C’è un folletto che si aggira, balzellando febbrile e in piena trance agonistica tra un ben di dio di synth, Moog, toy piano, celeste, harmonium, Fender Rhodes e semplici pianoforti a coda. Gli occhi simpatici, l’aria un po’ timida: ai piedi Gazelle nere e improbabili calzini color arcobaleno, ben evidenziati da quei pantaloni modello non-è-una-tuta-ma-terminano-con-l’elastico che i giovani alla moda oggi sembrano prediligere: al momento della rentrée per i bis, quei calzini verranno sostituiti da più sobrie calzette nere. Rimane ancora insoluta la questione se la motivazione del cambio tattico sia stata puramente funzionale (sudorazione eccessiva delle estremità inferiori?) o squisitamente estetica, mentre un maglione di lana grigia e un baschetto ben calcato sulla pelata gli danno quell’aria tra il bohémien e lo shabby-chic, molto in voga a Berlino.
Intorno a lui, trecento appassionati assiepano, con un’attitudine a metà tra il circospetto, il riverente e l’informale, i sontuosi e austeri spazi della Saal 1 della Funkhaus, quella meraviglia di posto dove, negli anni della DDR, si registrava praticamente qualsiasi suono, tutto il suono. Dalla classica al pop alle voci dei documentari, tutto ciò che il Partito giudicava conforme alla sua ortodossia e quindi registrabile e pubblicabile. Registrazioni che erano un vero fiore all’occhiello, per il regime, realizzate a un livello di eccellenza qualitativa massima, con un dispendio di tecnologia e di soluzioni acustiche, elettroniche e meccaniche così avanzate, in termini di studio degli ambienti (nel complesso sono presenti persino due “camere del reverbero” per creare maggiori o minori profondità acustiche), di ottimizzazione del suono naturale e altre amenità, che qualunque fonico esistente al mondo farebbe carte false per partecipare a uno stage o a un periodo di tirocinio in uno degli studi che abitano questa gigantesca struttura nel quartiere di Treptow-Köpenick, cuore operaio della Berlino Est.
Quando dico che il pubblico si assiepa, prendete questo verbo alla lettera, ma sforzatevi di interpretarlo alla tedesca, ovvero: ci si ritrova, letteralmente, a meno di un metro dal folletto in questione e dai suoi strumenti, con il rischio nemmeno troppo peregrino di inciampare o sbattere in un sintetizzatore o in un cavo di collegamento. Però si raggiunge il proprio spazio, seduti sulla gradinata – che un tempo ospitava le orchestre sinfoniche durante le registrazioni dei dischi – in modo inappuntabilmente composto e senza cagionare alcun pericolo ai preziosi strumenti.
Lì si rimane per tutte le due ore del concerto, il massimo del disturbo è il tintinnare sporadico di qualche bottiglia di birra e qualche yeah gridato quando i beat aumentano. Altrettanto compostamente, dopo la doverosa standing ovation e gli applausi all’artista, si guadagna l’uscita che si affaccia su uno scalone conducente al piano inferiore della struttura, dove dal bar di gusto sovieticamente elegante in stile anni ’60, si accede all’area merchandising, in cui si trova appunto l’artista, già attivissimo, a meno di tre minuti dall’ultimo applauso ricevuto, a firmare le copie dei vinili che il pubblico compra.
Già, ma a cosa abbiamo assistito questa sera, noi e gli altri trecento? (giovani modaioli, ma anche famiglie con bimbi, intellettuali di mezza età un po’ vanitosi con signora al seguito e quella variegata tipologia di artisti dell’understatement cool che spesso caratterizza chi frequenta i concerti berlinesi).
Siamo venuti ad ascoltare e vedere il folletto che risponde al nome di Nils Frahm, talentuosissimo pianista di Amburgo, classe 1982, che ha presentato il suo nuovo disco “All Melody”. Si tratta di quattro date in quella che è la sua città adottiva, prima di imbarcarsi in un lungo tour mondiale. La tappa italiana sarà al Fabrique di Milano, il prossimo 2 maggio.
Giunto al suo tredicesimo disco, escludendo quelli realizzati in collaborazione con altri artisti, tra cui l’islandese Olafur Arnalds, Dj Shadow, il performer statunitense Woodkid, nonché nientemeno che Robert De Niro, il buon Nils, relativamente poco conosciuto in Italia, ma decisamente noto a livello internazionale, è uno di quei compositori che vengono frettolosamente gettati in quel calderone che comprende tutto ciò che non è in qualche modo “rock” e che, avendo un approccio colto, va sotto il nome di Modern Classical (o New Classical, a seconda della vulgata).
Provando a spiegarlo in altre parole, lo definirei un pianista caratterizzato da uno sguardo decisamente personale allo strumento, memore della ricerca sonora di quelli che sono ormai punti di riferimento, e non più solo d’avanguardia, della musica contemporanea. Sto parlando di Philipp Glass, Steve Reich, Michael Nyman, ma anche Keith Jarrett. A tutto questo aggiungeteci, da un lato, un solido background legato alla musica dei primi del ‘900 (il suo maestro di pianoforte fu Nahum Brodski, ultimo discepolo della scuola pianistica russa di Tchaikovskij) e dall’altro una profonda passione per le sonorità elettroniche e la manipolazione del suono, soprattutto legata all’improvvisazione dal vivo, generata e quasi incentivata dai non troppo prevedibili ritardi e ripetizioni creati dagli effetti analogici.
Penso a Brian Eno e la musica ambient, ma anche a Four Tet e l’uso di pattern ritmici ed effettistica al fine di generare architetture sonore che hanno più di un punto in comune persino con la dance più raffinata.
Se presentare dal vivo un proprio disco alla Funkhaus è qualcosa che per ogni musicista sarebbe un enorme onore, oltre che una più che legittima causa generatrice di brividi e sudori freddi, si può immaginare che la cosa, a Nils Frahm, abbia regalato emozioni anche più grandi e intense. Già, perché il ragazzo, negli ultimi due anni, ha praticamente vissuto proprio in questa cattedrale del suono e della musica, costruendovi il suo studio personale in un’altra area della struttura. La costruzione fisica di questo spazio, compresi il posizionamento degli strumenti e il cablaggio, sono stati lo spunto concettuale alla base delle nuove composizioni che, forse per analogia con il senso di libertà che Frahm sentiva nel poter creare uno spazio in cui suonare tutto quello che voleva senza alcuna restrizione, lo hanno portato a scrivere una dozzina di brani per più di 70 minuti di musica in cui mai si sono sentiti così tanti suoni diversi.
Nello stesso tempo un concerto alla Funkhaus per lui deve essere stato, da un lato, come suonare nella propria stanza (piano e tastiere varie hanno letteralmente fatto due rampe di scale, per raggiungere la location del concerto) aprendola agli ascoltatori, ma dall’altro una sfida (come rendere al meglio nella fase live gli interventi cantati e quelli non suonati da lui?) e, non ultima, una emozione e una responsabilità importante, perché chi era tra il pubblico avrebbe ascoltato per la prima volta le nuove composizioni, senza sapere bene cosa aspettarsi: “All Melody” è uscito venerdì 26 gennaio, mentre l’ultimo dei quattro concerti, quello di cui stiamo scrivendo, è stato la sera prima.
Forse per non rendere l’ascolto troppo “difficile” al pubblico proponendogli brani completamente inediti, Frahm se l’è giocata con un approccio a metà. Nel senso che il concerto non è stato in effetti davvero una presentazione del nuovo disco, di cui si sono scelti solo due estratti, quanto piuttosto un excursus nelle tappe della sua carriera. Qualcosa di molto simile all’approccio scelto in un suo disco del 2015, “Spaces”, registrato dal vivo in tempi e location diverse, e comprendente un mix di nuove composizioni e brani pubblicati precedentemente.
Una scelta piuttosto saggia e comprensibile, per certi versi, visto che, per quanto molto melodica, la musica di Frahm non è certamente definibile come di facile ascolto.
I brani partono da una tessitura minimale di frasi melodiche che vengono progressivamente espanse e dilatate, usando la tecnologia e quindi creando loop o utilizzando le ripetizioni degli effetti di delay come intelaiatura ritmica, nei brani in cui viene privilegiata la vena più elettronico-sintetica. Questo tipo di brani, così costruiti, crea un contrasto molto affascinante tra l’apparente rigidità sonora dei sintetizzatori, la percentuale di errore e di imprevedibilità che l’uso di macchine non regolate dalla precisione del software inevitabilmente crea, e l’attitudine molto fisica che Nils ha sul palco.
Sono anche i momenti visivamente più coinvolgenti, perché, alla voglia che si avrebbe di alzarsi e, se non proprio ballare, almeno muovere il piede, si aggiunge lo spettacolo dell’osservare questo giovane smilzo zompare tra le tastiere, spippolando leve e selettori del mixer e suonando (da maestro, superfluo precisarlo) il piano o il Rhodes. Come se avesse più braccia di un ragno.
È ad esempio il caso di “Says”, uno dei suoi pezzi più conosciuti, nato proprio come improvvisazione e successivamente dotato di una struttura più precisa, per quanto sempre aperta a variazioni. In questi momenti guardarlo suonare è davvero qualcosa di emozionante e sorprendente: a prescindere dall’indubbia bellezza del brano, si resta catturati dal funambolismo e dalla foga del musicista, si partecipa senza distacco tra performer e pubblico.
Poi c’è il secondo tipo di brani, quelli più classici, se vogliamo: minimali e suonati al pianoforte, elettrico o tradizionale, nascono quasi come degli abbozzi sonori, a partire da una frase minima che in molti casi ha un carattere melanconico, da colonna sonora di un film di Louis Malle, per poi espandersi variando le soluzioni armoniche oppure riproducendo l’effetto ritmico dei repeat, lavorando su arpeggi e cluster di ostinato suonati a velocità supersonica, come succede in “Hammers”.
Un concerto di Nils Frahm è qualcosa che, se si ama la musica, non necessariamente quella classica o colta o d’avanguardia, va visto. Questo va detto, ribadito e sottolineato. Ciò che colpisce è la sensazione di estremo controllo e padronanza della situazione nonostante l’approccio molto fisico e persino quelle due (di numero) sbavature nell’esecuzione.
Evidenziare questa sensazione di controllo potrebbe sembrare quasi puntualizzare un che di negativo: in qualche modo si può essere portati a credere che una performance troppo controllata sia, per certi versi, formalmente perfetta, ma a scapito dell’aspetto emozionale. Il Gefühl, il sentimento, come lo chiamano i tedeschi.
Al contrario, e questa è un’altra delle doti di Nils Frahm, il controllo qui è tutto tranne che non coinvolgente o distanziante, anzi viene quasi dissimulato e camuffato dalla verve fisica del musicista. Semmai, ma questa è una notazione che attiene al gusto di chi scrive e quindi potete tranquillamente pensarla in modo completamente opposto, questo controllo, pur dando esiti davvero elevatissimi in termini di qualità musicale ed esecutiva, tende a essere una comfort-zone da cui diventa difficile uscire sia per chi sta suonando che per chi sta ascoltando.
“Adelante con juicio” direbbe Antonio Ferrer nei Promessi Sposi. Chissà, forse queste parole sono risuonate bene ad Amburgo, dopo il 1982. Certo è che talvolta il juicio andrebbe un tantino mandato in secondo piano. Soprattutto quando si ha a disposizione una valigia stracolma di talento per poterlo fare.
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Immagine di copertina: © Nils Frahm Official
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