Non vi nascondo un certo dispiacere quando, sentendo parlare David Byrne in occasione di una sua recente conferenza tenutasi alla New School University di New York, non ho visto l’artista ballare, o meglio muoversi confusamente, sui ritmi di “Desconocido Soy”. Tra infiniti link, cartelle e schede aperte, l’8 gennaio improvvisamente vedo la pagina Facebook dell’artista movimentarsi più del solito: nuove foto, esce il video del nuovo singolo e di lì a poco parte lo streaming della conferenza, che lascio partire in sottofondo. Il rettore presenta l’artista: Byrne entra, total black e giacca rosa, mentre studenti un po’ intimoriti applaudono e, proprio quando mi aspettavo una Byrniata, lui inizia a parlare con serietà, e a ridere, con nervosismo.
La conferenza non si basava sul contenuto del nuovo disco in uscita a marzo, “American Utopia”, come mi aspettavo e come speravo (certo, ignorando completamente il chiaro titolo della conferenza), ma su un progetto più ampio dell’artista: Reasons To Be Cheerful. Il titolo, preso in prestito dalla canzone di Ian Dury and The Blockheads, “Reasons To Be Cheerful, part 3”, già preannuncia lo spirito ottimista del progetto che attraverso varie tematiche sottolinea come, nonostante siano senz’altro tempi negativi un po’ per tutti, i progetti in corso, a scopo educativo e formativo, per i quali essere grati e felici, sono molti e in effettiva crescita. Gli argomenti di Byrne sono l’impegno civico, i fattori climatici, la cultura, l’economia, l’educazione, la salute, la scienza e la tecnologia, e infine i problemi legati allo spazio urbano e al trasporto pubblico; tutte tematiche che influenzano la mappa mentale dei cittadini , come dice Byrne, e a lungo andare il funzionamento dello Stato nell’accezione più sociale del termine. Insomma, per chi avesse avuto modo di leggere “Come Funziona La Musica”, il saggio di Byrne di qualche anno fa, il discorso è quello che l’artista esprime nelle ultime pagine: si dovrebbe investire nella cultura, nelle arti e nello specifico nella musica per incoraggiare una vita oltre la povertà, la criminalità, l’abuso di droghe, l’insoddisfazione, l’alienazione.
Già membro dei Talking Heads, esplosi verso la fine degli anni settanta, Byrne fa parte di quella che potrebbe definirsi la generazione dei musicisti e artisti che hanno assorbito a pieno i discorsi sulla necessità dell’azione e dell’impegno politico presenti nell’estetica e nell’ideologia della musica rock e folk degli anni sessanta e settanta, sintetizzandoli oggi nell’equazione tra musicista e personaggio pubblico, tra un frontman e un politico. Prendendo ad esempio nomi noti, a voler delineare oggi l’azione politica di questa generazione si potrebbe prendere in considerazione il dissenso e la protesta esplicita sui social media di un Billy Bragg o di una Yoko Ono, ma anche le parole di Brian Eno (che si affiancano qui squisitamente a quelle di Byrne), quando dice, in modo forse più implicito, che fare arte è un’azione politica di per sé, e che è quindi compito dell’arte e della cultura riuscire a nutrire, a cogliere e a diffondere un messaggio politico, accompagnando il singolo attraverso le funzioni sociali e collettive. Ma se i discorsi sull’impegno politico, e l’impegno politico stesso, erano sì presenti nei circoli di musiche politicizzate di qualche decennio fa, rimangono pur sempre spesso ingranditi, se non costruiti, dalla critica, dal pubblico e dai musicisti appartenenti ai due generi musicali, tanto allora quanto oggi.
Deena Weinstein, sociologa statunitense e studiosa di heavy metal, scrive in un suo intervento del 2006, “Rock Protest Songs: So Many and So Few”, di come la sottocultura rock (dai musicisti ai semplici appassionati) sia convinta che la propria musica sia un’arma di protesta grazie anche all’influenza dei critici degli anni sessanta. Lungi dall’essere giudici imparziali, i critici hanno svolto un lavoro di vera e propria selezione di materiale musicale ed hanno favorito quelle band e quei musicisti che per un motivo o per l’altro dimostravano di tradurre in musica le loro visioni politiche. Ad esempio, qualsiasi cosa si intrecciasse con il movimento per i diritti civili o che andasse contro la guerra in Vietnam. Il procedimento è più o meno lo stesso anche oggi: di lì il mito di Bruce Springsteen come ‘working class hero’ o l’elogio alla sfrontatezza dei Clash. Weinstein, prima di concludere scrivendo che le canzoni rock di protesta siano state molto meno di quelle che qualsiasi fan sia portato a credere, continua affermando che forse il problema risiede proprio nella definizione stessa di ‘protest music’ e nella conseguente impossibilità di tracciare delle caratteristiche che riescano a descrivere tale musica. Se da un lato risulta evidente come “For What It’s Worth (Stop Hey What’s That Sound)” dei Buffalo Springfield sia riuscita a riflettere il trambusto politico locale quanto quello globale, vale a dire dalla sparatoria del ’66 in California alla guerra in Vietnam, più ambigue rimangono le canzoni di Chuck Berry, di Alice Cooper o dei Suicidal Tendencies e i loro lamenti contro il potere autoritario dei genitori o le noiosissime ore di lezione proposte dalla scuola come istituzione.
Vorrei però spostare ora l’attenzione verso un contesto geografico e culturale a me più familiare, quello dell’America Latina, dove nello stesso periodo il rapporto tra musica e politica ha assunto forme e significati diversi. La musica è stata per i paesi latinoamericani un medium per la contestazione, un messaggio politico in rime, un accordo non scritto attraverso il quale articolare le caratteristiche di un’identità condivisa: tra colpi di stato e le dittature, tra un regime totalitario e gli esili politici, c’era la musica folk.
In Cile, in particolar modo, i musicisti appartenenti al movimento conosciuto come ‘Nueva Canción Chilena’ hanno espresso la necessità di utilizzare collettivamente la musica come forza politica e sociale. Le origini del movimento vanno individuate nella musica di Violetta Parra, una delle figure più influenti per la musica folk latinoamericana, conosciuta per la sua opera di recupero e diffusione della musica tradizionale cilena e del folklore latinoamericano e per i testi politicamente impegnati. Nel 1965 a Santiago fonda insieme ai due figli, Isabel e Angel, la ‘Peña de los Parra’, uno spazio culturale dove il movimento inizia a prendere vita, attraendo artisti come Victor Jara e Tito Fernández, il chitarrista uruguaiano Daniel Viglietti, e ancora gli Inti-Illimani e i Quilapayún. Dalla peña poi, la ‘Nueva Canción Chilena’ prende forma e si espande, influenzando e accogliendo sempre più artisti interessati a riaffermare il ruolo e l’impatto politico della musica e dei musicisti.
Qualche anno più avanti, alle elezioni del 1970, in Cile vince il partito di sinistra Unidad Popular e viene eletto presidente Salvador Allende. Durante la campagna elettorale e durante quelli che saranno i pochi anni del governo, il partito conta con grande entusiasmo sull’appoggio di intellettuali come Pablo Neruda e delle figure principali della Nuova Canción. Non solo fa suo lo slogan del movimento “Non c’è rivoluzione senza canzoni” ma è proprio lo stesso Victor Jara a riprendere una canzone di Claudio Iturra, a rielaborare parte del testo e a renderla inno del partito, nonché a lungo andare simbolo della lotta socialista anche al di fuori dei confini cileni: “Desde el hondo crisol de la patria / se levanta el clamor popular / se anuncia la nueva alborada / todo Chile comienza a cantar, venceremos!”
Le riforme di Allende però non è che avessero riscosso un consenso unanime, tant’è che durante l’anno i tentativi di rovesciare il governo furono diversi, dunque scioperi continui, un paese nel caos e l’economia in crisi. La mattina dell’11 settembre 1973 il generale Augusto Pinochet come capo delle forze armate richiede, assieme ai carabineros cileni, le dimissioni del presidente Allende. Le dimissioni non arrivano, i militari assediano il palazzo presidenziale conosciuto come La Moneda, poi i bombardamenti, la morte di Allende, l’inizio della dittatura di Pinochet da quella mattina fino all’ottobre del 1988. Infine, il referendum. I cileni vengono chiamati a decidere tra il sì, che significherebbe lasciare Pinochet al governo per ulteriori otto anni, e il no, cioè l’inizio di un governo democratico. Vince il no.
“Abbiamo già detto no, ma il sì è ovunque” lamenta Nicolas Jaar, giovanissimo artista e compositore newyorkese di origini cilene, ad oggi molto apprezzato nel mondo dell’elettronica. “Abbiamo già detto no, ma il sì è ovunque” è il ritornello di “No”, la quarta traccia di “Sirens” (2016), che funge quasi da biglietto da visita stampato sulla copertina del disco. Volendo fare le cose secondo un metodo tradizionale, infatti, è bene partire dall’inizio e dimostrare come già dalla copertina il disco rifletta un discorso politico che viene articolato in modo chiaro, sfrontato, quasi scolastico, e allo stesso tempo rivelato con meticolosa lentezza e sensibilità artistica; lasciando all’ascoltatore la possibilità di cogliere o meno la serie di riferimenti della quale il disco si avvale. L’immagine è una foto di una installazione di Alfredo Jaar, il padre dell’artista. L’installazione faceva parte di un progetto artistico del 1987 che prevedeva la proiezione di diversi messaggi sullo ‘Spectacolor,’ un cartellone elettronico creato apposta per l’occasione a Times Square. In realtà però sono quasi due le copertine di “Sirens”: l’immagine del messaggio di Alfredo Jaar, “This is not America”, e con lui la critica politica che rappresenta, si lasciano scoprire solo se si gratta via con una moneta il rivestimento grigio. Grattata via la copertina poi, le sei tracce del disco si sviluppano allo stesso modo, nascondendo e lasciando trasparire, attraverso un percorso intimo dell’artista, il contesto politico e in particolare la critica verso la dittatura del generale Pinochet.
In un’intervista in occasione dell’uscita del disco, Jaar riflette sull’impatto politico di “Sirens” e della musica di oggi in generale, affermando il potenziale della musica dance come musica di protesta attraverso un piccolo aneddoto. Racconta di una sua lezione al Berklee College of Music a Boston dove chiese ai suoi alunni se per loro la musica strumentale elettronica possa essere considerata oggi musica di protesta. La risposta ce la da lui. Jaar aveva chiesto loro poi di comporre un brano ciascuno dando loro solo la lunghezza e chiave specifica, e lasciandole risuonare poi tutte insieme una sopra l’altra. La traccia finale, Jaar dice, è un prodotto di sei tracce composte da sei persone diverse provenienti da sei contesti culturali e geografici diversi, dove tali contesti coesistono e che può essere dunque definita sia come un unico lavoro o come l’insieme di un impegno collettivo.
Allacciandomi alle parole di Jaar e tracciando una linea con la musica folk di protesta che lo ha preceduto, aggiungerei che se oggi la musica impegnata viene in larga parte considerata in via di estinzione è solo perché si continua a guardare dove convenzionalmente si pensa che possa essere prodotta. L’impatto della ‘Peña de los Parra’ e di tutte le figure della ‘Nueva Canción Chilena’ è evidente perché il genere musicale in cui opera lo rende tale. Il messaggio politico viene rappresentato nella musica folk così com’è, senza confusione o ambiguità, e fa leva sulle necessità e richieste di una comunità che già sa cosa aspettarsi. Mentre in “Sirens” – allo stesso modo, in un disco come “Tayi Bebba” di Clap! Clap! o nei collage sonori di Romare o nella musica del collettivo asiatico Chinabot – il messaggio politico è un messaggio che sembra apparentemente inesistente e silenzioso, e che nel suo essere implicito costringe dunque il pubblico a una constante messa in discussione.
“Sirens” è un album che, così come “No”, gioca in tutto e per tutto sugli opposti cercando di contrapporre (o forse meglio, bilanciare) le dinamiche della sfera privata con quelle della sfera pubblica, le convinzioni del passato con le incertezze del presente e del futuro, le musicalità linguistiche dello spagnolo con quelle dell’inglese, l’America del Nord con l’America del Sud, la familiare trasparenza dei testi come quella di una qualsiasi canzone pop con la spigolosa tranquillità della musica elettronica, il divertimento con la concentrazione. Ed è sugli opposti che il disco, in termini strettamente tecnici quanto intellettuali ed estetici, afferma non solo la sua continuità con le origini cilene dell’artista e dunque con la consapevolezza politica espressa attraverso l’identità latinoamericana, ma anche un’attenzione verso la trascendente ubiquità dell’effimero, dei sentimenti, del momento. Abbiamo detto no ma il sì è dentro e fuori, vicino e lontano, in quello che è successo e in quello che succederà. Poi “No” si chiude, i ritmi si affievoliscono, e da uno spezzone di una vecchia registrazione personale si sente la voce di papà Alfredo che chiede al piccolo Nico di raccontare una bella storia, una qualsiasi che piaccia a lui: “El que a ti te guste, cuenta un cuento lindo”.
“C’era una volta un uccellino che volava…”
Fiamma Mozzetta nasce in Argentina, cresce a Roma. Ascolta e scrive di musica da una prospettiva socio-culturale e storica. Nel 2017 si laurea in Popular Music Research alla Goldsmiths, University of London.
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Immagine di copertina: Proteste in Ucraina nel 2013, screenshot
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