Le Lunghe Ciglia di Agata è stato, per tanti anni, lo pseudonimo narrativo-giornalistico di un personaggio buffo nato nella provincia milanese, diviso tra la brava gente di paese, con la quale è cresciuto, che la bella gente di città. Sbocciato come firma dell’allora Zero2 (oggi Edizioni Zero), Le Lunghe Ciglia di Agata è un appellativo che si è portato dietro per molto tempo, talvolta come una piaga, talvolta come una corona.
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Il giorno del Signore che nasce e ci tratta bene. Così, perché ce lo meritiamo. A prescindere.
Che quando lo inchiodarono mani e piedi, con la sua coroncina al capo, gli occhi al cielo, un po’ se lo aspettava che non eravamo degli angioletti, secondo me.
Ma un pugno in culo all’umanità si sente forte e chiaro. Nei secoli dei secoli.
E dunque, eccoci qui. Scarta il tuo regalo.
Mia cugina ha gli occhi azzurri, che se ti ci metti ti ci puoi specchiare. Io c’ho la forfora che se mi attaccano le palline e mi scuotono un po’ cantando Jingle Bells, faccio sia la neve che l’atmosfera giusta.
Accendimi come un albero di natale e fammi partire come una stella cometa.
Mia cugina ha gli occhi azzurri ed è lì che fa la cameriera, il giorno della festa. Così io capisco che sì, il Signore oggi le ha insegnato per bene quella cosa dell’essere trattata bene.
Mia nonna non si ricorda come si chiama mio padre, suo figlio, così lo chiede a mia zia, sua figlia, e mia zia nemmanco si ricorda come si chiama mio padre, ma solo perché gli deve tanti soldi e guarda un po’, mio padre non ha più un nome.
Io c’ho una camicia nera e i pantaloni grigi classici e una giacca anch’essa nera ,con l’interno azzurro e dietro la schiena c’ho un disegno con dei dadi da gioco e la scritta Love ‘n’ Fire, che poi quando giocheremo a carte, più tardi, io farò quello esperto con l’asso nella manica.
Mia zia, che non si ricorda come si chiama suo fratello, mi chiede se faccio ancora il cantante. Io le dico di darmi una chitarra e un acido. E le bucce delle arachidi per coprire le caselle della tombola.
Mio zio mi racconta di quando, in Via Mario Greppi straripava il Re dei Fossi, la fogna che stava sotto Borgolombardo e San Donato Milanese, provincia sud di Milano. Mi racconta che loro, da ragazzini, usavano le porte per navigare nelle fogne e le braccia delle ragazze per pagaiare. Mia madre anch’essa è cresciuta in Via Mario Greppi. Ed era una donna, quindi una ragazza, ai tempi, quando il Re dei Fossi bagnava gli zerbini e le caviglie.
Signore dammi la forza di digerire le ottanta portate senza correre in bagno a vomitare, come è accaduto a mio fratello, d’altra parte.
Così poi io vado in macchina a sdraiarmi un attimo insieme al sedile, che si sdraia con me se io tiro la leva giusta, se tiro quella sbagliata, invece, finisco con il naso contro il parabrezza. Lascio il parentame all’interno del ristorante. Vado a sentire le canzoni del Natale alla radio.
Invece alla radio c’è Beyonce, che di natalizio ha solo il conto in banca di J Zay, che poi la tradisce e poi le dedica le canzoni del tradimento. Gran bel regalone.
Così io mi addormento e mentre mi addormento penso che forse resterò qui fintanto che la macchina si congelerà e il sangue nelle mie vene pure, e morirò assiderato a qualcosa come dieci metri dai miei parenti tutti.
Penso anche a quell’atleta keniota, residente in Alaska, che esce per fare jogging, si perde, lo ritrovano dopo due giorni e gli devono amputare entrambi i piedi perché il freddo gliel’ha fusi con le Adidas da campestre.
Come caspita si fa a dare la residenza in Alaska a un Keniota?
Mio fratello bussa al finestrino quando ancora non sono morto congelato e mi dice, c’hai la brina sui baffi, entra che siamo al dolce.
Gli rispondo che non è brina, è forfora.
Rientro.
Mio padre e mio zio giocano a quella cosa dei coltelli, come ogni anno.
Mio zio mi chiama con un nome che non è il mio: Vieni Andrea, vieni che t’insegno.
Mia madre dice che no, sono ancora troppo piccolo.
Io non mi chiamo Andrea.
E quel gioco del coltello l’ho fatto per tutti gli anni delle scuole medie superiori, senza perdere nessuna falange, al contrario di mio zio. Però lui dice che la falange l’ha persa durante le lotte operaie; non è vero, mio zio s’è tranciato la prima falange dell’indice mentre tagliava lamiere per cartelli stradali, in un giorno in cui si è dimenticato che prima di addormentarsi sul macchinario, occorre spegnerlo.
Gli amici suoi del Partito di Liberazione Marxista Leninista mica gliel’hanno ridata la sua falange. Manco la lotta operaia.
Ora trasporta materiale radioattivo fino in Svizzera, in Trentino e ha i capelli bianchissimi e dorme sul camion. Il Camion l’ha chiamato Ernesto e c’ha fatto quattrocentomila chilometri in due anni.
L’altro mio zio, che poi non è mio zio, ma io lo chiamo zio perché mi fa tenerezza, che ha passato la vita da solo, che non ha mai avuto una moglie, una donna, una ragazza, nemmeno un puttana, quest’altro mio zio si ricorda tutte le targhe dei mezzi di trasporto che gli si sono fermati davanti durante la sua esistenza per più di un giorno.
Si ricorda la targa della moto che mio padre aveva prima che nascessi io e la targa della 50 Special del pazzo che entrava in chiesa durante le messe, facendo il pistolero con le pistole giocattolo.
Si ricorda la targa della Giulietta 1600 dell’Albino e dell’Ape che Maurizio guidava da casa alla latteria.
Dovrebbe usarlo la Polizia per fare le indagini, questo mio zio che non è mio zio.
Nel giorno di Lui che ci tratta bene io dico che va bene così, che potremmo andarcene, prima che mio padre si affetti un dito con il gioco dei coltelli, prima che mia nonna si accorga di avermi dato più soldi che agli altri nipoti, prima che mio fratello s’innamori della tipa che sta all’altro tavolo, anche perché tentare di conquistarla facendo le bolle soffiando dentro il bicchiere di vino non credo sia una buona tattica d’approccio.
Al ritorno in macchina ruttiamo, a turno, che quando si è da soli, quando si è in famiglia, lontano dal resto della famiglia, ci si può rilassare, slacciare la cintura ai pantaloni, togliersi le scarpe con i tacchi, parlare male e ruttare forte. Per l’appunto.
Domani è Santo Stefano.
Il giorno in cui l’umanità non si accorse che Nostro Signore ci stava già facendo quella cosa terribile, e allora faceva ancora festa. L’umanità.
Tratta da ‘Agata non Sogna’ – 25 dicembre 2011
Immagine di copertina: Rielaborazione di Yanez – Grilled Cheese (tutti i diritti riservati)
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