La prima volta che l’ho visto era il 1992, alla Festa dell’Unità di Campi Bisenzio, a Firenze. Il Partito Comunista Italiano aveva cambiato nome da poco più di un anno. Allora si chiamava Partito Democratico della Sinistra. Nick Cave e i Bad Seeds erano aspri, duri, foschi. Da quel momento in poi sono diventato un fanatico di Nick Cave e della sua band. Per venti anni ho saputo ogni cosa di loro, ho tutti i dischi (vinili, cassette, cd), documentari di e su di loro. So perfettamente in quale parte del mondo ha vissuto Nick Cave e, più o meno, per quanto tempo. Aspettavo con ansia ogni loro nuova uscita.
So come si è trasformata, nel corso degli anni, la formazione dei Bad Seeds. Penso anche di aver capito, intuito almeno, qualcosa del rapporto fra le due menti senza le quali non sarebbero esistiti: Nick Cave e Mick Harvey, i due ragazzi australiani non ancora ventenni che a Melbourne, nella metà degli anni Settanta, fondarono il gruppo embrione dei ‘semi maledetti’: The Boys Next Door, che dopo poco diventeranno The Birthday Party. All’epoca suonava con loro anche Hugo Race, anche lui australiano.
L’ho conosciuto a Berlino anni fa; insieme ad amici siamo andati a mangiare la pizza. L’ho visto con il suo gruppo, Hugo Race & The True Spirit; chitarra, basso e batteria in un bar di Dresdner Strasse a Kreuzberg: pensavo venisse giù il soffitto, dalla potenza e dall’energia che emanavano i tre.
Ho visto naturalmente Nick Cave e i Bad Seeds dal vivo numerose volte, otto per l’esattezza.
Ho visto Nick Cave suonare da solo al Concerto del Primo Maggio a Roma, dove mi presentai all’ora in cui era annunciato, solo per vedere lui. Risalii in contro corrente il flusso impressionante di gente, un rivolo largo un metro, formatosi ai margini dell’enorme massa umana di Piazza San Giovanni, mi misi sotto il palco, rimasi come sempre impressionato dalla potenza e dalla profondità della sua interpretazione e quando finì, me ne tornai verso casa, su per il rivolo.
Ho visto anche i Grinderman, a Roma. È la band composta da quattro componenti dei Bad Seeds, Nick Cave, il batterista e percussionista Jim Sclavunos, il bassista Martin P. Casey e Warren Ellis, il multi-strumentista talentuoso, complice e ispiratore geniale della musica di Cave, che da quando ha iniziato a collaborare con i Bad Seeds, alla fine degli anni Novanta, ha acquisito sempre più peso e carisma all’interno della band.
La mente musicale, ispiratrice della vena letteraria e poetica di Nick Cave era Mick Harvey, invece. Nell’incredibile concerto di Villa Solaria a Sesto Fiorentino, sotto la pioggia, nel fango, con Nick Cave che non si teneva, c’era anche, al violino – e tre piccole chitarre che sembravano giocattoli – Warren Ellis. Quell’uomo mi apparve, nelle due ore e oltre di concerto, come avvolto da un’aura di sacralità, tanta era la forza che emanava dalla sua figura esile, aquilina e magica. Il pubblico era in estasi. Era il tour di Dig Lazarus Dig, uscito nel 2008. Ero nelle primissime file, sotto il palco, e osservavo, vivevo, il magnetismo potente del rapporto ‘estatico-estetico’ che in maniera evidente legava Nick Cave a Warren Ellis. Fu allora che incrociai lo sguardo di Mick Harvey, che mi sembrò quello di un uomo scontento.
Ha lasciato i Bad Seeds nel 2009.
L’attività artistica musicale di Nick Cave insieme a Warren Ellis è particolarmente prolifica, sono molte le colonne sonore che si contano nella loro discografia.
Poi ho smesso di ascoltare Nick Cave. E ho smesso di ascoltare anche la musica in generale.
Quando ho saputo della tragica morte del figlio Arthur, non ho osato nemmeno immaginare quel che poteva esserci nell’anima di Nick Cave. Non volevo ascoltare Skeleton Tree, l’ultimo disco, che il musicista ha iniziato a comporre prima della tragedia.
Un amico, quindi, mi dice che ha due biglietti del concerto di Berlino che non può usare e mi chiede se voglio comprargliene uno. “Ci penso”, dico, ma dentro me nulla era cambiato da quel 2013, da quando cioè avevo smesso di seguire Cave.
Un dolore dell’anima infinitamente più modesto di quello di Nicholas mi ha spinto ad ascoltare una mattina di ottobre Skeleton Tree. In un attimo si è riacceso l’amore, come se fosse sempre stato assopito da qualche parte. Mi ha riaccolto.
Per fortuna il biglietto era ancora disponibile, e nei giorni precedenti in cui scrivo queste righe, sentivo crescere l’impazienza, la voglia. Ho riascoltato, come da adolescente, tutta la sua musica.
Ho ascoltato Push the Sky Away, che mi ero perso perché uscito nel 2015, quando per me c’era la moratoria della musica.
Questo accadeva qualche settimana prima del concerto di Berlino di due giorni fa appena, alla Max-Schmeling-Halle di Prenzlauer Berg.
È politica la prima cosa che risalta all’attenzione, oltre alle quattro file di persone ordinate alla tedesca, che finiscono sul prato in mezzo alla vegetazione. Un gruppo di attivisti contro Israele e pro Palestina, intima con cartelli e volantini a Nick Cave, hold on to yourself, come dice una sua canzone, di essere fedele a se stesso e rifiutarsi di suonare a Tel Aviv, come hanno fatto alcuni suoi famosi colleghi.
Alle otto di sera, orario annunciato del concerto, la grande sala della Max-Schmeling-Halle è colma. Il palazzo dello sport dove giocano le volpi (Füchse) berlinesi di pallamano, sembra lo Stadio Marassi di Genova, però in miniatura. Le tribune sono a strapiombo. Ci sono minimo ottomila persone, è sold out. I biglietti sono stati messi in vendita a febbraio e sono andati esauriti nel giro di un’ora.
“Sono riuscita a entrare nel sistema nei primi dieci minuti e ho preso il biglietto. Dopo poco non c’erano già più”, mi dice Ilona, una ragazza croata.
“Sono molto emozionata, è la prima volta che lo vedo dal vivo”. Marvin, un ragazzo tedesco che è venuto da Francoforte per il concerto, mi rassicura sulla perfezione dell’acustica della Max-Schmeling-Halle.
Il palco è molto grande ed estremamente semplice: sfondo e tendaggio neri. Si susseguiranno i rosso porpora, i viola tenui, i grigi, i bianchi crema, essenziali, caldi, densi delle spot luci.
Come i suoni che avvolgono il palazzetto nell’attesa dell’inizio; la musica per film composta da Ellis e Cave: la sensazione di un’imminente tragico dolore che ha però in sé già la redenzione, la salvezza e la liberazione.
Alle venti e trenta in punto si spengono le luci e il concerto comincia con una preghiera, per la Terra:
Ci sono forze in gioco più potenti di noi. Vieni qui, siediti e di’ una preghiera. Una preghiera all’aria, l’aria che respiriamo e alla stupefacente ascesa dell’Anthrocene. Dai, forza trattieni il respiro finché non sarai al sicuro. La via del ritorno è lunga e ti sto pregando di venire a casa adesso, vieni a casa adesso. Beh, ho sentito che sei stato fuori in cerca di qualcosa da amare. Chiudi gli occhi, piccolo verme. E preparati.
Anthrocene e AnthroPOcene. Al termine del chimico Paul Crutzen, Nick ha tolto una sillaba ma il concetto è lo stesso.
Suoni acuti introducono la lenta e tenebrosa Jesus Alone. La complessa e articolata struttura ritmica, che personalmente è la cosa che più mi entusiasma, di Thomas Wydler e Jim Sclavonous, smuove sinuosamente i corpi.
Al terzo pezzo in scaletta arriva la commozione. Nick Cave interagisce con il pubblico in modo spontaneo e diretto, vuole donare amore. Si muove sul palco con una rosa in mano e tocca le mani della folla, protese verso di lui. Chiede al pubblico di avvicinarsi, di raccogliersi. Chiede di fare silenzio: “Shhhhh. Of love, I love, you love, I love, you love, I laugh, you love”.
Poco prima del concerto Christopher, un simpatico ragazzo berlinese, mi ha detto che si sarebbe aspettato un piccolo happening, una forte interazione con il pubblico. E in effetti il concerto è stato anche un happening, ironico e con un’intensa dose di bellezza.
Il quarto pezzo è il blues del bosone di Higgs, la particella di dio. “Ero interessato alla credenza che la scoperta della particella negasse l’esistenza di dio”, ha dichiarato Nick Cave in un’intervista. Nella lunga, struggente ballata Nicholas chiede con forza al pubblico di toccarlo, se riesce a sentire il battito umano del cuore, perché se dio c’è, forse è lì.
L’enorme sfondo nero si trasforma in uno schermo su cui vengono trasmesse immagini in bianco e nero di alberi piegati da uragani e mari in tempesta. È uno dei pezzi più celebri della band. Composto nel 1984, e tratto liberamente da un vecchio pezzo di John Lee Hooker, descrive, attraverso un immaginario biblico, la nascita di Elvis Presley a Tupelo, nello stato del Mississippi, durante una violenta tempesta.
Una delle cose più belle di vedere Nick Cave and the Bad Seeds dal vivo è che ogni volta i pezzi sono arrangiati e suonati in modo originale. Una versione di Tupelo con il violino gracchiante di Warren Ellis merita la visione.
Si succedono poi altre canzoni e l’interazione con il pubblico attraverso divertenti siparietti. Una ragazza urla: ”Amo Warren!”. Nick risponde: “Anch’io lo amo” e va ad abbracciarlo. Ovazione del pubblico. The Ship Song “è dedicata a tutti, ma in particolare, a Jim Sclavonus”, che festeggia il compleanno.
Nicholas Edward Cave, nato sessanta anni fa a Warrecknabeal, in Australia, non è soltanto un cantante e musicista. È anche scrittore, autore, sceneggiatore, compositore e attore. Nella sua poetica il tema religioso e di dio è molto presente. Ha detto, in varie interviste, di non essere religioso né cristiano ma di riservarsi il diritto di credere nella possibilità di un dio. “Penso che come artista, in particolare, sia una parte necessaria di quello che faccio credere che ci sia qualche elemento divino che entra nelle mie canzoni”. E in un’altra intervista: “Credo in dio nonostante la religione, non a causa della religione”.
Il disco della redenzione è No More Shall We Part, del 2001, i cui temi legati alla fede e alla religione attraversano tutte le canzoni. Il dio con cui è in rapporto non è ben definito e critico, perlomeno, è l’atteggiamento di Nick verso di lui.
Nel 1988 invece, quando scrisse e compose The Mercy Seat, come lui stesso rivela “in a small flat in Kreuzberg”, il rapporto con dio doveva essere un tantino più conflittuale. Evidenti sono i riferimenti al Vecchio e Nuovo Testamento, a passi del Levitico. È la storia di uomo che sta per morire sulla sedia elettrica. The Mercy Seat si riferisce sia al trono di dio nei cieli, sia alla sedia elettrica. Nel 1987, a Berlino, con una vita tumultuosa e tossica, Cave non ha paura di dire al dio severo che punisce e perdona “che lui non ha paura di morire”.
The Mercy Seat, considerata da Rolling Stone fra le 1001 canzoni più grandi di tutti i tempi, è l’esempio migliore per capire come le lunghe canzoni dei Bad Seeds montano lentamente, con pazienza e attesa, con un crescendo che mette i brividi, come una potente locomotiva che ha bisogno di tempo e spazio per prendere sempre più forza e velocità.
The Mercy Seat fa parte di quello che i fan considerano uno dei migliori dischi, se non il migliore, di Nick Cave, ovvero Tender Pray, uscito nel 1988. Come riporta il sito italiano non ufficiale, Tender Pray “è un album sempre in bilico tra lucidità e follia, sacro e profano, grinta e pacatezza”.
Del 1984 è invece From Her To Eternity, primo album a marca Bad Seeds, con Mick Harvey, Barry Adamson e soprattutto Blixa Bargeld, leader della band tedesca d’avanguardia Einstuerzende Neubauten, con cui ha dato vita al movimento industrial negli anni 80. Blixa rimarrà per venti anni elemento fondamentale dei Bad Seeds, fino a Nocturama, del 2003, che è l’ultimo disco che vedrà la sua partecipazione.
La versione proposta durante il concerto di stasera è un crescendo allucinato e ipnotico in cui Warren Ellis distorce i suoni del violino fino a farli sembrare l’urlo straziato di un bovino.
I Bad Seeds, Jim Sclavunos, Ellis, Cave, Thomas Wydler, Casey, e George Vjestica escono dal palco dopo un’ora e cinquanta minuti di concerto. C’è il bis, naturalmente, che è il clou del concerto. Assisto, infatti, a qualcosa di unico, inaspettato, strabiliante e mai visto in precedenza. In questo video si può fortunatamente rivivere l’incredibile versione di The Weeping Song, seguita da Stagger Lee, dove Nick Cave ci sorprende davvero.
Il finale, con la bellissima Push The Sky Away è una grande seduta psicoanalitica collettiva.
Al termine del concerto vado in bagno, bevo dell’acqua direttamente dal rubinetto.
“Ma guarda che non è potabile”, mi dice un tipo singolare con un elegante gilet attillato su una camicia con grandi fiori rossi.
“Come?”.
“Dai, scherzavo” mi fa lui.
“Ti è piaciuto il concerto?” gli chiedo.
“It’s not for human beings! It’s something else” mi risponde.
Segui Alessandro Borscia su Yanez | Facebook
Immagine di copertina: © Nick Cave Official
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin