Illustrazioni di Luca Di Battista
La mattina del 2 novembre 2007, la città di Perugia è avvolta dalla nebbia. Ad attraversare l’aria come una lama sottile che stabilisce un prima e un dopo, la terribile notizia del ritrovamento di un cadavere in una villetta in Via della Pergola 7. Il corpo è quello di Meredith Kercher, una ragazza inglese che si trova nella cittadina umbra per svolgere il suo periodo di studio Erasmus presso l’Università per Stranieri. Due telefonate effettuate a breve distanza una dall’altra giungono al 112 dal telefono di Raffaele Sollecito, che si trova di fronte alla villetta con la ragazza con cui si frequenta da qualche giorno. E’ l’americana Amanda Knox, una delle tre coinquiline di Meredith. I due hanno dormito insieme a casa di lui.
La finestra è rotta. Amanda e Raffaele stanno avvinghiati seduti fuori dalla casa. La nebbia intorno è così fitta che le lacrime di Amanda scivolano più piano sul viso, lungo la guancia, fino al mento. Lui guarda il vuoto. Poi telefona una seconda volta.
C’è una finestra rotta, potrebbe essere stato un ladro. Quando i Carabinieri entrano nella stanza di Meredith trovano il corpo della ragazza coperto da un piumone bianco. Ne spunta solo un piede nudo e la stanza è piena di sangue. Ce n’è sulle pareti e su alcuni indumenti della ragazza che sono sparsi intorno a lei, tra cui un reggiseno e dei jeans.
Un piede. Il piumone che fu bianco, nella luce della sera, avvolge ora quasi completamente il suo corpo. Rimane scoperto solo il piede sinistro. Il viso fisso in una smorfia di godimento e dolore.
Non passano molte ore prima che i sospetti si rivolgano contro Amanda e Raffaele. O, al massimo, contro la sola Amanda. Un personaggio controverso, che viene immediatamente accerchiato e scomposto e ricomposto dalla stampa internazionale, oltre che, molto probabilmente, anche da chi conduce le indagini. Una serie di fattori portano a questo accanimento contro Amanda Knox. La ragazza e il suo fidanzato, interrogati contemporaneamente, dichiarano inizialmente di aver passato la notte insieme a casa di lui. Quest’ultimo successivamente dichiara di non essere sicuro del fatto che la ragazza non sia uscita durante la notte. I due inoltre hanno fatto uso di droghe e utilizzeranno spesso questa spiegazione per i numerosi buchi e ripensamenti nelle loro dichiarazioni.
Raffaele picchietta con il dito sul comodino accanto al letto, facendo saltellare la droga. Tracce di umidità appese al soffitto aleggiano sulle loro teste. Amanda ha un paio di mutande color carne, senza cuciture. Il resto delle sue cose è sparso sul pavimento. Stringe tra le dita una canna d’erba che ogni tanto porta svogliatamente alla bocca inspirando ed espirando, in profondità. Il fumo denso scende e risale e si perde nell’aria della stanza. Lo schermo del computer proietta lampi di luce sulle loro facce turgide. Una ragazza dai capelli neri corre per le strade di Parigi inseguendo un ragazzo che colleziona fototessere. Note di pianoforte si disperdono piano tra gli infissi.
Come una colla. Quel corpo per lui è come una colla, un liquido viscoso in cui perdersi e nuotare fino a non capire più nulla. Chi è? Dal giorno in cui si sono conosciuti è passata solo una settimana. Sono sette giorni che nuota in quel corpo e adesso pensa che non vuole davvero smettere mai. Non c’è castità, ci sono solo corpi stupefatti intorno a loro.
Raffaele smette di picchiettare. Si addormenta.
Amanda sta ancora tirando l’ultimo respiro d’erba. Lui è uno spacciatore di emozioni dai capelli lunghi, dolce come una crema, splendente del sole di città che non esistono da dove viene lei. Il fatto che sia tutto vacuo sembra non sfiorarle la mente.
Amanda e Raffaele finiscono per essere accusati dell’omicidio.
Infine la ragazza arriva ad accusare Patrick Lumumba, il suo datore di lavoro, proprietario di un pub in centro. Di fatto, ponendosi anche sulla scena del delitto, confermando i sospetti sulla sua colpevolezza o, almeno, non estraneità al caso. Sulle basi di questa accusa e di un messaggio male interpretato e scritto dalla stessa Amanda all’uomo, per questioni di lavoro, Lumumba viene arrestato per omicidio. Verrà rilasciato dopo pochi giorni grazie alla testimonianza di un cliente del pub.
La svolta nelle indagini arriva il 19 Novembre quando viene ordinato l’arresto di Rudy Guede, un ragazzo originario della Costa d’Avorio, le cui tracce sono state trovate praticamente ovunque all’interno della casa: su oggetti e indumenti e, soprattutto, sul cadavere.
Nella casa di Via della Pergola 7, tra mura di tufo e polvere, Meredith digerisce la cena. Domani è il giorno dei morti ma ignora il fatto che per lei, oggi, sia già domani.
Rudy si è appena chiuso in bagno e allora lei si muove lentamente tra le numerose stanze della casa.
Nella notte, avvolto da una nebbia senza confini, un uomo fugge.
Il ragazzo nel frattempo è fuggito in Germania ma viene estradato e condannato con rito abbreviato a sedici anni per omicidio in concorso.
L’ipotesi dell’accusa è che ci sia stato un tentativo, non riuscito e finito in tragedia, di coinvolgere Meredith in un’orgia.
Le prove però contro Amanda e Raffaele arrivano solo in seguito. Un gancetto del reggiseno di Meredith su cui si trovano le tracce del DNA di Raffaele e la presunta arma del delitto: un coltello sul quale vengono ritrovati il DNA di Amanda sul manico e quello della vittima sulla lama.
Il caso si chiude il 5 dicembre del 2009 con la condanna per omicidio ad Amanda per 26 anni di reclusione e a Raffaele per 25.
In appello, invece, un riesame delle prove da parte di una commissione esterna scarcera la coppia. Amanda torna negli Stati Uniti, Raffaele rimane in Italia, dalla sua famiglia. Poi l’appello bis li vede di nuovo accusati dell’omicidio mentre, infine, il 27 Marzo del 2015 la Cassazione li assolve definitivamente.
Rimane in carcere il solo Rudy Guede che sotto ogni punto di vista rimane sempre defilato, sceglie il rito abbreviato e quindi si ritrova, di fatto, ad essere accusato di omicidio in concorso. Con ignoti.
Nell’unica intervista che concede negli anni racconta la sua versione dei fatti che è, effettivamente, plausibile, ma che a molti appare solo come una storia ben studiata a posteriori in modo che spieghi gli eventi accaduti sia durante quella notte che nei giorni successivi. Spiega le dichiarazioni di Amanda, spiega l’accusa a Lumumba.
Il problema però è che, di fatto, non ci sono le prove per ottenere una verità diversa da quella processuale attuale. Una verità che al momento in termini giuridici è più che assurda e contraddittoria.
Oggi, a distanza di dieci anni, i protagonisti di questa storia sono gli unici a sapere davvero come sono andate le cose. Gli unici a convivere con la colpevolezza o con l’innocenza, con la disattenzione o con la sfortuna. Quello che resta a noi, al di qua di quel muro che rappresenta questa vicenda, è solo la possibilità di scegliere a cosa credere, in base a cosa ci fa meno paura, se l’innocenza di Amanda Knox o la sua colpevolezza.
Perché se è colpevole allora significa che è pazza, e la pazzia è qualcosa che, in un modo o nell’altro, riusciamo a tenere lontano, come qualcosa che non può intaccarci. Perché siamo in grado, in quanto esseri umani, di vivere come fossimo socialmente normali, o accettabili. Perché ci siamo convinti che il gene della pazzia non ci appartenga e non ci apparterrà mai. Ci incaselliamo in personaggi equilibrati e recitiamo la nostra parte al di là degli istinti.
Se invece è innocente, se Amanda Knox è rimasta coinvolta in un teatro dell’assurdo in cui sono centrali e determinanti solo la ricerca del colpevole e dello scandalo e della storia a tutti i costi, allora vuol dire che ognuno di noi è vulnerabile, che in un qualsiasi momento della vita potremmo restare incastrati nella beffa del caso.
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