Caro Tommaso,
Ho deciso di venire a trovarti. Arrivo il 22 giugno, l’aereo atterra alle nove e trenta della mattina. Ti aspetto nella sala degli arrivi, spero di vederti là, ma se preferisci non venire, lo capisco. In quel caso, tornerò a casa con il volo successivo.
Papà.
La lettera è arrivata ventinove giorni fa. Poche righe. Per il resto, solo un foglio bianco.
***
Di bianco c’erano i centrini ricamati sul tavolo in cucina, il mio maglioncino preferito, che aveva la testa di un lupo stampata nel mezzo, e i nostri tre gatti, Glen, Mina e Cora. C’era anche il cappotto della zia Vera, che veniva tutte le domeniche a trovare te e la mamma, fino a quando un giorno l’ho sentita urlarti cose arrabbiate e poi non è più tornata. Mi piaceva la zia Vera, mi portava sempre un regalo, ma mi faceva anche un po’ paura perché quando se ne andava mi guardava come se mi volesse portare via con sé. Avevo otto anni quando la zia ha smesso di venire a trovarci. Tu cinquantadue. La mamma quarantadue. La mamma era bellissima con i capelli biondi lunghi e profumati. Tu non mi parlavi mai, ma io non ero ancora arrabbiato con te allora, perché ogni tanto mi portavi a passeggiare nel bosco, io ti chiedevo i nomi delle piante e tu li sapevi tutti. Me ne ricordo ancora alcuni: la quercia, il carpino, il castagno, il faggio, il frassino, l’olmo, il salice e il nocciolo. Poi ce n’erano tanti altri. La mamma non veniva mai con noi e io ad un certo punto della gita avevo nostalgia e volevo tornare a casa. Se mi distraevo, poi, capitava che ti dimenticavi di me e mi lasciavi indietro. Allora piangevo. Una volta invece di aspettare che tornassi a cercarmi ho continuato a camminare e mi sono perso. Sono rimasto nel bosco da solo fino a quando il sole è sceso e tutto è diventato freddo. Avevo paura. Alla fine mi hai trovato, forse perché urlavo tantissimo e piangevo tantissimo. Da quel giorno ho iniziato ad essere arrabbiato con te, papà.
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Adesso stiamo camminando vicini. Lui mi tiene il braccio con una stretta leggera e io mi sforzo di non accelerare, di stare dietro a quel suo passo molle, da moribondo. Fatico ad afferrare quello che sto pensando. I miei ultimi anni di vita si anneriscono, ad ogni metro che percorro di fianco a lui il mio dolore brucia e si squaglia, è come non fosse esistito. Alcuni eventi sono come un marchio, cambiano valore alle cose, gli mutano sostanza.
Cosa sarebbe stato diverso per mamma, se avesse saputo?
La strada è affollata e qualche volta incrociamo qualcuno che ci fissa. I più ci lanciano almeno un’occhiata di sfuggita e poi girano in fretta la testa, perché si vergognano di essere stati colti sul fatto.
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Mi vergognavo anch’io quando ero piccolo, lo sai papà? Mi vergognavo di te. C’era qualcosa di sbagliato in te, qualcosa di incomprensibile che ti faceva cozzare contro il vivere quieto di una comunità ristretta, e ti faceva apparire fuori posto in ogni momento. Ti prendevano in giro tutti ma tu facevi a finta di niente. Non ti importava se poi prendevano in giro anche me. Era anche per questo stavi sempre da solo, che sparivi per ore, che ti nascondevi? Dove andavi a nasconderti, papà?
Lo sai, io un giorno il tuo nascondiglio l’ho visto.
Era freddo quel giorno di novembre, era il 23, era il compleanno di mamma, io avevo dodici anni, lei ne compiva quarantasei. A scuola le avevo dipinto un quadro, un ritratto. Era brutto. Ma quando gliel’avevo dato lei aveva sorriso. La mamma era bellissima quando sorrideva, ti ricordi il suo sorriso, papà? Quanto ti vedeva entrare in casa le si allargava la faccia che sembrava una torta alla vaniglia, dolce, che potevi quasi sentirne il sapore. Tu invece la guardavi come se avessi le scuse che ti uscivano dagli occhi, come se ti trovassi a casa per sbaglio e dovessi stare con noi col contagocce.
Il 23 novembre 2002 era il compleanno di mamma e noi ti aspettavamo in soggiorno, senza parlare, lei con l’ansia nella pancia che le faceva ballare le ginocchia, ma tu non arrivavi.
Allora sono venuto a cercarti.
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Ora so che scrivere quelle parole su un foglio di carta è stato difficile per lui come inciderle sulla carne viva. So che prendere quell’aereo e venire fino a qui gli ha richiesto di rompersi, all’interno, da qualche parte, per fare uscire un sé che non aveva mai voluto vedere e che per questo non aveva mai preso luce, era denutrito, agonizzante, in fin di vita.
Con uno sguardo di sbieco osservo la sua espressione. Ha ancora quegli occhi verdi affilati, che da piccolo avevo l’impressione mi trafiggessero, senza però vedermi mai. Adesso hanno perso in acume, sono occhi di squame, occhi di pesce. Non resistono al mondo, gli si arrendono dentro in un abbandono sfinito. Quanto deve avere faticato a rimanere estraneo a se stesso, ad allontanare me perché forse aveva paura che io diventassi come lui, ad allontanare mia madre perché non si può accettare l’amore, se si può dare di ritorno solo tiepido affetto. Tutta quella fatica l’ha mangiato, l’ha fatto ammalare, e ora gli si appoggia sulle spalle, è un fantasma con cui ha convissuto tutta la vita, e che adesso ha la sua stessa consistenza, vana e impalpabile consistenza.
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I pedali della bicicletta viaggiavano più veloci delle mie gambe, ogni tanto un piede mi scivolava e mi arrivava una zampata sul tallone, sentivo il vento gelido salire su per i polpacci, passando dai pantaloni che mi andavano corti sulle caviglie. Cercavo la tua macchina per il paese, passavo per il bar vicino alla fontana, andavo a casa degli zii, percorrevo la strada che correva al paese vicino, ma non c’era.
Allora sono andato nel bosco.
Avevo paura ad andare nel bosco, era quasi buio e io non c’ero più tornato da quella volta che tu mi avevi dimenticato là in mezzo. Nel bosco c’erano tutti i miei pensieri tristi, quelli strani e quelli cattivi.
E tu eri là con loro perché, proprio all’inizio della stradina che si inserpicava nel petrolio delle foglie, c’era la tua macchina.
Cosa ci facevi nel bosco, papà? Mentre mamma era a casa che ti aspettava, cosa ci facevi lì, da solo, invece di stare con noi ed essere un bravo papà, o per lo meno un papà mediocre, mediocre ma normale?
Avevo le tarme nello stomaco e me ne volevo andare, ma non lo potevo fare. La voglia di sapere mi aveva già spinto giù dal sellino, mi aveva fatto incastrare il manubrio della bici nei rami di un cespuglio e mi aveva fatto camminare a raso con le piante verso di te, lentamente, per non essere visto.
La prima cosa che ho sentito sono stati i respiri pesanti portati dal vento. Li avevo già sentiti quei sospiri alla televisione, sulle reti regionali, di notte, quando non riuscivo a dormire, mi mettevo sul divano a fare zapping e arrivavo su quei canali che abbondavano di tette e di dialoghi abbozzati, di vestiti che cadevano e mani che frugavano impazzite.
Poi ho visto due sagome in lontananza, fra le foglie e l’aria color pozzanghera. Non eri da solo, papà. Tu eri girato di schiena, con i pantaloni abbassati, di fronte a te c’era una donna con un lungo vestito rosso, era alta, ma non riuscivo a vedere la sua faccia perché la affondava nelle tue spalle, e intanto muoveva furiosamente un braccio avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro ancora, mentre tu soffocavi i mugugni, strozzavi il piacere nella gola, perché lì doveva restare, dentro di te, nascosto, proibito, non poteva uscire e liberarsi nel vento, non poteva vedere le piante, gli alberi, le stelle che si stavano formando nel cielo, non poteva essere gridato e raggiungere le finestre delle case, serpeggiare nelle vite caste di quelle famiglie perbene, doveva restare segreto e sofferto, doveva recare dolore e manifestarsi castrato, senza gioia, bagnato di colpa.
Sono scappato via. Senza più badare al silenzio, me ne sono andato incastrandomi nei rami, tagliandomi con le spine, inciampando nelle zolle di terra bagnata. Ho fatto appena in tempo a vedere la testa della donna che si sollevava, qualcosa di fuori posto mi ha strattonato per un braccio, voleva che guardassi, ma mi sono liberato e presto tutto è finito nell’ombra, inghiottito dal bosco, a fermentare assieme a tutti gli altri pensieri penosi che avevo nascosto là dentro.
***
Ci fermiamo di fronte ad un negozio, lui scruta la vetrina come se cercasse qualcosa, io fisso la sua immagine riflessa nel vetro. Sta sorridendo e quella sua tenerezza ha qualcosa di grottesco. Non posso fare a meno di sentirmi sporco, ho come un rivolo di acqua fredda nella spina dorsale, rabbrividisco. Vorrei scappare di nuovo, vorrei correre verso qualcosa di normale che mi dia sollievo. Ma normale è solo la costruzione mentale di chi non è mai evoluto, di chi non ha mai sperimentato la sofferenza ed attraverso di essa non è mai diventato complesso. La normalità è pericolosa perché è piatta, non capisce e non comprende, per questo non potrà mai dare un vero sollievo.
Un bambino lo indica, la madre lo riprende, ma lui sembra non farci caso. Proseguiamo nel fluire di questi corpi sconosciuti, senza avere una meta, come nelle storie che non vogliono avere una fine, perché nella vita non c’è mai nulla di completo.
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Quando ho trovato la tua lettera, l’ho letta a voce alta la prima volta, e poi sono rimasto a lungo in silenzio. Anche i pensieri nella mia testa erano silenziosi, forse perché mi proteggevano da quello che avrei potuto ricordare era successo, dopo quel giorno del 2002.
Avrei potuto ricordare, ad esempio gli occhi azzurri di mamma che lentamente diventavano più opachi e i suoi gesti che si facevano fiacchi ed indolenti. La sua figura sempre più grassa, le giornate in cui non si alzava dal letto.
Io mi sedevo di fianco a lei, infilavo la testa sotto al suo braccio bovino e affondavo il corpo nel suo fianco molle, lei mi accarezzava i capelli e mi diceva di non preoccuparmi, ma come facevo io a non preoccuparmi davvero, come facevo, papà?
Avrei potuto ricordare lei che piange la mattina, lei che piange la sera, lei che piange la notte. Lei che singhiozza mentre mi prepara la colazione, lei che singhiozza mentre ci prepara pranzo, lei che singhiozza mentre ci prepara cena.
Avrei potuto ricordare che mamma prendeva uno sciroppo che le faceva accartocciare la bocca la mattina del lunedì, del mercoledì e del venerdì perché altrimenti diventava troppo triste e che prendeva delle pastiglie a forma di mezzaluna di martedì, giovedì, sabato e domenica, perché altrimenti diventava troppo stanca.
Avrei potuto ricordare la notte del 4 luglio 2004, quando lei aveva già inziato a parlare da sola, a perdere i capelli biondi profumati che erano diventati simili ad una scopa strapazzata, quando dalla mia camera ho sentito le sue urla. Era in mezzo alla strada, era nuda, aveva le tette molli, sentiva le voci, e la coperta che i vicini avevano portato per coprirla non bastava ad avvolgerla tutta.
Ma non avrei potuto ricordare te, perché tu in tutto questo non ci sei mai stato.
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Per ventinove giorni non ho pensato alla sua lettera. Ho dormito, ho mangiato, ho lavorato, sono andato al cinema due volte, ho finito un libro, ho visto uno spettacolo teatrale dove degli uomini vestiti di bianco per tutto il tempo danzavano in silenzio intorno ad una mela, si passavano la mela di mano in mano, leccavano la mela, poi la mangiavano e ne sputavano i pezzi sul pubblico. Sono uscito dal teatro con la nausea, mi sentivo come quei pezzi di mela, era il ventinovesimo giorno. La mattina seguente mi sono alzato e, senza davvero prendere una decisione, sono andato all’aeroporto.
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Oppure, ecco quello che avrei potuto ricordare:
Era il pomeriggio del 13 agosto 2006, io tornavo a casa dal lago, era la prima giornata che passavo al lago dall’inizio dell’estate perché con mamma ci stavi tu avevi detto, avevi detto che ci stavi tu con lei. Entravo in casa, appoggiavo le chiavi sul tavolino di marmo dell’ingresso e quelle facevano un rumore assordante. Perché quel rumore mi pareva così assordante, papà? Perché c’era troppo silenzio, c’era un silenzio che non avrebbe dovuto esserci, perché mamma stava sempre a guardare la televisione e allora sentivi le televendite che urlavano di padelle o materassi, oppure stava a fumare sul davanzale e allora sentivi il risucchio ritmico del suo respiro – pah, fuu – oppure stava mangiando, allora sentivi la sua bocca che si muoveva, il cibo sotto ai suoi denti che si macerava e poi un sonoro deglutire soddisfatto. Invece quel pomeriggio non c’era niente di tutto questo.
Sai perché non c’era niente di tutto questo, papà?
Non c’era perché mamma era morta.
Mamma era nel letto, aveva la faccia nera e gonfia, assieme a lei c’erano tante pillole blu a forma di mezzaluna, c’era un panino al prosciutto di cui potevo sentire l’odore appoggiato sul cuscino e una bottiglia di vodka rovesciata sul pavimento che aveva creato una chiazza a forma di mela. “La mamma si è uccisa” continuavo a pensare “la mamma si è uccisa”, ma sai cosa sentivo davvero, papà? Sentivo sollievo, perché mamma era triste, profondamente triste, e se si era uccisa voleva dire che forse non ce la faceva più a sopportare la sua vita, la sua mole, le sue voci nella testa. Allora così si era liberata, mi aveva lasciato da solo ma non importava, perché lei finalmente era libera, era tornata giovane e bella, con i suoi capelli morbidi e gli occhi che profumavano di vaniglia.
Però poi l’hanno portata via, ci sono voluti tre uomini per metterla sul lettino, ti ricordi, papà? E ti ricordi cos’hanno detto all’ospedale, poi? Hanno detto che non era vero che si era uccisa, hanno detto che aveva un pezzo di pane che le si era incastrato nella gola, ne aveva preso un boccone troppo grosso, non era riuscita ad alzarsi per fargli cambiare posizione e probabilmente era rimasta così a rantolare nel letto rovesciando tutto quello che aveva attorno per dei minuti che devono esserle sembrati eterni, probabilmente chiamava aiuto, probabilmente cercava te, che avresti dovuto essere là, avresti dovuto salvarla.
Ma tu, papà, ancora una volta tu non c’eri.
***
“Voglio sedermi”. Stiamo camminando da quasi un’ora quando me lo dice. Siamo lungo il fiume, lo accompagno ad una panchina. Nel sedersi si sistema con cura il vestito. Lo ha portato dall’Italia, lo teneva nella sua piccola valigia nera, assieme a poco altro. Gli va largo, forse la malattia l’ha fatto dimagrire molto solo nelle ultime settimane. Ma da come si muove, sembra che lui si senta a suo agio là dentro.
Non ci siamo parlati a lungo da quando è arrivato, quasi per niente a dire il vero. Quando ci siamo incontrati, in aeroporto, non sono riuscito a dire nulla.
Lui ha appoggiato per terra la sua borsa e ha allungato le mani per prendere le mie, ha allungato le sue piccole mani grigie, due topolini agitati, e mi ha guardato con quegli occhi verdi, perforanti, che per la prima volta non sono passati oltre e si sono fermati su di me, e mi hanno visto a lungo, hanno visto come sono stato triste e miserabile in tutti questi anni e, infine, si sono bagnati.
***
Il giorno dopo il funerale me ne sono andato, tu eri seduto sul divano, su quel divano dove io e mamma ti avevamo aspettato per giorni, avevi ancora le braccia forti e la faccia dura allora, ma quella faccia te la tenevi tra le mani e singhiozzavi, singhiozzavi come faceva lei quando tu la lasciavi da sola, come aveva fatto per anni mentre tu eri chissà dove e lei si ammazzava di sensi di colpa perché tu non la guardavi, non la toccavi. E lei pensava che fosse quel suo corpo enorme che cresceva e cresceva che ti disgustava, e si rimpinzava ancora di più perché non riusciva a rompere quella frustrazione. È inutile che singhiozzi papà, l’hai uccisa tu, e non importa quanto tu sia vecchio e ammalato, stanco e pentito, una parte di me non ti perdonerà mai del tutto per questo.
***
Prima di andare a camminare siamo andati in albergo. Aveva l’indirizzo scritto su un pezzo di foglio che teneva in tasca, me l’ha allungato senza dire niente. Non è più molto lucido, l’ho capito appena ho visto l’espressione da bambino che la sua faccia ha assunto, come succede ai vecchi quando diventano senili. Un regalo che ci fa la vita prima di abbandonarci, permetterci ancora una volta di vedere le cose con occhi innocenti.
In albergo ha messo la sua piccola valigia sul letto e, lentamente, con occhi sfavillanti, come se quello che conteneva fosse per lui una sorpresa, l’ha aperta.
Il vestito che ne ha tirato fuori era un vestito di velluto rosso da sera un po’sciupato, consumato dagli anni, con dei ricami bianchi intorno al collo e dei delicati decori a pizzo sul bordo inferiore.
“Aiutami a metterlo, dai”.
Senza aspettare una risposta si è spogliato, con l’eccitazione che gli faceva perdere l’equilibrio, un uccellino appena uscito dal nido, brutto, malfermo, ma anche quasi pronto a volare. È rimasto nudo in tutta la sua decadenza, segnato dal male che la vita fa quando ti lascia e ti svuota piano piano di quello che eri, facendo posto alla morte, che ti prende avara, pezzo dopo pezzo. E potevo riconoscere i pezzi di lui che erano già morti, già in un mondo diverso, dove il tempo è già finito di passare.
Gli ho fatto alzare le braccia, appoggiandomi alla sua carne gelatinosa, gli ho infilato il vestito aiutandolo a fargli prendere la giusta posizione, muovendo nel giusto verso quei suoi arti rinsecchiti, poi gli ho chiuso la cerniera, attento che non si incastrasse nelle pieghe molli della sua schiena.
Ho aspettato che si guardasse allo specchio per un minuto o per un’ora, non ne ho idea, ho lasciato che si lisciasse le increspature nella stoffa, attentamente, che si sistemasse le maniche sui polsi, con precisione, che si girasse per vedere come gli cadeva dietro, soddisfatto.
Due occhi verdi, nell’ombra di un bosco, hanno guardato per un soffio nella mia direzione, e hanno ammiccato.
Poi, siamo usciti.
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Wale Café
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