Immedesimati.
Hai 17 anni, cammini, la strada è buia e intorno non c’è nessuno perché vivi in un posto sperduto che non sopporti, ad ogni passo le catene che hai legato ai pantaloni più per scena che per tenere al sicuro qualcosa di valore sbattono e cingolano, stai producendo il rumore di un fantasma, e in verità ti senti un fantasma perché nessuno ti vede, e in verità ti sta bene sentirti un fantasma perché non vuoi che nessuno ti veda.
La fabbrica abbandonata dove stanno suonando è proprio dietro alla curva, man mano che ti avvicini i suoni si fanno più intensi e più taglienti, all’inizio era solo una vibrazione che dai piedi lentamente ti saliva fino alla nuca facendoti eccitare, è un rumore sexy quello, adesso senti anche lo stridore di una chitarra distorta, ed ecco, ora si è aggiunta la batteria. Ci siamo quasi.
Sei arrivato alla porta, la apri e ti investe il calore di quel posto riscaldato alla buona, individui subito il generatore in fondo alla stanza, gli altri gli puntano le mani addosso per farle scongelare, tu sembri un fantasma, loro sembrano zombie. Ti giri verso il palco, sei già completamente avvolto da quel suono grezzo, esasperato e senza accorgertene inizi a muovere a ritmo la testa avanti e indietro. Dando delle spallate ti mischi alla folla, alle creste, ai chiodi di pelle e al sudore, raggiungi un punto dove la visuale è abbastanza decente e la puzza abbastanza sopportabile e in quel momento il cantante urla il leit motiv della canzone.
L’inferno sono gli altri!
Lo grida a pieni polmoni. Se sei stato ad un concerto punk, credo sia stato facile immaginare la scena. Nulla di strano a riguardo. O forse sì?
In effetti qualcosa di stonato c’è – a parte il cantante probabilmente: L’inferno sono gli altri, non è il ritornello di una canzone punk. È una delle citazioni più famose di Jean Paul Sartre, dalla sua opera teatrale A porte chiuse.
Il setting dell’opera è molto semplice: quattro persone chiuse in una stanza, quella stanza è l’inferno. I protagonisti aspettano una punizione dopo la loro morte, ovvero che qualcuno entri per torturarli, ma questo non accade. Non accade perché saranno loro stessi a torturarsi a vicenda, con le loro domande, i loro giudizi, i rapporti viziati che creeranno.
Con questo Sartre non voleva comunicare che ogni relazione è un inferno, come spesso è stato travisato il senso del dramma, ma che la nostra personalità e il nostro io si costruiscono in base al giudizio dell’altro e se il rapporto con l’altro è malsano, allora – e solo allora – l’altro diventa l’inferno.
Alla fine dell’opera, i personaggi scoprono che la porta della stanza è sempre stata aperta, ma ormai, anche se avrebbero la libertà di farlo, non possono più uscire, perché sono intrappolati nella ragnatela di relazioni corrotte che sono nate. Loro stessi hanno creato una gabbia di abitudini, di dipendenza al giudizio, di vigliaccheria dalla quale non riescono a liberarsi. Nelle parole dello stesso Sartre: “È per questo motivo che sono morti, è un modo per dire che essere circondati dalla preoccupazione eterna e da azioni che non si vogliono cambiare, è una morte vivente”.
A fatica riesco a immaginare un tema più punk di questo, e mi vengono in mente i Nofx in The Decline quando cantano:
And so we go, on with our lives
We know the truth, but prefer lies
Lies are simple, simple is bliss
Why go against tradition when we can
Admit defeat, live in decline
Be the victim of our own design
The status quo, built on suspect
Why would anyone stick out their neck?
Insomma, L’inferno sono gli altri non sarà il ritornello di una canzone punk, ma potrebbe esserlo senza dubbio.
La volontà di sistema è una mancanza d’onestà (F. Nietzsche)
Il punk ha portato il caos in una musica che era governata dalla tecnica. L’esistenzialismo ha portato il caos in una filosofia che era governata dalla logica. Nella musica, c’erano i Pink Floyd, nella filosofia, c’era Hegel.
Hegel era un sistematico. Uno a cui piaceva scrivere in modo astruso cose lunghissime e incomprensibili, con l’ambizione di spiegare l’intera realtà. E in effetti l’ha fatto, a modo suo: ha creato un sistema perfetto in cui ogni cosa trova il suo posto, scontrandosi, auto-superandosi e infine conciliandosi in questa entità poco chiara chiamata Spirito. Se non hai mai letto Hegel scommetto che non hai capito niente. E se l’hai letto, beh…probabilmente lo stesso. Ma non importa, non ne parleremo più. Quello che ci interessa, invece, è che ad un certo punto, all’inizio dell’800, un danese biondo e cagionevole si accorge che in questo sistema hegeliano perfetto si era perso di vista qualcosa, e quella cosa era l’uomo. Così Kierkegaard rimette l’esistenza al centro della riflessione, considerando la realtà non come armonia, ma come un complesso disarmonico di possibilità che si scontrano drammaticamente.
Le idee di Kierkegaard – e di altri precursori dell’Esistenzialismo – vengono riprese in mano nel 900, soprattutto nel periodo fra le due Guerre. La filosofia che si va formando prende il nome di Esistenzialismo, ha tantissime sfumature al suo interno, ma un importante connotato generale: È una filosofia che si caratterizza come anti-filosofia. Da alcuni, addirittura, non è nemmeno considerata una filosofia. Questo perché si oppone a qualsiasi sistematizzazione, rifiuta le categorie, rivendica il valore particolare dell’esistenza come esperienza angosciante, precaria e incompleta. Nelle opere di questi autori non troviamo grandi schemi, concettualizzazioni ordinate, spiegazioni definitive. L’Esistenzialismo è più sentimento che ragione, più decostruzione che soluzione.
E se l’Esistenzialismo è una filosofia che è anti-filosofia, il punk è musica che è anti-musica. Il punk rompe con il rock classico e con il rock progressivo, inserendo elementi di disturbo e di improvvisazione nella composizione. Fa con la musica quello che Kierkegaard un centinaio di anni prima faceva con la filosofia: si ribella ai tecnicismi, alla perfezione, alla regolarità che soffoca l’espressione individuale. Il punk nasce e si espande in una varietà che qui non ha senso restituire, ma, come l’Esistenzialismo, ha un carattere di fondo: smonta le regole formali, rifiuta i tecnicismi, mette l’espressione di fronte alla regolarità della composizione, il pathos sopra ai virtuosismi.
Come tanti filosofi esistenzialisti sono stati accusati non saper filosofeggiare, tanti musicisti punk sono stati accusati di non saper suonare.
Peccato che, in entrambi i casi, chi accusava non capiva che l’obiettivo di esistenzialisti e punk, era proprio quello.
Sui sentieri dell’angoscia si cammina aggrovigliati (Kalashnikov, Angoscia rock)
Adesso, invece, provo io ad immedesimarmi.
C’è stato un momento in cui tutto aveva un posto e se ne stava bene là, senza questioni. Sì, ogni tanto c’era un problema, ma si risolveva. Ogni tanto qualcuno se ne andava, ma poi qualcun altro arrivava al suo posto, qualche volta durante il giorno sentivi un rumore di sottofondo che ti sfasava, come una frequenza sbagliata, un’interferenza, ma ci mettevi poco a risintonizzarti.
Poi, improvvisamente, è successo. Forse eri in coda al supermercato, stavi appoggiando quel pezzo di formaggio scontato sul rullo e sei rimasto là a fissarlo interdetto, come se avessi in mano plutonio. Oppure eri sul balcone di casa che ti accendevi una sigaretta, hai buttato fuori una boccata di fumo e vedere quella nebbia grigia che si disperdeva nell’aria, senza direzione, ti ha disorientato, come se tu fossi là in mezzo. Magari, invece, stavi parlando con qualcuno, ma ad un certo punto le parole hanno smesso di avere senso e se ne sono rimaste sospese a mezz’aria davanti a te, in tutta la loro inutilità, rozza e spaventosa.
È successo che hai sentito che dentro di te non c’era più niente e al di fuori di te c’era troppo, invece, e non saresti mai riuscito a gestire tutto quel troppo con il niente che ti era rimasto dentro. È successo che ti sei sentito cadere nel vuoto, hai allungato una mano per toccarlo, quel vuoto, e allora lui ti ha ingoiato e ti ha spogliato, lasciandoti nudo e solo, infinitamente solo, a guardare tutte le scelte impossibili che non avresti mai e poi mai potuto prendere nella tua vita.
È successo che hai sperimentato quello che gli esistenzialisti chiamano l’Angoscia Esistenziale. È il sentimento che provi quando comprendi di essere una molecola insignificante che vive una vita priva di senso in un universo indifferente e privo di direzione, che continuerà ad esistere benissimo anche senza di te.
Gli esistenzialisti hanno speso libri e libri per descrivere il concetto, i Bad Religion lo hanno fatto in qualche riga di The world won’t stop without you, perché, se come songwriter hai uno con la testa di Greg Graffin, qualche riga è più che abbastanza:
You’re only as elegant as your actions let you be
A piece of chaos related phylogenetically
To every living organ system, we’re siblings, don’t you see?
The earth rotates and will revolve without you constantly.
Two billion years thus far, now mister here you are,
An element in a sea of enthalpic organic compounds.
The world won’t stop without you.
Ma secondo me il sentimento puro dell’angoscia, quello poetico e straziante, esce meglio da questa canzone degli Arsenico, Un altro colpo di tosse. Mi ricordo quelle estati attorno ai vent’anni che spendevo in Trentino, quando di pomeriggio giravo con la mia Peugeot 106 blu ribattezzata Las Vegas. Facevo partire il cd e cantavo questa canzone con tutto il fiato che avevo in corpo, con le vertigini perché mi mancava il respiro, facendo arrivare alla testa quel senso di incompiutezza febbrile, che non sono mai riuscita a riempire. Mi è quasi insopportabile pensare a quanto adesso sia diversa da quella persona, ma allo stesso tempo ancora così tristemente uguale:
Non perderò il mio tempo impegnando i miei pensieri
facendo lunghe attese per diritti e poi doveri,
scervellandomi per dare soluzione transitorie,
impegnandomi in promesse sul domani che è già scritto
e non venirmi a dire che è in eccesso,
che il vento porterà via le mie frasi,
che la pioggia laverà via le mie colpe,
se io sento chiaramente per il male
che ho alla testa e nelle orecchie
Il mio preferito fra i filosofi esistenzialisti, che è Albert Camus, dà una connotazione leggermente diversa a questa angoscia. Lui la chiama Assurdo. Una parola bellissima. Per come la vedo io, Camus leviga un po’ le asprità dell’angoscia e la fa diventare un sentimento che è sì, spiazzante e terrificante, ma è privato di quella negatività insita nell’angoscia radicale. È più facile accettare l’assurdo che venire a patti con l’angoscia. Incorporare l’assurdità nella propria esistenza è quasi eccitante, mentre gestire l’angoscia può essere un sacrificio.
Quando penso all’assurdo di Camus, a me viene in mente una vecchia canzone dei Marsh Mallows, Qualcosa di nessuno, che è un po’ arrabbiata e un po’ sciocca, e fa così:
Qualcosa di nessuno è quel momento in cui ti guardi allo specchio
Senza saper chi sei, la vita che ti guarda in faccia e ti dice “tu che cazzo vuoi da me?”
Qualcosa di nessuno è la natura che si abbatte sulle strade e ti fa capire che
Qualsiasi cosa che credevi fosse tua invece non l’è stata mai
Credo che serva soltanto un secondo, chiudere gli occhi e pensare che noi
Stiamo vivendo qualcosa di strano
The only way to deal with an unfree world is to become so absolutely free that your very existence is an act of rebellion (A. Camus)
L’esistenzialismo propone tante risposte al problema dell’angoscia, tutte vitali, tutte inebrianti, ma quella che dà Camus mi piace di più di tutte.
Si sintetizza in un altro concetto che trovo bellissimo: la Rivolta.
L’uomo in rivolta è l’uomo oppresso, lo schiavo, colui che soffre del peso dell’ingiustizia. Ma è anche l’uomo che riconosce lo stato di oppressione dell’altro, e perciò si rivolta in solidarietà. Per Camus il sentimento che porta alla rivolta disvela un carattere essenzialmente umano: il ribelle si oppone in nome di ciò che è proprio ad ogni uomo e la sua rivolta simboleggia la rivolta di tutti gli esseri umani. Scrive lo stesso Camus, con trasparenza: «l’uomo si trascende nell’altro e, da questo punto di vista, la solidarietà umana è metafisica». E, poco dopo, conclude facendo il verso a Descartes: «mi rivolto, dunque siamo».
Quello di cui parla Camus è un moto inconscio universale, che dal basso dei nostri stomaci, là dove nasce lo sdegno per ciò che ingiusto, si riverbera verso l’esterno, portando al di fuori di noi la nostra protesta, e facendoci tutt’uno con coloro a cui ci stringiamo attorno.
L’ultima volta che ho sentito questo impulso ero in un bar a Berlino, stavo parlando con un’amica. Ad un certo punto è arrivata una ragazzetta a chiedere l’elemosina. Era minuscola, nascosta da tre o quattro strati di maglioni, portava uno zaino troppo grande per lei. E sorrideva. Aveva un sorriso che le abbracciava tutta la faccia e le chiudeva gli occhi a fessura. Ma era un sorriso che non arrivava là dove voleva arrivare – che sarebbe stato stupendo se avesse potuto, sarebbe stato uno dei sorrisi più belli che avessi mai visto – perché c’era un senso di sconfitta, là in mezzo, che lo tratteneva. Mi si è formata un’immagine in testa di una persona che si vuole tuffare nel mare, ma stenta perché è in un punto pericoloso della scogliera. Per la ragazzetta, sorridere era pericoloso.
Sorridere era pericoloso.
Non c’è un motivo valido, ragionevole, umano, non uno al mondo che può giustificare la paura di sorridere, soprattutto per una ragazzetta timida e minuta, che se ne va in giro con uno zaino ed un cane più grossi di lei, come in un cartone animato. In quel momento, nella mia coscienza, fra me e lei non c’è stata nessuna distinzione, la solidarietà ci ha rese tutt’uno.
Ci sono due motivi per cui ho voluto paragonare il punk all’Esistenzialismo, che ha uno sviluppo positivo, e non al nichilismo, che invece rimane chiuso in una parabola negativa, come forse sarebbe stato più scontato fare, ed è già stato fatto.
Il primo motivo è che, anche nel punk, inteso più come fenomeno culturale che musicale, si può trovare questo desiderio di rivolta, di ribellione e di solidarietà. Soprattutto negli ultimi anni, nella mia esperienza personale, ho visto quest’attitudine prendere un risvolto propositivo e costruttivo nella lotta al capitalismo, allo sfruttamento delle minoranze, alla protesta contro le ingiustizie. È innegabile il sentimento di solidarietà che si percepisce alle assemblee, alle manifestazioni, ai concerti di raccolta fondi. C’è appartenenza, impegno e una voglia radicale, dolorosa di cambiamento. E c’è anche un sentimento di condivisione profondo e di legame familiare.
Quando vivevo in Italia c’era questa cosa chiamata “Marcio tour”. Il Marcio tour consisteva in una serie di concerti che venivano organizzati in occasione del ritorno di Marcio, amico e personaggio molto buffo che ogni tanto rimpatriava dopo aver vissuto per qualche mese qua e là nel mondo, e che aveva una band in Val di Non, i Dangerous Gases. Il primo Marcio Tour è stato nel 2006 se non ricordo male, l’ultimo forse un paio di anni fa. Ecco, chi seguiva il Marcio Tour era una famiglia. Per anni abbiamo condiviso questa cosa strampalata, rumorosa ed esilarante che ogni volta esplodeva in un baccano infernale, e brillava, eccome se brillava, anche se vista da fuori probabilmente aveva solo la forma di un gruppo di ubriachi, fastidiosi e inopportuni, che si saltavano addosso.
Non importa se non ho più contatti con molti di questi amici, per me con loro resterà sempre un legame, loro saranno sempre un po’ Famiglia.
E, visto che si parla di familiarità, nel fare un parallelo con una canzone questa volta voglio citare i miei amici Congegno, che hanno pubblicato due album straordinari. Questa è Prima o poi e parla proprio di rivolta:
Assaggeremo la carne dei nostri compagni e dei nostri nemici
strapperemo dai nostri cervelli le vostre ingorde radici
risorgeremo dalle nostre macerie
ne usciremo stremati ma ritorneremo più forti di prima
siamo stati comprati siamo stati sfruttati e ora ciò che resta è un pianeta
di cani arrabbiati sì! Daremo inizio al nuovo mondo là dove finirà la vostra storia
niente più schiavi niente più padroni soltanto uomini per sempre liberi
Il secondo motivo, è più personale e forse è il vero motivo per cui sto scrivendo.
Un pomeriggio del 2006 ero seduta sulla riva del Lago di Santa Giustina che aspettavo iniziassero dei concerti. C’era ancora il sole ed io ero da sola che guardavo l’acqua.
Ero malinconica. Non una grande sorpresa, sono sempre stata malinconica. Ho sempre avuto quest’ombra che cresce di pari passo alla mia felicità, in modo da controbilanciarla in ogni momento, in modo che se una diventa grande, diventa grande anche quell’altra, e sono condannata ad una lucidità che non mi concede mai di dimenticare che la mia vita non ha nessun senso oltre a quello – fragile e precario – che io decido di darle.
In quel pomeriggio del 2006, ho sentito quella malinconia diventare sempre più forte e quell’ombra sempre più nera. Non le contenevo più, mi trapassavano, mi scavalcavano e scivolavano giù, fino all’acqua del lago, diventavano liquide, squamose, invadenti e sporche come l’acqua del lago. Forse lo sapete, che ogni tanto quel peso diventa insopportabile da trascinare e diventa più importante della vostra stessa esistenza, che si fa minuta, indifesa, incapace di sorridere, come una ragazzetta che chiede dei soldi in un bar.
Ma poi è iniziata la musica. E in quel momento l’ombra si è ritratta, è tornata dentro a nascondersi, e io ho sentito che tutto il mio corpo e la mia testa iniziavano a ridere, si sganasciavano dalle risate e mettevano in ridicolo la malinconia e la tristezza, e anche la felicità, perché quelle cose non contavano più, erano piccole e triviali, contava solo la musica, la musica come esperienza esistenziale.
Ecco perché non potrei paragonare il punk al nichilismo. Perché contiene la via d’uscita al nichilismo nel suo stesso essere, ha in sé la risposta all’assenza di senso nello stesso momento in cui si presenta al mondo sotto forma di musica. E io l’ho provato troppe volte questo sentimento, dopo quel giorno del 2006, per non essere sicura che sia esattamente così.
in copertina: Jello Biafra – Dead Kennedys
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