“Ho scritto un libro” non è un frase che riesco a pronunciare. Mi vergogno come un cane. “Ho scritto un libro”. Manco avessi scoreggiato in pubblico. Dovrebbe essere una frase facile, invece non la dico perché mi sembra una bugia. È ancora soltanto una pila di fogli pieni di annotazioni nell’angolo della mia scrivania. Non lo dico perché poi mi chiedono di cosa parli ed io devo rispondere che è una storia d’amore. E allora eccoli i sorrisini, gli ammicamenti, gli sguardi di condiscendenza. Non lo dico che ho scritto una storia d’amore perché la domanda immediatamente successiva è: “È autobiografico?” Certo che è autobiografico, anche se scrivessi della colonizzazione di Saturno sarebbe autobiografico.
Ho scritto un libro e per farlo ne ho letti ventisei.
Ne ho letti così tanti per vari motivi. Alcuni per il loro contenuto, altri per la loro struttura formale, altri ancora per la loro appartenenza al genere del memoir e l’uso della prima persona. Ma ho letto soprattutto per farmi coraggio. Una donna che scrive della propria esperienza va incontro a molti pregiudizi.
In primo luogo un romanzo autobiografico, se scritto da un autore di sesso femminile, è spesso etichettato come confessionale, ma ciò non avviene nella stessa situazione al maschile. Già solo la parola racchiude in sé l’implicazione di essere in errore. Si confessano cose di cui vergognarsi: un peccato, una colpa, uno sbaglio. Si confessa per ricevere assoluzione, per essere accolti di nuovo nella comunità, per tornare puri.
Jo Gill e Melanie Waters scrivono in Poetry and Autobiography che quando l’opera poetica di una donna viene definita come autobiografica ne viene automaticamente negato il suo valore creativo ed estetico.
In un’ intervista del 2006 fatta a Chris Kraus, autrice del fenomeno letterario I love Dick, quando la giornalista le chiede come si sente a riguardo del fatto che la sua scrittura venga definita confessionale la risposta è: “Confessionale di cosa? Confessioni personali?” E poi cita un famoso aforisma del filosofo francese Gilles Deleuze: “La vita non è personale”.
Oltre che confessionale, l’opera della Kraus era stata definita in una recensione del 1998 di David Rimanelli “secreta piuttosto che scritta”. Come se avesse vomitato tutti i suoi sentimenti sulla pagina.
I love Dick è difficile da definire, è un romanzo epistolare intervallato da brani di critica artistica e culturale. Originale, audace, femminista perché sovverte i ruoli stereotipati di musa e artista. Chris Kraus, regista frustrata quarantenne, si innamora di Dick, accademico britannico e collega del marito antropologo Sylvere Lotringer. Dopo una sola cena insieme prende il via un’infatuazione incontrollabile che porta Kraus e consorte a cercare in tutti i modi di avere contatti con Dick. I tentativi falliscono, così come il matrimonio della protagonista, ma lei continua nella sua scrittura di missive ossessive in cui Dick non è più solo l’oggetto del suo desiderio, ma anche il lettore ideale dei suoi pensieri ed il catalizzatore della sua creatività.
L’autrice continua nell’intervista dicendo che alle donne è negato l’accesso all’a-personale. Come se fosse inconcepibile che la vita di una donna si estenda al di là di se stessa. Come se fosse impossibile che la sua auto-decostruzione possa avere uno scopo più ampio di quello puramente narcisistico, terapeutico o confessionale, come per esempio la ricerca di un’universalità.
L’universalità è ancora un maschio bianco.
Katie Roiphe in un articolo su Slate riporta un passaggio dell’acclamato memoir (n.b. non romanzo confessionale) di Karl Ove Knausgaard in cui l’autore si dilunga nella descrizione del cambio del pannolino di sua figlia. La mia lotta è stato salutato come un libro innovativo e coraggioso in quanto parla della vita di padre in una cittadina rurale della Svezia. Ma se fosse stata una donna a riportare minuziosamente di salviette umide, pasti mangiati ad intermittenza e feste di compleanno per neonati, sarebbe stata definita allo stesso modo, o solo lagnosa e trita? Domande legittime a cui la Roiphe dà risposte inequivocabili.
Nonostante le continue critiche, il disdegno e la minimizzazione della scrittura autobiografica femminile, pare esserci, soprattutto nel mondo anglofono, una morbosa curiosità a riguardo. Sarà forse dettata da una componente voyeuristica, che si accentua sempre quando c’è di mezzo una donna, sarà che questa è l’era del blogging, del selfie e dell’oversharing. C’è però una linea sottile che divide il finalmente avvenuto riconoscimento del diritto per le donne di raccontare le proprie storie, dal dare per scontato che l’unica cosa che le autrici possono fare sia parlare delle proprie vite.
È quindi vero quello che dice Lena Dunham nell’introduzione al suo memoir Not that kind of girl in cui afferma che non c’è niente di più coraggioso di una persona che annuncia che la sua storia è degna di essere raccontata, soprattutto se questa persona è una donna. È anche vero quello che sostiene Hadley Freeman in un articolo sul The Guardian, cioè che la tendenza contemporanea dell’editoria sembra quella di incoraggiare le scrittrici a tirarsi fuori le budella e spiaccicarle così come sono sulla pagina. Come se la cosa più interessante che abbiano da offrire, e l’unica per cui meritino credito di scriverne, sia loro stesse.
Ho letto ventisei libri per scriverne uno che non arriva neanche a centocinquanta pagine. In parte probabilmente per deformazione professionale. In parte perché la voce delle donne non è mai considerata autorevole, o almeno mai tanto autorevole quanto quella di un uomo. Nel 1968 Philip Goldberg condusse uno studio in cui diede da valutare a due gruppi di studenti lo stesso identico saggio. Per un gruppo l’autore era John T. Mckay, per l’altro gruppo l’autrice era Joan T. McKay. Non sorprenderà nessuno sapere che il saggio “maschile” sia stato valutato superiore in tutti gli aspetti.
A Siri Hustvedt, autrice di numerosi romanzi e saggi su psicologia e neuroscienza, nonché docente di psichiatria e moglie di Paul Auster, è stato chiesto se fosse stato il marito, che non ha assolutamente niente a che fare con le discipline in questione, ad istruirla sulle scienze. Ve lo immaginereste mai un intervistatore che chiede a Jonathan Franzen se è stata la moglie ad introdurlo al birdwatching?
In un panorama culturale in cui la professionalità di una donna è sempre opinabile, in cui la sua preparazione è spesso sminuita, (auto-) relegarsi al reame autobiografico – chi ne sa meglio di me della mia vita, dei miei sentimenti? – sembra l’opzione meno perniciosa. Ed è così che, di fatto, si continua a cadere nella trappola in cui l’essere femmina corrisponde ad essere un oggetto da guardare. La vita stampata sulle pagine di un libro come un corpo nudo. Ha la cellulite, qualche chilo di troppo, il seno cadente?
La questione è complessa e va ben più in profondità dello snobismo con cui vengono congedate le opere autobiografiche di autrici donne o il confinare quest’ultime ad un determinato genere letterario. È il doppio standard di giudizio. Sarebbe bello se un’opera potesse venir giudicata semplicemente per il proprio contenuto e stile, a prescindere dal genere dell’autore. Ma in una realtà in cui gli scrittori sono letti in egual misura da ambo i sessi, mentre le scrittrici sono lette in netta prevalenza da persone dello stesso sesso, sembra che la strada sia ancora lunga.
Fortunatamente ci sono anche esempi positivi come quello di Leslie Jamison, autrice di The Empathy Exams, raccolta di saggi personali con temi che spaziano dal ricevere un pugno in faccia per strada in Messico, all’ aborto, alla sindrome di Morgellons. Jamison sostiene che la scrittura “confessionale” sia associata ad auto-indulgenza, egocentrismo, solipsismo. Poi però racconta di tutte le lettere che ha ricevuto dopo la pubblicazione del libro. Uomini che la ringraziavano per avergli fatto capire meglio il comportamento distruttivo delle donne nelle loro vite; professori di medicina che avevano regalato il libro ai loro studenti ; malati cronici che le raccontavano la propria convivenza con il dolore. Scrivere delle sue sofferenze ha scatenato una risposta che è andata al di là delle sue esperienze personali. Ha connesso altri essere umani e li ha incitati a raccontare, seppur in forma differente, la loro porzione di storia.
Non molto differente è quello che è successo a Melissa Broder, autrice di So Sad Today. Il libro raccoglie scritti sui temi più svariati, principalmente ansia, depressione, attacchi di panico, dipendenza da sostanze, relazioni sentimentali e rapporto con il corpo. Lo stile varia dal più classico saggio personale ad ironici aforismi in forma di tweet. Anche lei riceve email da persone che hanno letto la sua raccolta e che le raccontano dei propri problemi. Credo che sia perché ho tirato giù la mia maschera, il che incoraggia altri a fare lo stesso.
È anche questo quello che ci si aspetta dalla letteratura, che smascheri e faccia smascherare.
Non è difficile capire perché i romanzi autobiografici abbiano tanto successo. Forse è ora di riconoscerne i meriti, anche quando a scriverli sono donne.
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