Mark Granovetter fornisce un’interpretazione audace della mobilità del lavoro. In un bel saggio, La forza dei legami deboli (Liguori, Napoli, 1998) cerca di dimostrare come le due componenti basilari del mondo occupazionale, la tipica utilitaristica economica e quella sociale non utilitaristica e prettamente relazionale, si fondano e non possano essere scisse nell’analisi, se si desidera ottenere un risultato quanto meno attinente alla struttura sociale realisticamente intesa.
Se la componente relazionale (legame forte) sviluppa una rete di rapporti (che definisce reticoli) utili al fine della trasmissione di informazioni e di una mediocre mobilità lavorativa, l’altra, quella tipica economica della strumentalità (banalmente l’aspirazione ad un lavoro meglio retribuito) è fondante da un punto di vista organizzativo. Senza i legami deboli, afferma Granovetter, un’organizzazione lavorativa complessa non potrebbe esistere. La motivazione sta nel fatto che i legami forti tendono all’endogeneità (che isola il gruppo rispetto al resto), generano una solida coesione, ma non sono funzionali alla sussistenza della stessa organizzazione chensi fonda sulla mobilità lavorativa.
Negli anni ’50, definito dalla scienza economica come “feudalesimo economico”, il turnover era considerato deleterio poiché dispendioso da un punto di vista economico, per niente funzionale ed emorragico rispetto alle risorse. Ma dagli anni ’70 in poi il discorso cambia, parallelamente alla dimensione economica, che diviene aperta, scorrevole, un pantareismo esigente di continuo cambiamento. Nel suo saggio Granovetter pone l’accento su una questione che attualmente è la reale domanda che dovrebbe porsi la politica in materia lavorativa: se i legami forti rappresentano il vettore principale su cui si affetta la mobilità, non sono probabilmente il vettore migliore o più logicamente funzionale, poiché i legami forti hanno un’innata tendenza endogena e finiscono poi per discostare il gruppo dai reali obiettivi “economici” dell’organizzazione. Tanto per intenderci: la corruzione è un legame forte, il clientelismo, il baronaggio universitario, le raccomandazioni, sono tutti legami forti. Tornando al discorso della mobilità lavorativa tanto decantata dall’establishment, sia politico sia mediatico, si pone essenzialmente una necessità smascheratrice di un arcano fittiziamente elaborato come alibi rispetto a scelte che per nessuna ragione al mondo premiano la meritocrazia. Senza entrarvi nel merito, anche perché a guisa di chi scrive è un concetto tanto aleatorio quanto inutile, l’80% della mobilità sociale che riguarda posizioni medio alte, direttive, manageriali (o qual si voglia aggettivo), si fonda sui legami forti e per rafforzare tale affermazione (affinché sia facile al lettore contestualizzare il concetto italicamente) pongo una domanda: quante volte i telegiornali nazionali, soprattutto durante tutti questi anni di crisi economica, hanno mostrato immagini di top manager che abbracciando gli scatoloni lasciavano i loro uffici? Senza dissanguare retoricamente l’attenzione del lettore torno su un altro concetto differente ma propedeutico.
La mobilità lavorativa è fondante presupposto del corretto funzionamento organizzativo. Max Weber nella sua definizione di burocrazia centra in pieno tale assunto, ma tra mobilità lavorativa e meritocrazia qual è la relazione? Nessuna, esiste un sottile confine tanto labile quanto indefinito. E tra mobilità lavorativa e formazione? Una corrispondenza d’amorosi sensi, abusando foscolianamente di un eufemismo. Nella sua ricerca Granovetter afferma che più sale il livello formativo più c’è (o dovrebbe esserci) possibilità di mobilità lavorativa e la ragione è piuttosto semplice, l’elevata e continua formazione fornisce l’elasticità necessaria alla mobilità, e qui si insinua il paradosso di fondo: si esige mobilità ma allo stesso tempo specializzazione. Sono due concetti antitetici, una società altamente settorializzata quindi specializzata quindi endogizzata era la società post bellica degli anni ’50, quella del feudalesimo economico tanto per intenderci, che non aveva bisogno di mobilità poiché l’organizzazione per nulla complessa aveva bisogno di confini ben netti e definiti. Tralasciando un confronto esplicativo tra società attuale e famiglia attuale che pure sarebbe utilissimo ai fini del discorso, ma intorpidirebbe lacque già limacciose, torna la domanda: mobilità e specializzazione costituiscono una dicotomia plausibile? La risposta è: follia.
La formazione per antonomasia è multidisciplinare, la cultura è un complesso propedeutico, il terzo mondo, per intenderla con Karl Popper. La vera specializzazione moderna è l’automazione dei processi produttivi, come una pressa o un assemblatore, un personal computer, il mansionamento umano in qualsiasi professione è un processo olistico. Ed è proprio la teoria dei tre mondi di Popper che può suffragare l’approccio qui esposto: la specializzazione va in realtà sovrapposta o addirittura sconfessata dalla coordinazione e cioè la capacità di districarsi all’interno di quel magnifico terzo mondo. Lungi dall’affermare che ogni bravo geometra è un mediocre architetto (nell’assoluto rispetto di entrambi i ruoli) l’affermazione è: più è elevata la formazione più è spendibile, da un punto di vista lavorativo, la coordinazione cui s’alludeva poc’anzi. Il ragionamento deve orientarsi su una dimensione di macro aree e non micro settori, traiettoria che stupidamente e depauperamente ha intrapreso l’università. Per chi ama i numeri, la vera analisi statistica (e non qualche cifra buttata qua là a caso da qualche petulante editorialista) fornisce un dato in merito: la riforma universitaria del 2001 ha fallito sia nei numeri (negativissimi) sia negli intenti (squallidi). Se il sapere in pillole può forse risultare utile per arraffare due soldi in qualche decadente gioco a quiz, certamente non forma una classe dirigente e certamente non si adegua alle richieste del mercato del lavoro che richiede, contrariamente a quanto si vuole vendere, alta formazione. Stesso discorso vale per i master, spremute di nozioni pagate lautamente col miraggio di un “placement” che è forse l’abiura più inutile ed esecrabile rubata dal sistema americano, presso cui continua peraltro a far danni.
Ragionare per grandi aree di riferimento, diminuire il numero delle facoltà e istituire grandi centri universitari divisi per poli di ricerca: voler fare la scienza della scienza della scienza è solo un pretesto accumulatorio di risorse e dispersivo di talenti, soprattutto altera il concetto di competenza, che altro non significa che condivisione. Stessa critica va al numero chiuso, un concetto talmente antidemocratico e antistorico (da un punto di vista puramente formativo) da indurre a un disturbante atterrimento, a uno sconcertante sgomento rispetto a tanta incuranza della costituzione italiana. Ai giovani studenti va insegnato che sono soltanto due i giudici severi che valuteranno il loro talento, l’impegno e il tempo; che la didattica spiega il metodo per districarsi nel terzo mondo della conoscenza oggettiva; che insegnare significa semplicemente imprimere un segno; che il docente dà strumenti per comprendere e governare le proprie abilità. Chi, come il sottoscritto, si interfaccia analiticamente col mercato del lavoro e, per dirla con Granovetter, ricerca la giusta commisurazione tra formazione e lavoro, può senza presunzione affermare che persino la prima selezione (il cosiddetto screening) o scrematura è qualunquistica, approssimativa, affidata a stagisti impiegati da società che mercanteggiano col destino dei lavoratori e il cui vero guadagno non sta nel collocare risorse giuste al posto giusto, ma tirannicamente sottendere ad uno status quo utile alla somministrazione di corsi di formazione inutili quanto dannosi.
Il termine “risorsa umana” è solo una violazione della dignità, e andrebbe sostituito con “prodotto umano”. Dovendo considerare la formazione come la principale via alla professione specialistica (ed appare sicuramente pedissequo argomentare in merito alla differenza tra specialistico e specializzato) come può un corso di formazione che dura 450 ore essere specialistico? In parole povere: cosa dovrebbe mai aggiungere alla sì specialistica formazione universitaria? L’aspetto che viene sempre tralasciato e mai spiegato in modo onesto e chiaro ai contribuenti (poiché la maggior parte dei finti corsi di formazione sono finanziati da fondi pubblici, quindi da tasse e quindi da soldi dei cittadini) che tali corsi di formazione organizzati soprattutto dalle aziende cosiddette “interinali” (ma sarebbe più giusto definirle intestinali) sono stati istituiti allo scopo di creare mobilità lavorativa per chi ha una formazione scolastica lacunosa, al massimo secondaria di primo livello (un biennio di scuola superiore tanto per intenderci). Quanto influiscono quindi su tale mobilità? La risposta è nelle parole di un responsabile, che un giorno mi disse: “sia ben chiaro, non si rilascia alcun attestato che abbia valore legale, è semplicemente un certificato di frequenza e lei può aggiungere sul suo cv che ha frequentato un corso di formazione in giornalismo sportivo”. Ovviamente aperto a tutti,, basta essere disoccupati.
Ormai è palese che in materia di formazione e lavoro le istituzioni siano al completo e disarmante sbaraglio. Ciò che colpisce, soprattutto a chi (come chi scrive) si occupa di comunicazione e media, è la contraddizione delle informazioni. Scorrendo i dati è molto semplice scoprire che in realtà non esiste alcuna mobilità lavorativa, che la fascia della popolazione compresa tra i 35 e i 49 anni (diciamo la fascia lavorativamente attiva più rilevante) è ferma, immobile, fossile potremmo dire. L’incremento di occupazione, seppur in percentuale che per valore potremmo collocare tra le unità di misura adoperate nel meraviglioso mondo di Lilliput, è dello 0,3%, ma solo in determinate fasce (15 – 24 e tra gli ultra cinquantenni) e senza considerare le donne, sempre fanalino di coda per quanto concerne riconoscimenti e considerazione.
Il dato della disoccupazione giovanile è imbarazzante: 35%. Per quanto concerne i dati positivi, c’è da porre una postilla essenziale: i contratti a breve, anche se camuffati col job act in indeterminato, sono il fertilizzante che altera la reale situazione precaria e incerta del mercato del lavoro nazionale. Il concetto è semplice: perché nella fascia di età dei 35 – 49 non si registra alcun incremento? Perché quella è la fascia di età inserita in una condizione lavorativa stabile antecedente la riforma del governo Renzi, con anni di esperienza e posizioni lavorative medio alte a cui non conviene cambiare lavoro e per cui è pressoché pantagruelica una prospettiva di cambiamento. La mobilità lavorativa in quella particolare fascia di età è legata principalmente ai legami forti, non si affida al mercato, non è lasciata alla normale selezione: chi affiderebbe i propri quattrini ad un contabile con un curriculum credibile, ma sconosciuto e per giunta raffazzonato su internet? Retoricamente si può affermare che più si sale la piramide della realtà lavorativa, più i legami diventano forti più, per chi vi si accosta, diventa poco probabile accedervi attraverso i legami deboli, se quest’ultimi non sono mai stati una componente dominante all’interno del sistema.
La mobilità lavorativa, per quanto aleatoria e incerta (ma se regolarizzata può fornire interessanti mutamenti positivi per ciò che concerne la ricchezza nazionale) dovrebbe rappresentare la ragione per cui un laureato in lettere dovrebbe poter svolgere la funzione di amministratore pubblico, coordinatore di servizi, progettista didattico, direttore del personale, responsabile della comunicazione, direttore ministeriale. Ma allo stesso tempo è la stessa ragione per la quale uno psicologo non fa lo psicologo o un sociologo non fa il sociologo e così discorrendo; una società senza possibilità è una società chiusa, fondata su legami forti senza mobilità e senza aspirazioni. Parafrasando Popper, è una società fatta di tante piccole nuvole che non saranno mai e poi mai precisi orologi. L’altro aspetto, che pure sociologicamente non può essere trascurato, ma che lo è continuamente poiché soppiantato da una bugia che fa comodo in modo surrettizio al mantenimento dello status quo, è legato alla demografia: l’Italia è un paese sovrappopolato, con un’altissima densità abitativa prima e demografica poi, con parti di territorio completamente erose dalla speculazione edilizia, in cui l’età media negli ultimi quindici anni è cresciuta del 3%, attestandosi sui 44 anni, in cui 13 milioni di persone hanno più di 65 anni, in cui l’indice di ricambio della popolazione attiva è 128, 2 (e qui si incastra ancor meglio il concetto della mobilità lavorativa menzionata poc’anzi), in cui l’indice di struttura della popolazione attiva è di 135,1 (la maggioranza dei lavoratori attivi ha più di cinquant’anni). Per dimostrare percettibilmente tali dati non serve essere in possesso dell’immaginazione sociologica (Wright Mills), basta farsi una passeggiata o un giro in macchina per le strade del centro di Roma, di Napoli, di Milano, di Firenze. Tra i programmi politici dei vari governi non c’è mai stato alcun riferimento a una dimensione demografica del paese che è oggi, per certi versi, soffocante, ma si è solo concesso, condonato, autorizzato, divorato. E questo ovviamente ha pesato e pesa tirannicamente sulla macchina statale. Per combattere o cercare di allentare la morsa demografica c’è bisogno di decentrare centralizzando. Può sembrare un ossimoro, ma in realtà è un concetto di architettura sociale molto elementare, utilizzato per esempio in Giappone, paese con una densità demografica altissima. Decentrare centralizzando è la creazione di grandi e numerosi centri collegati, il concetto potrebbe essere quello del network. Tanti grandi centri unificati in modo capillare ed efficiente per lasciar respirare le grandi città, che sono ormai al collasso, e favorire lo scivolamento demografico. Tale scelta comporterebbe innovazioni strutturali importanti, lungimiranti, programmatiche, tutti aspetti che importano poco alla politica, perlomeno a questa politica.
Aveva ragione Jules Renard quando scherzando (ma non troppo) scrisse: l’esperienza è un regalo utile, che non serve a niente.
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