhi tuoi, l’uomo sorride e ha le spalle larghe. Se tu lo vedi dentro, con gli occhi dell’uomo oltre la maschera, lui è per terra e sta strisciando.
L’uomo entra in un parco e sente che Roma, lì dentro, gli ha regalato dei momenti che forse non dimenticherà, forse sì.
Così quest’uomo si siede per terra, poi si sdraia, con le braccia dietro la nuca resta a guardare il cielo azzurro, ha un pugno nello stomaco che stringe tutto e lascia il vuoto allo sterno, che si sente solo lo sterno, obbligato tra il cuore e la gola che non deglutisce.
L’Uomo ha finito e chiude gli occhi, che va bene così.
(2013)
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Una ragazza magrissima corre verso la fermata del tram, posso vedere distintamente le sue scheletriche gambe tendersi come fossero le zampe di un antilope. Non posso invece vedere i piedi stretti da collant color carne, storti dentro scarpe di vernice tacco otto. Osservo i polpacci assumere la tipica forma geometrica non geometrica.
Il braccio destro si flette come ad afferrare l’M41, come a volerlo bloccare per le spalle. Fermarlo.
E forse, quel tram lo blocca davvero, con il pensiero. Oppure lo raggiunge.
Bussa contro la porta anteriore. Il conducente si volta la guarda la vede. Non apre.
Riparte.
(2017)
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È estate e siamo seduti tutti intorno alla grande tavola del ristorante.
Mia cugina ha gli occhi azzurri, che se ti ci metti, ti ci specchi.
Io c’ho la forfora che se mi attaccano le palline e mi scuoto un po’ cantando Jingle Bells, faccio la neve e l’atmosfera natalizia.
Accendimi come un albero di natale e fammi partire come una stella cometa.
Mia cugina ha gli occhi azzurri ed è lì che fa la cameriera, mentre noi ci rimpinziamo.
Mia nonna non si ricorda come si chiama mio padre, suo figlio, così lo chiede a mia zia, sua figlia, e mia zia nemmanco si ricorda come si chiama mio padre, ma solo perché gli deve tanti soldi e guarda un po’, mio padre non ha più un nome.
Mia zia mi chiede se faccio ancora il cantante.
Io le dico di darmi una chitarra e un acido. E un arachide al posto del plettro.
Mio zio mi racconta di quando, in Via Mario Greppi straripava il Re dei Fossi, la fogna che stava sotto Borgolombardo e San Donato Milanese, provincia sud di Milano.
Signore dammi la forza di digerire le ottanta portate senza andare a vomitare in bagno, come ha fatto mio fratello, d’altra parte.
Così poi io vado in macchina a sdraiarmi un attimo insieme al sedile, che si sdraia con me se io tiro la leva giusta. Lascio il parentado all’interno del ristorante.
Così io mi addormento e mentre mi addormento penso che forse resterò qui fintanto che la macchina non diventerà un forno sotto questo sole e il sangue nelle mie vene diventerà magma e morirò bollito a qualcosa come dieci metri dai miei parenti tutti.
Penso anche a quell’atleta keniota, residente in Alaska, che esce per fare jogging, si perde, lo ritrovano dopo due giorni e gli devono amputare entrambi i piedi perché il freddo gliel’ha fusi con le Adidas da campestre.
Mio fratello bussa al finestrino quando non sono ancora cotto a puntino e mi dice, c’hai delle briciole sui baffi, entra che siamo al dolce.
Gli rispondo che non sono briciole, è forfora.
Rientro.
Mio padre e mio zio giocano a quella cosa dei coltelli, come ogni anno.
Mio zio mi chiama con un nome che non è il mio: Vieni Andrea, vieni che ti insegno.
Mia madre dice che no, sono ancora troppo piccolo.
Io dico che non mi chiamo Andrea.
L’altro mio zio, che poi non è mio zio, ma io lo chiamo zio perché mi fa tenerezza, che ha passato la vita da solo, che non ha mai avuto una moglie, una donna, una ragazza, nemmeno un puttana, quest’altro mio zio si ricorda tutte le targhe dei mezzi di trasporto che gli si sono fermati davanti durante la sua esistenza.
Io dico che va bene così, che potremmo andarcene, prima che mio padre si affetti un dito con il gioco dei coltelli, prima che mia nonna si accorga di avermi dato più soldi che agli altri nipoti.
Al ritorno in macchina ruttiamo, a turno, che quando si è da soli, quando si è in famiglia, lontano dal resto della famiglia, ci si può rilassare, slacciare la cintura ai pantaloni, togliersi le scarpe con i tacchi, parlare male e ruttare forte. Per l’appunto.
(2013)
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