Questa vicenda si ispira a fatti realmente accaduti. Ogni riferimento a persone esistenti NON è puramente casuale.
La storia che segue narra dei tristi avvenimenti che videro coinvolti 150 internati militari italiani a Treuenbrietzen – nel Brandeburgo – durante gli anni della seconda guerra mondiale. Un episodio storico a molti sconosciuto, lasciato per decenni nell’ombra e di recente riscattato alla memoria grazie al documentario web: “Im Märkischen Sand – Nella sabbia del Brandeburgo”, a firma dei registi Katalin Ambrus, Nina Mair e Matthias Neumann e con i disegni di Cosimo Miorelli.
A questo documentario (totalmente fruibile online) si devono le fonti storiografiche e l’ispirazione per questo racconto.
A Cosimo Miorelli le illustrazioni.
Un sentito grazie a tutti loro per il lavoro pregevole che hanno realizzato.
NB: L’autrice si è ispirata ad una storia realmente accaduta, ma si è avvalsa di licenze poetiche e narrative. Si consiglia la visione del documentario per un’esatta ricostruzione storiografica di questo avvenimento storico.
Capitolo I
È l’8 settembre del 1943.
Alle ore 19.45, alla radio si affaccia una voce.
È quella ruvida del capo del governo – il maresciallo Badoglio – che annuncia la firma dell’armistizio fra le forze alleate angloamericane e quelle italiane, lasciando il popolo nello sgomento.
– Cosa ha detto? È vero che siamo in guerra contro i tedeschi?.
– No, ha detto solo che le truppe italiane reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.
– Fa lo stesso…
La radio si fa muta.
Senza lasciare nessuna direttiva – né ai poteri civili né a quelli militari – il re e Badoglio fuggono a Brindisi, mentre l’Italia torna repentinamente in guerra proprio contro quel popolo tedesco che, fino a qualche giorno prima, era considerato un alleato. Il Paese è abbandonato in balia del disordine morale e materiale, privato di qualsiasi forma di autorità e comando efficiente.
Mentre a Roma le strade di Testaccio e Porta San Paolo diventano l’epicentro di una resistenza armata contro l’occupazione tedesca, altrove, nei pressi di Mestre, due soldati italiani di ritorno da Venezia vengono catturati dai tedeschi.
Uno si chiama Antonio.
Con lui, altri soldati saranno fatti prigionieri la stessa notte in luoghi diversi dell’Italia e tutti verranno stipati in un treno.
Correndo sulle rotaie, senza sapere esattamente in quale direzione, rimangono su quel treno, in piedi, per cinque giorni.
La destinazione finale, scopriranno, è il lager 782/c, che sorge in un paesino di origine medievale chiamato Treuenbrietzen.
Siamo nel Brandeburgo, circa 80 km a sud-ovest di Berlino.
Qui sono rapidamente internati in un campo di lavoro circa 150 soldati italiani catturati all’indomani dell’armistizio, e rei di non voler partecipare alla guerra indossando la divisa tedesca.
E come sarebbe stato possibile, poi?
Che non è solo paura, così come dicono.
Prendiamo Mauro Bassi.
Come Antonio ha poco più di vent’anni e proviene da un borgo medievale che pure è molto diverso da Treuenbrietzen.
Se provasse ad immaginare se stesso, guardando indietro solo a qualche anno prima, si vedrebbe anzi proprio a Carpi, in una delle sue strade, stretto in mezzo alla madre e al padre, tutti in procinto di posare per una fotografia.
Lui indossa la divisa, si è arruolato da poco, ed è fonte di orgoglio per i suoi genitori e per se stesso: combatterà per la patria.
In quella foto si vedrà non a caso che tutti sorridono, nonostante il sentimento mesto e cupo che già covano dentro.
La patria… non la si tradirebbe mai, né tanto meno ci si aspetterebbe di esserne traditi.
Morti di fame ma non traditori.
Uno di loro lo avrebbe scritto non a caso con il filo, cucendolo con punti grossolani sulla tela già lisa.
Era riuscito a nascondersela addosso, la bandiera italiana, e dall’inizio della prigionia, con cautela, aveva cominciato a guardarla per ricordarsi di chi era e da dove veniva.
Morti di fame, poi, lo erano per davvero.
Quando il tempo iniziò a scorrere inesorabile nel lager – i giorni, poi i mesi – i detenuti si accorsero che pensavano continuamente al cibo.
Ne avevano sempre di meno, perché i tedeschi decidevano di toglierglielo quando e come volevano: “Chi non lavora, non mangia”, dicevano.
Ma i turni erano massacranti e a stomaco vuoto era anche peggio.
Qualche volta capitava che qualche donna del paese si intenerisse di loro e allora dal cielo, come un dono prezioso, arrivava una patata: kartoffel.
Con un bilancino, una rudimentale stadera tenuta in equilibrio da un pezzo di legno, la spartivano in uguali quantità.
Impararono a dividere mele, patate, in 10, 12 pezzi, affinché ciascuno avesse la sua parte.
E iniziarono così i mesi della prigionia.
Sembrò allora emergere, come dal fondo di un pozzo, il silenzio.
Che assieme al buio, alla neve grigia, alle sbarre delle porte, rinsaldò i chiavistelli del lager e ingiallì il colore della vita.
Capitolo II
Dite alla Nina che stia sicura, non abbi paura, che io tornerò. La mia terra curatela bene, la mia vigna tagliatela un po’…
Ormai erano passati quasi due anni e ogni tanto un soldato cantava quella canzone, anche se sua moglie non si chiamava Nina.
In fondo non era importante.
Gli serviva a non lasciarsi opprimere dal pensiero di lei a casa che piangeva, e avrebbe voluto anzi che quelle parole, dal mezzo della cella, le arrivassero attraversando la landa fredda e poi giù, giù, fino in Italia e alle orecchie di lei, a lenire le angustie del cuore.
Sensucht, così la chiamavano i tedeschi.
La nostalgia in certi giorni si appiccicava addosso peggio della neve sporca.
In stanza, ammassati in 15 tutti insieme, potevano parlare per ore della loro vita precedente e immaginare il momento in cui sarebbero tornati a casa.
Quella fantasia almeno era loro concessa perché il resto, invece, era una privazione continua.
Svegliati nel cuore della notte.
Il suono del randello sulla branda, poi una pistola puntata alla testa come prima immagine del giorno.
Il fante sa che alla sua casa tornerà…
Venivano radunati, contati e subito insultati: Scheiß Italiener, italiani di merda.
Quindi portati in fabbrica.
Turni di 12 ore e due pause: 15 minuti la mattina, mezz’ora a pranzo.
Poi zitti a lavorare, costretti a produrre le munizioni che armavano il Reich e che portavano avanti l’economia della guerra tedesca, lasciando che persino un piccolo paese – grigio e squallido come Treuenbrietzen – si arricchisse del loro lavoro.
L’Italia, la patria, si erano fatte nel frattempo sempre più lontane e assenti. Eppure… “tutto bene, va tutto bene”.
Se scrivevano a casa, era per dire bugie.
Avevano paura della censura, anche.
Mauro appuntava la verità solo sul suo diario.
Scriveva: “la situazione ti mette nel cuore un sentimento così crudele che non è più possibile avere un momento di pace, un istante di tregua, tale è l’infamia di coloro che ci sopprimono”.
Vivevano nella stessa sudicia uniforme con cui erano stati catturati due anni prima. Si grattavano i pidocchi e le ferite, e si lasciavano cadere qualche cosa di pesante, ad esempio su un piede, così da infortunarsi e rischiare magari una cancrena ma almeno sfuggire ai ritmi disumani della fabbrica.
Intanto fuori, nelle stradine di Treuenbrietzen e del Brandeburgo, era invece tutto un fiorire di abitazioni nuove, pagate con gli affari della Kopp & Co.
Case basse con il giardino davanti, su cui vedere piano cadere la neve.
In una casetta così viveva anche Elfriede.
Era una bambina, allora, che poco sapeva della guerra.
Vicino a dove abitava c’erano delle baracche, era una cosa normale.
“Ci vivono gli Ausländer”, gli stranieri, le avevano spiegato.
“Sono prigionieri e lì devono restare”, così dicevano i grandi.
Anche presso suo padre lavoravano due italiani. Stavano in falegnameria e spesso spaccavano anche la legna con cui Elfride si scaldava a casa sua.
Una volta lei si era avvicinata alle baracche.
Avevano lasciato una finestra aperta e aveva deciso di sbirciare dentro, pure così, con il cuore un po’ in gola, per vederli.
Ma a quanto pare non c’era niente da vedere.
Solo tanti letti a castello vuoti, gli uni addossati agli altri.
Elfride, però, circa settant’anni dopo, ormai vecchia, avrebbe ricordato anche un’altra cosa. E cioè che nel mezzo del bosco c’era un sentiero dove gli alberi crescevano rigogliosi, insieme ai muschi sulle pietre.
Una mattina lei, assieme ad altri tedeschi e a un gruppo di prigionieri italiani, fu costretta a passare per quel sentiero e poi a raggiungere un fienile.
Lì fu lasciata assieme alla famiglia e agli altri tedeschi che erano con loro.
Gli italiani, invece, furono portati via.
Si udì un suono in mezzo alla paglia.
Come un sibilo forte e simultaneo che proveniva da qualche parte laggiù, di là dal covone.
Qualcuno commentò: Li stanno fucilando.
Così almeno ricorda Elfride.
Capitolo III
Pensare che la giornata era cominciata sotto buoni auspici.
I russi avevano liberato il lager, correva voce, e tutti si aspettavano di tornare finalmente a casa.
Uno di loro pensava alla madre, con le mani piccole come fusi, mani che lui voleva baciare tutte appena l’avrebbe rivista. Che due anni erano già passati.
Pensava anche che le avrebbe taciuto l’inferno che lui aveva passato e, piuttosto, le avrebbe chiesto di scusargli la debolezza dei modi, e di ricambiare quei baci, di metterlo a dormire, pure se era già un uomo fatto, dicendogli solo che tutto sarebbe andato bene.
Così immaginava.
A mezzogiorno arrivarono i tedeschi.
Erano particolarmente concitati, gridavano: Raus! Raus!, e li spinsero tutti fuori, radunandoli alla buona: di qua olandesi, russi e polacchi, di là gli italiani. I primi furono mandati in fabbrica. Ma gli italiani, loro no.
Furono costretti a mettersi in cammino, per il sentiero.
Si trascinavano con i corpi avviliti, le teste sbucciate come umidi polpi.
Pioveva, e il bosco non lasciava trapelare altro suono che non quello dei loro cuori stanchi. Gli sguardi erano per la maggior parte fissi e muti, quasi al punto di divenire ottusi. Nella linea delle labbra dei soldati tedeschi, invece, strisciava come una serpe la diffidenza; e il disprezzo.
Marciavano.
– Ma dove stiamo andando poi? Dove?
Qui.
In una cava di sabbia fine e molle.
Quando la videro sentirono le formiche arrampicarsi sul cuore.
Sfilò per tutti una lugubre processione di momenti tristi e poi si affacciò l’idea che la vita fosse come un giocattolo attaccato a uno spago, o come girare in fretta un paio di pagine.
Entrarono nella cava; volarono degli uccelli.
Come il taglio brutale di un coltello, fu un attimo: sentirono pronunciare una parola cui non c’era rimedio: Feuer! Fuoco.
Iniziarono a gridare, spaventosi. Invocavano le madri, pregavano la madonna: “Fa che finisca ora, fammi conservare almeno la pace e la dignità”.
Le parole svanirono e loro caddero come fantocci.
Con le lacrime desolate sulle guance, fredde come una pioggia che si sia abbattuta sui campi senza pietà. Rimase la terra. Rossa la sabbia.
Calò la notte.
I tedeschi sotterrarono alla buona.
Sembravano bambini che si fossero divertiti a catturare una libellula e poi a strappargli le ali.
Un battito di mani, e il volo dell’insetto non esiste più.
Wo ist deine Mutter, jetzt?, ridevano.
Là sotto Antonio non pensava a niente. Non fiatava. Non parlava.
Se avesse dovuto, non sapeva da quale cratere o pozzo buio attingere le parole.
Si credeva morto, e forse lo era davvero, stretto e soffocato da qualcosa di nero e grasso dove con un dito fece un buco, almeno per respirare.
Nella stessa condizione, sepolti vivi sotto i corpi dei compagni e la terra, se ne salvarono 4 in tutto.
127 morirono sul colpo. E tra questi c’era Mauro.
Appena furono certi che i tedeschi se ne erano andati, i sopravvissuti si misero in cammino; come naufraghi.
Passò del tempo.
Un giorno a Carpi arrivò un uomo che portava con sé un diario.
Bussò alla porta della casa di Mauro Bassi.
Disse che lo aveva conosciuto, che era stato un suo amico, e poi aggiunse che era riuscito a portare via qualche oggetto dopo che…
Ma prima si presentò: “mi chiamo Antonio”, disse.
Quindi cominciò a raccontare ad alta voce la sua, la loro, storia.
Poi, per molto tempo a venire, stette in silenzio e non ne volle più parlare.
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