Il 2 agosto del 1980 i miei genitori si svegliano alle 4.30 del mattino, salgono sulla Fiat 132 di mio padre e si immettono sull’Autostrada del Sole, direzione Versilia. Alle 7.30 del mattino passano guidando accanto a Bologna.
Alle 10.30 sono in spiaggia. Ad attenderli ci sono quelli che diventeranno i miei nonni, ci sono anche il mio futuro cugino e i miei zii.
Intorno alle 10.45 si forma un buffo capannello di persone intorno ad un ombrellone. Una radiolina gracchia. Altri bagnanti fanno cerchio altrove, poco lontano. Il bagnasciuga si svuota. Altre radioline gracchiano.
Mio padre si avvicina ad uno degli assembramenti. La gente ascolta in un assurdo silenzio, profondo come una baratro.
Gli speaker dicono che una bomba è scoppiata all’interno della sala d’aspetto della Stazione Centrale di Bologna. Si fa una conta dei morti e dei feriti. Si parla di sospetto attentato terroristico.
Mio padre corre verso la strada, diretto alla cabina telefonica più vicina. Il cugino di mia madre è partito quella mattina in treno per raggiungere la figlia nel capoluogo emiliano.
Mio padre infila un gettone nel telefono pubblico, compone il numero. Aspetta. Poi parla.
Il cugino di mia madre è arrivato alla Stazione Centrale un’ora prima di quella che nella storia resterà segnata come La Strage di Bologna.
Il mio futuro zio.
***
Ho conosciuto Daniela Marcozzi un pomeriggio di tre anni fa a Berlino, mi aspettava seduta ad un tavolo di un café di Neukölln. Un folletto, è la prima cosa che ho pensato di lei, mentre mi avvicinavo. I suoi vestiti dai colori abbinati male e indossati a caso. Aveva quel fare improvvisato di chi sa che esistere significa essere qui e ora, non prima e non dopo, ma nel centro esatto di quello che si sta vivendo, salvo scoprire, nemmeno troppo tempo dopo, che gli unici momenti che improvvisava erano quando sale sul palco, talvolta. Era un’attrice professionista e lo è tutt’ora, a tre anni di distanza. E lo sarà sempre, per il resto dei suoi giorni, anche quando smetterà di salire sul palco, di recitare, di insegnare e, talvolta, di improvvisare.
Per me Daniela è sempre stata una creatura della fantasia di Mathieu Kassowitz. Lei non è mai nata a Pescara, non ha mai studiato teatro contemporaneo, non ha mai avuto una formazione grotowskiana. Non è mai stata la mia insegnante di teatro. Per me Daniela rimane ancora oggi qualcosa di impalpabile ma allo stesso tempo indelebile, come quei ricordi che non sono immagini, ma sensazioni fugaci che percepisci non linearmente e arrivano per rammentarti chi sei e da dove vieni.
A me Daniela, ogni volta che parliamo, mi ricorda chi sono e da dove vengo.
L’Expedition è un piccolo teatro di Berlino con il palco a livello del pavimento. Fuori, nella parte esterna, c’è un’altalena enorme, di legno, sulla quale non ho mai avuto il coraggio di sedermi. Ho sempre avuto paura di volare via. Le luci sono soffuse, quando entriamo, l’attrice e regista Daniela Marcozzi è già in scena, seduta su una sedia, le mani incrociate sul seno, gli occhi chiusi. Pantaloni neri, camicia color perla. I suoi piedi nudi sono sistemati precisamente all’interno di un perimetro tracciato a terra con del nastro di carta bianco. Dalla parte diametralmente opposta c’è un tavolo e un’altra sedia, anch’essi delimitati dal nastro. Sul tavolo sono poggiati quattro bicchieri di vetro ed uno specchio da trucco. La parte riflettente è anch’essa coperta dal nastro.
Ad incrociare la traiettoria che divide lei dal tavolo, appesa ad un’altezza di circa due metri, c’è una fune. Assicurato ad essa con un moschettone, un collare pende fino a terra.
Mi ricorda il set di Dogville di Lars Von Trier.
Una luce spot si spegne, un’altra si accende. Daniela apre gli occhi. La performance ha inizio.
Lacuna è il secondo capitolo della “Trilogia del Potere”, inaugurato dallo spettacolo Right On!
Ispirato alla Strage di Bologna, tramite la performance Lacuna, Daniela ruota intorno al tema del potere politico che influenza le vite private, la concezione del libero arbitrio che spesso si mette a capo di quella che è la “casualità della vita”.
Right On! invece si ispira a fatti personali realmente accaduti: l’arresto di due carissime amiche ed ex-coinquiline anarchiche, Giulia Marziale e Paola Francesca Iozzi, che, insieme ad altre ventiquattro persone, hanno subito gli esiti dell’operazione “Ardire”. Rimaste in carcere preventivo secondo la legge anti-terrorismo 270bis (Associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale), che prevede fino a due anni di detenzione preventiva senza processo.
Daniela mi racconta: “Ad ora la maggior parte delle accuse sono chiaramente cadute, le avevano persino accusate di essere delle bomber, le mie coinquiline!” E sorride.
“È una legge che ha il suo corrispettivo in molti stati europei; indetta come “risposta” agli accadimenti dell’11 settembre 2001. Possono piombare in casa tua ed arrestarti perché sei potenzialmente un terrorista. Il processo inizia solo dopo il periodo di carcere preventivo.”
L’operazione Ardire ha portato ad oltre 40 perquisizioni, 24 imputati e 8 carcerazioni cautelari.
“Io non ho subito questo trattamento, ma erano mie amiche, lo sono anche ora. Sono state mie coinquiline per anni. La paura che ho provato è stata indescrivibile, insieme alla forte solidarietà nei loro confronti. Ho sentito dentro di me che non potevo “darmi delle spiegazioni logiche” né riguardo ai loro arresti né riguardo la mia paura; a quel punto poteva capitare di tutto, in un secondo la mia vita sarebbe potuta diventare la vita di una terrorista. È vero, poteva succedere. Questi sono atti di repressione che generano tensione, come negli anni ‘70 e ‘80, atti del potere finalizzati a tattiche politiche molto più grandi di me e più grandi di quello che per noi è giusto o sbagliato.
Quindi ho dovuto trovare qualcosa dentro di me, fuori dalla politica, dalla società organizzata, dalle categorie del bene e del male, che mi facesse andare avanti dignitosamente, con voglia e determinazione, senza vivere nella perenne condizione della vittima impaurita, pedinata, controllata, spiata e indignata nei confronti del mondo.”
Quando domando a mio padre di dirmi la prima cosa che gli viene in mente nel ricordare la Strage di Bologna, lui mi risponde che, ad oggi, non c’è ancora davvero un colpevole e i misteri che stanno dietro a quel fatto assurdo sono troppi.
Io invece penso alla voce rotta dalla pena del Presidente Pertini davanti ai microfoni e alle telecamere, mentre cammina davanti alle macerie della Stazione Centrale, ai corpi straziati che vengono portati all’Ospedale Maggiore o all’obitorio, in quella mattina di un’estate iniziata nel più terribile dei modi.
“Ho visto dei bambini, laggiù, nella sala di rianimazione, due stanno morendo ormai, un bambino e una bambina. È una cosa straziante.”
In Lacuna, Daniela mette in scena l’angoscia del sotterrare i fatti, del dimenticare. Compie gesti quotidiani comandati, chiusa in un “recinto” fittizio, legata ad un collare, spronata a dimenticare – o a non rivelare – grazie e a causa di un lavaggio del cervello intenso e sensato solo nell’accezione più sbagliata di ciò che deve essere fatto. Fino al momento in cui ogni singola certezza si sgretola, e si infrange contro quel muro ancora più potente, più forte e profondo che è la coscienza umana. I confini vengono cancellati, strappati come effettivamente accade durante la sua performance. Il caos primitivo ed innocente delle radici umane torna e si fa largo, disinfettando e pulendo.
Il ‘segreto di stato’ come luogo fisico dove conservare e proteggere. Provate ad immaginare di dover mantenere il più terribile dei segreti. Immaginate di avere il compito di nascondere agli italiani la verità su 85 morti e centinaia di feriti mutilati, il compito di preservare un equilibrio che nessuno ha notato spezzarsi.
Dove lo conservate? Cosa utilizzate per conservarlo? Cosa siete disposti a fare?
“Ho sentito che entrare teatralmente nei panni di chi ha esercitato il potere su di me avrebbe potuto insegnarmi meglio, più a fondo, che dovevo davvero credere in me stessa, altrimenti non ci avrebbe creduto neanche più mia madre e mi sarei considerata definitivamente una persona qualsiasi.” mi dice.
“La cosa meravigliosa che ho scoperto è che tutta questa storia del potere è anche una questione di scelta. Si può scegliere di essere più o meno malati di peste, quel morbo che spinge un uomo ad ammazzare un altro uomo, come dice Camus (da “La Peste” di Camus, libro che ha ispirato il testo di RIGHT ON!). Posso scegliere quanto essere malata o di non esserlo affatto. Vedo la risoluzione del potere sia scegliendo di non essere malata di peste con sforzo quotidiano oppure di esserlo il meno possibile, ribellandomi a chi mi sta infettando con il suo morbo. In ogni caso è un duro lavoro.”
Fuori dal teatro è il tramonto, aspetto che Daniela esca, le farò una battuta riferita al fatto che l’ho scoperta commuoversi, sul palco, quando si è presa gli applausi al termine della premiere. Non le dirò che anch’io mi sono commosso, per tante cose, che vanno da lei alla storia dell’Italia, da quelle parole di Pertini sentite tanti anni dopo quel 2 agosto 1980 e che tornano di nuovo, fino alla nostra amicizia e a quello che lei è riuscita ad insegnarmi, ancora una volta. Non le rivelerò che mi ha regalato quella sensazione di incompletezza nei confronti della vita che mi lascia dentro ogni volta che assisto ad un suo spettacolo. La sensazione che sempre cerchiamo di cancellare, perché l’essere incompleti o il pensare a qualcosa di incompleto spesso ci trascina nei baratri e invece la Marcozzi, quando si muove e quando performa, te la butta tutta in faccia quella sensazione, senza che tu possa fare nulla per poterle resistere e ti spiega che è giusto così, perché la vita è completa solo alla fine della sua corsa. Non prima, non durante.
L’abbraccerò come l’ho sempre abbracciata, in quel modo leggermente sostenuto e pieno di bene, senza stringere troppo, perché per me resterà sempre, oltre che un’attrice ed un’insegnante formidabile, anche un folletto sfuggente, un memo impalpabile che mi ricorda, talvolta, chi sono davvero.
Segui Mattia Grigolo su Yanez | Facebook | Twitter
In copertina: Daniela Marcozzi ‘Watermouth’ – Ex Furnace of Sant’Andrea di Conza, Avellino, IT – © Francesco Corbisiero
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin