Le montagne dell’Appennino abruzzese fanno parte di un locus amoenus che mi piace contemplare. Anche sotto un cielo più opaco, con dei colori scuri e smorzati, il loro odore mi è sempre parso familiare, compatibile con quello della mia pelle.
Dal Grande Raccordo Anulare di Roma si prende l’A24 e si tira dritto per un’ora circa, fino a Tornimparte, che è l’uscita prima de L’Aquila. Il Telepass fa bip due volte, poi ci sono venti minuti di tornanti in cui il vetro del finestrino gelido inquadra, prima a sinistra, poi a destra, seni di montagna di un giallo sporco e ciuffi alberati verdi-bruni, asfalto grigio arido e doppie strisce bianche, interrotte dallo sterco dei bovini, di cui in lontananza si percepisce lo scampanellio. Alla piana di Campo Felice si fa tappa dai fratelli Di Carlo, anche quando all’ora di pranzo c’è troppa fila, perché il sapore della loro mozzarella ha del miracoloso, più del sangue sciolto di San Gennaro. Si scende verso Casamaina, dove un tempo, quando non c’erano ancora i cellulari, venivamo a chiamare nonna con le schede dei telefoni pubblici, poi ancora qualche curva in discesa e sulla destra compare una scritta blu sul cemento dipinto di bianco, Hotel Tuttosport.
Le ruote della macchina scricchiolano sotto un eterogeneo strato di ghiaia in pendenza, poi il motore si placa e parte il coro degli uccelli.
Quasi trent’anni fa i miei genitori comprarono qui, in via del Biancospino, a Prato Lonaro di Lucoli, un monolocale rivestito all’interno con quelle stecche verticali in legno chiaro, le perline, tipiche delle case di montagna, e con un caminetto. È al primo piano di un residence di tre palazzine color crema, con un balconcino che si prende tutto il sole al pomeriggio e che dà su una montagna rimpinzata di verde, piazzata lì, a bearsi della sua pesante staticità.
Quando ero ancora al liceo non ci andavamo quasi mai in Abruzzo, una volta all’anno forse, solitamente per Pasquetta o Ferragosto. Ma si stava bene, i polmoni soprattutto. Usciva sempre fumo dai camini, anche in estate, quando il ritmo delle giornate era scandito dal silenzio dell’ora dei pasti e dal rimbombo del pallone, quello leggero da spiaggia, tirato con un calcio contro il muro dai bambini in vacanza. Tra luglio e agosto si partecipava alle sagre, si mangiavano j’arrusticini, si passeggiava per L’Aquila, si andava a comprare la frutta in piazza Duomo, cercando parcheggio nella zona della Basilica di Collemaggio.
Il 5 aprile del 2009, alla sera, stavamo per andare via da casa di Misa e Valente a Roio, nemmeno 10 chilometri dal centro di L’Aquila. Eravamo nel cortile della loro villetta e Caramello, il cane, prese a guaire. Avrà sentito qualche scossa, disse Valente, ne ha fatte tante negli ultimi due mesi. Mia madre era preoccupata, avevamo trovato le mattonelle scollate e rialzate in un certo punto della casa e pareva che potesse dipendere dalla reiterazione di questi strattoni tellurici che però, in fondo, non erano stati fortissimi, ma “captabili”, dicevano.
Alle tre e trentadue del 6 aprile stavo sognando, e del terremoto sentii solo la seconda metà, cioè all’incirca dodici o tredici secondi. Non credo mi svegliò il movimento, piuttosto il rombo della terra che si macera e si sposta, divulgato dall’eco delle montagne, come il tuono del fulmine che sbatte sul tetto di casa durante un temporale, ma con una durata infinita. Il mio letto era attaccato al muro; con la gamba sinistra piegata sul materasso e la destra in appoggio sul pavimento, cercavo di raggiungere l’interruttore della luce alla parete, ma non riuscivo a stare ferma, venivo sballottata in direzioni contrastanti. Comunque la luce non si sarebbe accesa, c’era stato un black-out totale.
Ricordo di aver pensato: ora mi butto sotto al tavolo. Poi però tutto finì, di botto, e subentrò uno stranissimo silenzio.
I miei erano rimasti paralizzati nel letto. Non li vedevo, ma li percepivo immobili. Qualche momento dopo ognuno manifestò le sue reazioni: mio padre andava in giro per casa con una torcia facendo il resoconto di quello che era caduto e si era rotto; minimizzando la situazione, era pronto a rimettersi a dormire. Mia madre era spaventatissima, angosciata e poco lucida. Io conservavo ancora uno spicchio di lucidità, ma solo nella velocità dei movimenti, e non aprivo bocca. Cercavo di radunare i vestiti in una borsa, ma mi tremavano le mani. Nell’incoscienza generale ci vestimmo, preparammo i bagagli e uscimmo. Fuori erano tutti in pigiama e il cielo era pieno di stelle.
Quando hanno a che fare con lo stesso evento tanto grande e importante, gli esseri umani riconoscono immediatamente la partecipazione ad un comune insieme, quello del collettivo timore della morte; quindi si riscoprono solidali ed empatici e comunicano basandosi su una conoscenza spontanea, data per scontata, che supera la relazione personale. Per questo ci guardavamo, lì fuori, tutti con grande comprensione. Per questo, credo, quando accendemmo la radio e ascoltammo delle prime vittime, ci sentimmo più addolorati di quando al telegiornale si ascolta di un fratricidio o di una sparatoria in un quartiere malfamato: capivamo perché e immaginavamo come erano morte tutte queste persone. Tre, mi ricordo, le prime annunciate. Erano neanche le quattro e già si annunciavano tre morti, che sarebbero poi diventati cinque, poi venti. Avremmo contato, nei giorni successivi, fino a trecentonove.
Partimmo per Roma la mattina stessa; l’autostrada era chiusa, la chiudono sempre quando c’è un terremoto: devono verificare che sia in sicurezza, e, in caso lo sia, la lasciano libera per il passaggio delle ambulanze. Non mi era mai capitato di passare nell’entroterra per riandare verso Roma, così scoprii che lo spettacolo che si presentava all’alba era stupendo. Non riuscivo a pensare ad altro che a questo, lo ricordo bene. Avevo la sensazione di un amore mai provato guardando le montagne altissime, le vallate immobili, gli alberi, l’erba, i papaveri. Tutto era considerevolmente più spettacolare di come mai l’avevo pensato: la natura ci aveva appena fatti a pezzi, eppure la gioia mi si mangiava il cuore nel vederla e nel vederla tanto bella.
Si definisce Sindrome di Stoccolma, quel sentimento d’affetto che la vittima, nonostante la violenza e i maltrattamenti subiti, prova nei confronti del suo carnefice. Ho sempre pensato che sia stato qualcosa di simile a scatenarmi l’esigenza, dopo il terremoto, di tornare a L’Aquila più spesso, tanto da crearci dei legami forti e intimi per i quali, da Roma, ho viaggiato avanti e indietro un fine settimana sì e uno no, per circa cinque anni.
Nell’estate del 2016, all’ultimo anno di università, tornavo da sola verso la casa di Lucoli, andavo a studiare. Guidavo la Panda bianca con una valigia di libri nel bagagliaio. C’era il sole e la piana di Campo Felice era magnifica, bella, bruna, odorosa, vasta, immensa. Ascoltavo A tempestade dei Madredeus e i tremolii vocali della cantante dal finestrino aperto si dipanavano in modo naturale, sorvolando le increspature delle montagne robuste, ben assestate al suolo, solide, ferme. Questo sposalizio mi sembrò spontaneo, e invece avrei dovuto prenderlo come un monito.
La terra tornò al suo ballo di San Vito la notte a venire: era il 24 agosto.
La casa aveva già retto una volta e la scossa era meno violenta, e, insomma, ero bene o male preparata stavolta. Chiusi il gas, presi una coperta di pile e la borsa e me ne andai a dormire in macchina.
L’epicentro non era in Abruzzo, ma tra Lazio e Marche, più precisamente tra Accumoli e Arquata del Tronto, però la magnitudo era alta poco meno di quella del 2009, 6 sulla scala Richter, e la percepii forte e chiara.
Fino alle sei del mattino non rientrai; di nuovo vidi l’alba, di nuovo ascoltai i ricordi delle vittime del terremoto precedente, di nuovo mi misi a guardare le montagne nel loro silenzio tranquillo, ingenuo, e pensai, ancora una volta, che ciò che ti terrorizza è l’unica cosa che può calmarti. Stoccolma lo sa.
È passato un anno prima che tornassi a Lucoli. La sensazione che ho ora ogni volta che mi affaccio da quel balcone è così strana. Mi sento avvolta da uno spettro di morte che non mi trascina mai via con sé, ma mi lascia piuttosto ad aspettare la morte stessa, come se prima o poi di nuovo dovesse abbattersi su quel locus amoenus.
Et in Arcadia Ego, incidono i paesaggisti secentisti sulle lapidi che dipingono. A parlare è la personificazione della morte che rivendica il suo diritto ad esistere nell’Arcadia, idillio pastorale di poesia e musica dolce, utopia di natura generosa che regala all’uomo una vita di pace. L’Appennino abruzzese la rappresenta un po’, per me, questa Arcadia, nella versione originale incontaminata e nella versione del Seicento con la scure alla mano, e il teschio, la mosca e il verme sulle tombe a rimarcare il processo di decomposizione. La mosca e il verme, per me, chiariscono più di ogni cosa, però, il perché di questo messaggio, svicolando dalla tristezza della fine individuale per raggiungere la sopravvivenza dell’insieme di quegli individui tristi. Mosca e verme mediano la piacevolezza della vita e l’orrore della morte con la serenità della ciclicità del tempo; tutto torna, e tutto, bene o male, ha il suo scopo.
Della nostra morte la natura ha bisogno per rigenerarsi, per rivivere, per essere bella.
Nonostante tutto il dolore che comporta.
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