Marzo 2010
La mattina devo aprire questa saracinesca pesantissima, una enorme fisarmonica di ferro un po’ arruginita. Il bar sa dei detergenti chimici con cui puliamo il pavimento la sera, per qualche motivo mi ricorda l’odore della terra umida. Nel giro di qualche ora si riempie di Macbook e creativi freelancer sotto i trentacinque anni, ordinano bagel con il salmone ed enormi ice coffee anche d’inverno.
Il bar sembra una zattera aggiustata con compensato e poliuretano espanso nei suoi innumerevoli buchi e la colonna sonora è una compilation di canzoni di vecchi cantautori francesi, tipo Charles Trenet. Fuori invece Brooklyn esplode di musica, la lunga onda avant-folk o psych-pop del 2008, tutti mettono vestiti usati e un po’ colorati, senza esagerare, con inserti etnici ma facendo attenzione all’appropriazione culturale.
A Williamsburg sono tutti belli e vanno tutti in skate, io sorrido senza capire cosa mi dicono dopo l’ordine del caffè e andiamo spesso a vedere concerti.
Nevica a marzo, tantissimo, e poi scopro la luce della primavera nelle strade rotte di Brooklyn, il modo in cui ti intrappola quando passa dentro la rete che circonda la scuola pubblica sulla north 5th.
In casa un uomo passa una volta alla settimana a spruzzare veleno nelle fughe del pavimento e noi ci ritroviamo scarafaggi enormi riversi sulla schiena davanti alla porta della nostra stanza e un grande tubo ci spara il riscaldamento direttamente dentro, come nelle palestre delle scuole pubbliche. A volte vado nei grattacieli di Manhattan per incontrare persone che non pensavo esistessero, antirazzisti in giacca e cravatta che lavorano per aziende ed istituzioni e si incontrano proprio lì, nelle pance di vetro e acciaio della 50esima, ma io penso solo alla luce di Brooklyn, l’aspetto come un segreto ogni giorno e ci faccio il bagno felice come a cinque anni.
Novembre 2011
Sono tornata ancora in questa città, su cui non riesco mai a proferire parole, ma me ne fa accumulare dentro a mischiarsi e a dimenticarsi e cancellarsi vicendevolmente. Qui succede così forse perché è tangibile come sia stato già detto e come le cose vengano in essere perché sono state già dette o pre-dette, le cose vengono create per costruire il discorso che su questa città viene continuamente fatto e disfatto dalle troppe persone che la abitano, dai troppi incommensurabili linguaggi che vi vengono parlati, su ciò che viene di lei riportato, descritto dipinto suonato cantato scolpito nello spazio degli occidenti e degli orienti che scompaiono lentamente. In questo modo mi zittisce e riesce a farmi sentire sempre inadeguata, ma di un’inadeguatezza con delle speranze d’adeguatezza, non il rigetto inequivocabile e imbarazzante che mi hanno lasciato altre città. Qui ogni volta che non trovi le parole per spiegarti dall’alimentari, ti senti scrutato dalle commesse e dalle clienti troppo altemagrefighe per essere così banalmente esposte, ogni volta che cerchi di dissimulare il tuo spaesamento su quale uscita della metropolitana prendere, sperando che nessuno noti il fatto che attraversi la strada per andare nella direzione dell’uscita che non hai preso, ogni volta che ti chiedi a quale etnia le persone rimandino il tuo aspetto, a quale strato sociale a quale identità ipotetica che ti sembra di non poter assolutamente controllare ne conoscere interamente, tutte queste volte che ti caricano di simboli che nemmeno riesci a immaginare, che ti scrivono continuamente nel paesaggio urbano come un organismo umano accidentale ma non per questo non leggibile e nello stesso tempo potenzialmente privo di interesse, questo scorrere i volti degli altri come se fossero immagini veloci di un’applicazione per l’Iphone 4, immediatamente riconoscibili, ma nello stesso tempo sintetizzabili in una funzione su cui non è assolutamente necessario concentrarsi in quanto rappresenta solo un particolare segno che rimanda e rende possibili gli altri, questo vertiginoso scambiarsi sguardi che hanno la furtività dell’animale che deve fiutare il simile per questioni di sopravvivenza, l’indifferenza ostentata di macchine senz’occhi e l’intensità di un reciproco riconoscersi per un millesimo di secondo nell’imbuto pieno di romantico non senso dell’esistenza sociale e naturale, tutto questo mi rende difficile camminare. Eppure anche interessante. E poi ci sono i troppi negozi, le file davanti ai Caffè o ai bistro la domenica per il brunch, il fatto che ad ogni angolo di strada ci sia un’insegna che ti offre qualcosa, che in ogni outfit della gente sulla metro ci siano promesse identitarie che non hai mai tempo per capire se vengano mantenute, e il fatto che, quando entri da qualche parte, l’abbondanza dei prodotti che si porgono propendendosi dagli scaffali, a volte in bilico, come se fossero troppi per essere contenuti e bisognasse necessariamente comprarli per lasciare un po’ di spazio, quest’urgenza fittizia di consumo, che finisce per coinvolgerti anche se non lo vorresti, avvolgendoti in una melassa di facilità e di accessibilità che pensi rintronato di poter estendere anche al resto della tua vita. E poi ci sono le troppe persone, il fatto che siano troppo diverse tra loro e troppe per far sì che tu possa prendere seriamente in considerazione questa diversità, e quindi finisci per reagire come quando ti avvicini alle fonti di suono per essere ballato dalle vibrazioni dei bassi che ti esplodono sotto i piedi e nelle tempie e in fondo allo stomaco, qui ugualmente alla fine ti ritrovi a preferire il vortice di colori e tratti somatici come un paesaggio visivo e sonoro dove fonderti in modo panico, facendoti camminare e guardare dagli altri. In realtà c’è qualcosa di molto più primitivo in questo di quanto non si creda, c’è una sorta di abbandono alla moltitudine cieca necessaria per mantenersi compatto nei propri tessuti.
Marzo 2012
Questo posto mi urta ancora, con la violenza di una caduta inaspettata. Ho il ginocchio gonfio perché sono scivolata su un tombino bagnato. Come ai bambini, all’inizio il dolore si è mescolato all’incredulità che potesse essere successo veramente, in quel modo troppo veloce in cui possono accadere i piccoli o i grandi incidenti, che nella peggiore delle ipotesi possono farti passare in una frazione di secondo dalla vita alla morte, senza che quest’ultima ti dia la possibilità effettiva di ricomprendere quell’attimo che ha trasformato il tempo in non tempo. Niente di così drammatico, solo la prospettiva schiacciata sull’asfalto di Davide che non se ne accorge e continua a camminare, fino a quando, con mio grande dispetto e delusione, sono costretta a rantolare il suo nome per richiamare la sua attenzione. Dall’altra parte della strada due tizi sovrappeso e con troppi strati di vestiti sportivi ridono probabilmente di me.
Aprile 2013
Ci sono, eccomi, stringo timidamente la mano ad un professore che sembra un po’ Marx e po’ Babbo Natale, anche a livello comportamentale, è veramente un marxista incoraggiante con la voce profonda e il sorriso aperto. Mi accoglie come se ci conoscessimo da una vita, da settimane seguo i suoi movimenti come un animale detective privato. Quando ha lezione, quando è in studio per ricevimento, quando è il momento migliore per imporgli la visione dei mie 50 chili redistribuiti su un metro e sessantadue, visto che non mi risponde alle mail. In fondo è una visione limitata, gli occhi non devono fare chissà quale sforzo per ricomprenderla, per pensare “ah questo piccolo essere umano, sentiamo cosa dice nel suo inglese un po’ ridicolo e con quelle mani che non si fermano mai”. Dal giorno dopo mi trasferisco in questa biblioteca infinita, ogni postazione ha un suo computer, che comincio ad usare ogni giorno e finisce per assomigliare ad un sorta di faro nel mare di volumi che continuo a prendere dagli scaffali, leggere, scannerizzare ed ingerire, affetta da una bulimia saggistica che deve sembrare preoccupante per gli altri avventori, sobriamente correlati da un massimo di tre volumi.
La primavera arriva e non arriva, io guardo gli stivaletti di cuoio usati in un negozio vintage di Williamsburg ma poi non li compro mai, la città mi lascia per la prima volta fuggire il modo sferzante in cui ti sbatte davanti le sue disuguaglianze impensabili e io me ne distacco nella luce obliqua di aprile, le penso attraverso le pagine di libri che leggo, l’odore dell’inchiostro, e non più attraverso i volti contorti che ho guardato come statue nei mesi precedenti.
Viviamo a Bushwick, la stanza in cui stiamo gira attorno al nostro materasso ma abbiamo un giardino in comune con l’appartamento di spagnoli al piano di sopra, qualcuno ha piantato dei pomodori e la sera ci sono le lucciole, un olmo enorme nel giardino a fianco fa ombra tutto il giorno. La mia coinquilina venezuelana mi fa vedere i profili dei tizi che le piacciono su Tinder e si lamenta che a New York è troppo difficile trovare il ragazzo, nel ripostiglio da cui si accede al cortile interno ci sono una lavatrice e un’asciugatrice silenziosissime che sembrano delle astronavi. Fuori c’è un viale alberato e una chiesa battista bianca dove non c’è mai nessuno, una volta camminando sul marciapiede ho incrociato una donna un po’ arrabbiata che aveva una maglietta con su scritto “I fuck with the hood”.
Giugno 2014
Per andare al lavoro devo attraversare Chinatown, ma poi arrivo ai confini di Soho.
I bambini che giocano nei parchi di Soho hanno sempre con sé il costume da bagno, perché ci sono gli idranti a forma di animali che si azionano con un pulsante.
C’è pure una piscina, è piccola e l’acqua sembra densa, tutti possono entrarci ma non ti puoi portare dentro nulla se non il costume.
Una notte faccio un sogno così doloroso che la mattina mi sembra di avere una emorragia interna, non sogno niente di fisico, ma una mancanza che mi taglia a metà, mentre torno a casa su Canal Street un ragazzo bello ben vestito e gay mi chiede una sigaretta, io gliela offro e non voglio i soldi, così mi chiede com’è stata la mia giornata. Io gli rispondo che questo sogno mi aveva rovinato tutto e lui reagisce come se lo sapesse, un po’ annoiato, rimproverandomi impercettibilmente perché un sogno non dovrebbe avere tutta questa importanza.
Gennaio 2015
Sono in metropolitana. Guardo il display digitale con il nome delle fermate e l’ora. Sono le 9.09. La linea M è lenta e stanca, sbuca da dentro Brooklyn, scava nelle sue parti più oscure e selvagge, fa tutte le fermate, raccoglie i minimi sindacali e quelli che non ci arrivano neanche. Raccoglie le madri con i passeggini che guardano nel vuoto e giocano a Candy Crush, nei passeggini ci sono bambini vestiti con piumini sgargianti.
Raccoglie gli ambulanti di Manhattan e i muratori occasionali che si riuniscono ad un angolo della strada sperando che passi un capocantiere a prenderseli per portarli a lavorare tutto il giorno, magari danno anche il cestino per il pranzo. Qualche esemplare di trentenne bianco brooklynese va a lavorare in qualche ufficio della City, non ha il solito lavoro da free lance. “Sto a casa, bevo centrifugati, aggiorno Istagram e la sera mi faccio una canna.”
La giornata è grigia, ma tanto lo è anche la strada che devo fare per arrivare fino all’ufficio, è la 42esima, una strada larga e uniforme, colora l’aria di toni neutri, sembra che il sole venga risucchiato dall’asfalto, sembra sempre novembre.
Prendo un altro caffè, sa un po’ di bruciato e lascia un sapore acido in bocca. Lavoro dentro equilibri che ignoro, i rapporti di potere cuciti nei sorrisi del buongiorno, chi saluta prima, dove guarda quando lo fa, quanto si irrigidisce il corpo. Io strizzo gli occhi davanti allo schermo e guardo fuori dalla finestra, c’è un altro palazzo davanti con un altro ufficio alla mia stessa altezza, seduta su una sedia una schiena corpulenta e maschile, in un mese non si è mai girato, non l’ho mai visto in volto.
Vado a casa, esco dall’ascensore con la sigaretta in bocca, fuori piove un po’, ascolto la musica, da tempo non scelgo più gli album, metto riproduzione casuale, lo vedo come un cambiamento significativo, un segnale di qualcosa, ma non so cosa.
La metro è sovraffollata, come al solito non riesco ad evitare la carrozza con l’homeless-pipì, quelli con settimane e settimane di pipì nei calzoni. Chiudo gli occhi, li riapro e guardo le pubblicità nella metro, tutte su college e università, tutte che promettono carriere di successo, tutte con foto di gente che sorride in abiti professionali, camici, giacche e cravatte, tute da lavoro, etnicità assortite. C’è ne una che pubblicizza apparecchi odontoiatrici e dice che un sorriso migliore vuol dire un lavoro migliore e una vita migliore.
Fra un pò lascio questa casa.
É divertente vedere che faccia fanno le persone quando gli diciamo dove abitiamo.
L’incrocio fra Broadway e Flushing, quasi davanti al Woodhall Hospital.
“Ah, si”, si contraggono in una smorfia, e poi annuiscono in silenzio, con lo sguardo interrogativo / commiserante / ironico. Non importa quale sia l’emozione portante, l’importante è la loro espressione sbilenca, obliqua.
Al che ti senti in dovere di dire “Sì, non è il massimo ma paghiamo poco”.
Allora, liberati dall’imbarazzo, con una motivazione valida a cui appendere il loro disgusto per quella zona, annuiscono energicamente e sorridono. Poi inizia una conversazione codificata sull’umanità che affolla Flushing e sopratutto il Woodhall hospital. “I mean, is kind of ghetto” Ma questo è per i più stupidi o arditi, la brava gente colta bianca e intelligente non dice ghetto, è offensivo e razializzante.
Quindi si parla per frasi smozzicate, si elogiano i prezzi bassi dei supermercati locali e tutti quegli incredibili 99 cents store.
La nostra ex-vicina di casa, che è scema invece, una volta ha cominciato a raccontare di quando viveva anche lei lì. Sembra un passaggio obbligatorio per tutti i romanzi di formazione che questa città inizia, il girone di Flushing Avenue sembra una tappa obbligata nella scalata alla città, uno dei punti più bassi da cui iniziare, in cui della città ci sono solo i rifiuti e la tua competitività viene stimolata dalla voglia di toglierti dal cazzo e poterti permettere un affitto più alto.
Comunque la vicina scema raccontava di qualcuno che le aveva detto che uno dei segni di riconoscimento per identificare le gang sono i bastoni. “Se vedi qualcuno col bastone stai alla larga, hanno i coltelli dentro il bastone, così nelle perquisizioni non hanno problemi”. E io che mi immagino un assalto, in cui questi si mettono a svitare i pomelli dei loro bastoni e tirano fuori i coltelli, ma poi c’è sempre quello che gli si incastra il pomello e comincia una conversazione surreale tipo quella delle maschere con poca visibilità cucite dalle mogli dei membri del Ku Klux Klan in ‘Django Unchained’ o una scena tipo di quella di ‘Prendi i soldi e scappa’, in cui il commesso della banca non riesce a decifrare il biglietto “questa è una rapina” e nasce una diatriba sulla grafia di Woody Allen.
Inoltre, aggiunge, Woodhall Hospital è pessimo per qualunque tipo di intervento a parte curare ferite da armi da fuoco, sembra infatti che ci finiscano la maggior parte dei casi di tutta New York.
Noi ci siamo pure finiti una sera, un evento ridicolo ha provocato una mia crisi isterica, una corsa al pronto soccorso e svariate ore di attesa prima che facessero delle iniezioni antirabbiche a Davide. Questo gatto assatanato era entrato dalla porta del nostro vecchio appartamento quando avevo aperto per la pizza a domicilio. Era schizzato dentro e si era arrampicato dappertutto, con dei movimenti parossistici, sovrannaturali. Prenderlo era difficilissimo e, dopo che aveva distrutto la camera della nostra coinquilina israeliana, Davide l’aveva afferrato, ma lui si era attaccato con unghie e denti alla sua mano, tanto che per toglierselo di dosso aveva dovuto lanciarlo fuori, facendolo sbattere contro un muro.
Quando Niva aveva esclamato “Oddio, Davide ha ucciso il gatto!” non mi ero ancora accorta di quello che era successo. Poi vidi la sua mano sfregiata e l’espressione atterrita di Davide, la mano sotto l’acqua fredda.
Proprio pochi giorni prima mi aveva detto che in un podcast della National Public Radio che lui ascoltava regolarmente e che era una delle suo fonti principali di informazione, avevano detto che la rabbia era letale per l’uomo e che non bisognava avvicinarsi agli animali randagi in giro per la città.
In quel momento il mio cervello costruì in un millesimo di secondo uno dei miei tipici scenari apocalittici, in cui il gatto era una sorta di incarnazione di una maledizione, Davide aveva la rabbia e nel giro di pochi minuti doveva assolutamente fare l’iniezione altrimenti tanti saluti. Risultato, crisi di pianto isterica, impossibilità di ragionare lucidamente, io che vago da una stanza all’altra singhiozzando incapace di fare alcunché, Davide irritato, Niva costernata che cerca su internet delle possibili risposte e alla fine ci dice di andare al pronto soccorso come le ha consigliato un qualche medico al telefono.
L’ospedale è terribile, la gente pure. C’è polizia dappertutto insieme alla sicurezza dell’ospedale stesso, le infermiere non ti calcolano e io comincio a ritornare in me.
Quando finalmente fanno sedere Davide su una poltrona e la dottoressa gli fa le iniezioni io continuo a non accorgermi della mia discutibile pronuncia della parola rabbia e dunque chiedo quali sono le probabilità che un gatto randagio abbia il rabbino e quali sono i rischi di contrarre il rabbino, e cosa ti succede quando hai il rabbino.
Fortunatamente la dottoressa è indiana, il suo inglese è un incidente di vocali senza senso e probabilmente non ha idea di quello che sto dicendo, le sue risposte sono sibilline come un linguaggio perduto e cacofonico.
Un dialogo produttivo.
Usciamo tre ore dopo essere entrati, ci avviamo verso casa nella città illuminata dalle insegne dei ristoranti cinesi dove ti prendi la salmonella, acciaccati e con la voglia di consolarci per la nostra vita tragicomica sotto le coperte, dandoci la mano.
Poi un giorno sono andata a questa inaugurazione / festa nelle viscere di Brooklyn, in un nulla di grandi strade e di nomi di vie sconosciuti, abbiamo preso l’autobus per arrivarci e abbiamo visto per mezz’ora entrare e uscire pochi passeggeri. Sono tutti neri e portano a compimento la giornata con gli sguardi bassi e i pensieri altrove. É incredibilmente freddo, ci sono le pagine dei giornali pietrificate in una torsione nel ghiaccio per strada, quando camminiamo dobbiamo fare attenzione a non scivolare, qui sembra che nessuno si sia preso la briga di spargere il sale sui marciapiedi, ci sono lastre scivolose e sporche di diversi centimetri. Quando arriviamo non capiamo dove sono le birre e ci sono persone insolite per un’inaugurazione, trentenni DIY, il lato marcio e anti del mondo dell’arte newyorkese.
Sono tutti irrilevanti esteticamente e vestiti senza cura, il tipo di persone che frequenterei in qualunque altro contesto e che qui invece mi sembrano così fuori posto, così fuori tempo, delle cellule di altrove incastonate nel paesaggio desolato delle amnesie di Brooklyn.
Hanno acceso un fuoco nel giardino interno e tutto il posto sa di affumicato, faccio amicizia con una ragazza che è una ballerina, ma anche attrice in una compagnia di teatro sperimentale. E psicoterapeuta. Le chiedo che tipo di psicoterapia faccia, dice che è psico-dinamica e mi parla della difficoltà delle persone di sapere che sentono e capire cosa sentono. Che è importante conoscere se stessi e che bisogna conoscere se stessi e che lei va anche da un terapeuta per essere in grado di comprendere cosa sente lei e i suoi pazienti.
Capire cosa sentono le persone può essere utile, penso, non so bene a chi, spero si faccia pagare adeguatamente, ma a giudicare dal modo in cui il suo sorriso mi ha accolto e dal suo cappello direi di no.
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L’immagine di copertina è di Mattia Grigolo. Tutti i diritti sono riservati ©.
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