Nota introduttiva di aggiornamento – 21.08.2018
E’ di due giorni fa la notizia, diffusa dal New York Times, secondo cui Asia Argento, una delle protagoniste più attive del movimento #metoo, avrebbe versato, circa un anno fa, la somma di 380.000 dollari all’attore e musicista Jimmy Bennett, per evitare un’accusa di violenza sessuale. Secondo i legali di Bennett, così come riportato dal New York Times, nel maggio del 2013, Asia Argento sarebbe stata lasciata sola con il ragazzo, allora da poco diciassettenne, in una stanza dell’ hotel Ritz-Carlton, a Marina del Rey, in California. La Argento, sempre secondo i documenti svelati dal Times, avrebbe fatto bere a Bennett degli alcolici e gli avrebbe mostrato una serie di messaggi scritti per lui sulla carta intestata dell’hotel, in attesa del suo arrivo. Lo avrebbe baciato e spinto sul letto, gli avrebbe tolto i pantaloni, praticato del sesso orale e, dopo essersi arrampicata sopra di lui, spiegano i documenti, i due avrebbero avuto rapporti sessuali. “I sentimenti di Jimmy per quanto accaduto quel giorno sono stati portati alla ribalta di recente, quando la Sig.ra Argento si è rivelata essere una delle tante vittime di Harvey Weinstein. La visione della Argento come vittima di violenza sessuale è stata troppo difficile da sopportare per Bennett, e ha richiamato alla sua memoria l’incontro in albergo del 2013”, ha scritto l’avvocato Sattron nel documento, di cui è entrato il possesso il Times, con il quale annunciava l’intenzione, poi ritirata dopo il pagamento, di citare in giudizio Asia Argento.
La notizia ha riaperto il dibattito non solo in merito al valore delle accuse di Asia Argento contro Weinstein, ma anche rispetto alla natura integrale del movimento #metoo, di cui l’attrice e regista italiana è stata una delle voci più forti e importanti negli ultimi dieci mesi.
Premesso che sul “caso Argento-Bennett” restano ancora molti i punti da chiarire, vi sono alcuni concetti, fondamentali, che vale forse la pena ribadire. Il più essenziale, a mio giudizio, è quello riguardante le accuse di Asia Argento ad Harvey Weinstein. Sarebbe gravissimo ritenere oggi, dopo quanto emerso a carico di Asia Argento, la violenza di Weinstein più accettabile. Si può forse discutere della condotta pubblica di Asia Argento, che avrebbe magari potuto mantenere un profilo più basso nel movimento #metoo, ma sdoganare il pensiero per cui è meno grave la violenza inferta ad una persona che inferisce, essa stessa, violenza, porterebbe a un corto circuito inaccettabile, a uno stato delle cose per cui qualsiasi confronto, qualunque valutazione, resterebbe indissolubilmente legata all’universo oggettivo e personale dei protagonisti, dunque al caso, mentre c’è un punto assoluto da cui non è possibile prescindere: i fatti vanno isolati dai comportamenti.
Quanto accaduto dà inoltre la possibilità di richiamare un concetto espresso nel titolo originale di questo pezzo, “chi non ha mai molestato, scagli la prima pietra”, la cui intenzione era proprio quella di invitare a riflettere su ciò che significa accusare qualcuno di violenza, su quanto sia determinante avere la capacità, la lucidità, di valutare non solo l’origine di un’azione in quanto violenta o molesta, ma anche e soprattutto l’effetto di un’azione come violento o molesto. Diversamente il rischio, purtroppo sempre più evidente a quasi un anno dalla nascita del movimento #metoo, è quello di emarginare chi ha subito le violenze più gravi, le vessazioni più opprimenti, che invece di trovarsi incoraggiato da un ipotetico clima di supporto, si scopre ancora più discriminato da un marasma nel quale una violenza sessuale ed un commento spinto su una foto facebook vengono considerati parimenti meritevoli di un hashtag #metoo.
Molestia e violenza sono due cose molto gravi. E molto diverse.
Le molestie sessuali, le molestie in genere, riempiono le pagine dei media ormai da diverse settimane. Si tratta di una questione esplosa dopo le denunce di decine di donne ai danni di Harvey Weinstein, il produttore cinematografico che nel corso della sua lunghissima carriera avrebbe stuprato, violentato, molestato, una lunga sequela di attrici; atti, questi, rimasti per anni in un’oscurità pubblica alimentata dalla paura di eventuali ritorsioni professionali.
Il caso Weinstein ha messo in moto un circuito di proporzioni mastodontiche, con migliaia di denunce in ogni parte del mondo, un hashtag, #metoo, subito rilanciato da milioni di utenti e un punto, quello delle molestie, divenuto finalmente centrale nel dibattito culturale contemporaneo.
Ciò detto, trovo opportuno sviluppare alcune riflessioni che meritano dal mio punto di vista, a margine di quanto sta accadendo, grande attenzione.
Mi sono chiesto come mai, sul dibatitto legato alle molestie, non mi sia ancora capitato di leggere un pezzo d’opinione serio e indipendente, che apra il confronto, invece di banalizzarlo, e che permetta di discutere delle molestie in maniera aperta, invece di umiliarlo, riducendolo all’ennesimo fenomeno social messo da parte in qualche settimana (torneremo su questo punto).
Mi sono chiesto il perché, manchi questo apporto di opinione alla discussione pubblica, e mi sono pian piano dato la risposta: i giornalisti, gli uomini soprattutto, hanno paura.
Hanno paura di essere crocifissi dalla gogna social, se si permettono di esprimere un concetto fuori dal coro. Hanno paura di essere additati per sempre come difensori dello stupro, se provano a portare avanti un ragionamento complessivo più strutturato sulla questione. Hanno paura, insomma, di prestare il fianco a quella fogna di ignoranza bestiale che è costituita dalle tendenze dei social network e che mortifica, in maniera intellettualmente degradante, qualsiasi tentativo di approfondimento critico.
Parto da qui, cioè a dire dall’assenza di opinioni giornalistiche articolate sul tema delle molestie, proprio perché è sulla gogna social, e sull’utilizzo generale dei social network rispetto al caso delle molestie e a tanti altri temi di ordine socioculturale, che mi voglio innanzitutto concentrare.
Nei giorni successivi all’esplosione dello scandalo Weinstein sulla mia bacheca facebook sono comparsi decine di messaggi di donne che, utilizzando l’hashtag #metoo, rendevano pubblica la loro esperienza di molestie. L’ho trovato da subito un momento importante, quello della condivisione.
Se c’è infatti una cosa su cui non si può non essere d’accordo, è che in questa occasione i social network hanno costituito uno strumento decisivo, fondamentale, per l’esplosione del marasma. Da questo punto di vista, rispondo così subito a un interrogativo che in tanti si sono posti: per quale motivo fatti di 20, 30 anni fa, vengono fuori adesso? Succede perché oggi abbiamo uno strumento, i social network, rilanciati dai media online, che dà una voce pubblica a chiunque e che permette quindi, a determinate condizioni, di evitare un isolamento che era invece tipico dell’epoca presocial e in generale dell’epoca preonline, quando era difficile, se non impossibile, denunciare pubblicamente da una posizione di inferiorità economica e di potere.
I social network e i media online hanno democratizzato il processo di condivisione delle esperienze: ognuno di noi ha voce.
Il problema, per nulla secondario, di questo sistema, è che questa voce finalmente estesa, questa possibilità di esprimere le proprie opinioni, di partecipare le esperienze, ha il limite, in molti casi, della banalizzazione. Un limite che, nel caso ad esempio delle molestie (così come già sperimentato con tanti altri temi di importanza capitale, come ad esempio quello dei rifugiati) si palesa nel momento in cui un fatto, grave ed importante, trova spazio nelle bacheche (e quindi nelle coscienze) degli utenti social, per un tempo molto ristretto, necessario non tanto a un effettivo impegno in relazione a un tema, quanto piuttosto all’esposizione pubblica dell’interesse verso quel tema, che viene quindi, inevitabilmente, banalizzato.
Cosa voglio dire? Che alla pubblicazione dell’hashtag #metoo con annessa esperienza di molestia non seguono, in gran parte dei casi, comportamenti che effettivamente alimentino il confronto, la discussione, il cambiamento culturale.
Tutto viene dimenticato nel giro di qualche giorno. L’importante era esserci, l’importante era stare nel momento. Così funzionano i social: arriva l’ondata emotiva, di cui ci si sente parte, ci si espone con qualcosa che a quell’ondata emotiva ci abbini e poi, più fugace di una saetta, tutto finisce.
Mi preme, questo punto, perché ritengo sia cruciale impegnarsi in maniera costante, se si ha l’obiettivo di portare a un livello più alto, più definitivo, il discorso sulle molestie sessuali. Le alzate di scudi casuali, quando il gregge lo richiede, quando la moda del momento non ci permette altra scelta, se non quella di accodarci all’opinione, le trovo umilianti, avvilenti, cerebralmente maceranti.
Abbiamo un’occasione storica, che è quella di operare un cambio epocale in merito alla percezione di cosa significa molestare una donna (o un uomo), perché la realtà è che la questione cardinale qui è che milioni di individui non hanno ancora capito che una grandissima parte di comportamenti sopraffattori nei confronti delle donne sono molesti, mentre sino a ieri erano considerati accettabili o innocui. Per far sì che questa rivoluzione culturale veda la luce, abbiamo bisogno di fare uno sforzo importante. Innanzitutto, dobbiamo liberarci dai preconcetti e aprirci al confronto, invece di barricarci dietro le categorizzazioni del caso. Per fare questo, è necessario, è fondamentale, mettere da parte i moralismi: qui nessuno è innocente.
Vorrei chiedere a tutte le donne: avete pubblicato gli hastag #metoo, e avete fatto benissimo, perché è una battaglia di dignità fondamentale questa, e ci riguarda tutti. E poi? Fatevela questa domanda, che è una domanda culturale, perché bisogna andare oltre la moda del momento se davvero si vuole provocare un cambio netto nella dimensione empirica della percezione della donna nel nostro tempo: la rivoluzione non si fa soltanto nei fine settimana. Questa è una battaglia che va sostenuta nei comportamenti quotidiani.
Evitare i moralismi significa smetterla con la caccia alle streghe, con la gogna pubblica di chi ha molestato chi e quando, con la banalizzazione di un approccio umano che costruiamo noi quotidianamente con i nostri comportamenti anche attraverso l’accettazione silente di un’immagine femminile umiliante: ricordiamoci che siamo le stesse persone che qualche settimana fa hanno celebrato la morte di Hugh Hefner al pari di quella di un rivoluzionario, centinaia di articoli, dai più importanti giornali al mondo sino ai più piccoli (Yanez compreso) hanno salutato il fondatore di Playboy (Playboy!!!) come una figura di spicco del nostro tempo. Passano pochi giorni e siamo tutti senza macchia e senza paura a combattere contro le molestie sessuali. Come la mettiamo?
L’unico modo per elevare il discorso a un livello più alto, l’unica maniera che può permetterci di rendere definitivo il cambiamento di percezione su cosa sia una molestia, è quello di confrontarci, di continuare a denunciare le molestie (è fondamentale), ma smettendola di giudicare ciò che non possiamo e puntando invece, piuttosto, all’alimentazione di un impegno quotidiano che modifichi strutturalmente la percezione odierna del corpo femminile, della dignità della donna.
Agli uomini invece, voglio dire: invece di insistere con i patetici “io mai”, fatevi un’esame di coscienza serio. Siamo gli stessi uomini che partecipano alla Phi Cup della pagina facebook di Calciatori Brutti (non sapete di cosa si tratti? Andatela a cercare su google e poi rabbrividite, per il seguito che ha e per l’iniziativa in sé), gli stessi che ridono come le scimmie dentro una gabbia quando vedono l’hashtag #escile sui social network, che riempiono di commenti sessisti le pagine di Diletta Leotta e cercano le sue foto nuda, per dire tre cose qualsiasi.
Nessuno, nessun uomo, può dire di non aver mai molestato. Nessun uomo può dire di non aver mai parlato in maniera gratuitamente volgare di una donna con altri uomini, di non aver mai avuto un comportamento mentalmente violento quando, magari seduto al tavolino di un bar con degli amici, si è cominciato a lanciare complimenti a una ragazza di passaggio, di non aver mai guardato un film porno in cui una donna subiva condotte gratuitamente umilianti, di non aver mai provato un approccio ubriaco con una ragazza che non ne voleva sapere. Solo per citare alcune azioni.
Che ci crediate o no, queste sono molestie, e la maniera migliore per fare un passo avanti su questo tema è liberarsi di tutti i preconcetti, allontanare i moralismi, confrontarsi con la realtà delle cose. Sarebbe bello che l’hashtag #metoo sui social network lo usassero gli uomini, insieme alle donne, per autodenunciarsi rispetto a tutti gli atti di molestia di cui si sono resi protagonisti nel tempo. Questo sì, sarebbe un atto vero di sostegno, un atto di coraggio. E poi, con lucidità civile, senza gogne social (che qui di puro e irreprensibile non c’è nessuno) mettere tutta l’energia possibile affinché tutto ciò non accada mai più.
Chi non ha mai molestato, scagli la prima pietra.
REDAZIONE
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