Per anni ho pensato che fosse un hotel. O una di quelle pensioni vecchio stile, con una piccola scrivania all’ingresso (chiamarla reception sarebbe un’iperbole), con il campanello da suonare quando si arriva per sollecitare l’intervento di qualcuno. Del portiere magari, che dovrebbe essere lì per i nuovi arrivati e che invece è altrove. Perché nelle pensioni è sempre lui a fare tutto, dai tubi da stasare alla stanza 103 con gli scarafaggi da abbattere.
Col tempo sono diventato un osservatore migliore e ho capito: l’edificio dall’altro lato della strada, in tutta la sua grigia lunghezza, che occupa lo spazio visivo tra il primo e l’ultimo vetro della finestra del mio salotto, non è un luogo per villeggianti… o meglio, lo sarebbe se per villeggianti si intendono i vecchi che vengono a trascorrerci gli ultimi anni della loro esistenza.
Detto così, l’idea di abitare davanti ad un posto del genere sembra triste. Lo pensavo anche io. All’inizio mi inquietava, immaginavo mi avrebbe causato tetre riflessioni sullo scorrere della vita e sul decadimento delle membra umane, ma dopo molti anni di coabitazione mi ha dato un qualche tipo di sicurezza.
Il palazzo grigio non è solo una casa di riposo, ma un metronomo. Per quanto possa correre, affannarmi, tornare a casa ad orari impossibili o svegliarmi a metà giornata, lui è sempre lì: la mattina all’alba il personale apparecchia la sala da pranzo, riccamente arredata in stile Versailles, per la colazione; poco prima di mezzogiorno il rituale si ripete. All’ora del tè la giornata si conclude con la cena. Non ci sono deroghe, non esistono capodanni o feste comandate che scalfiscano il ritmo. Dovrei sentirmi in colpa quando guardo dalla finestra e faccio colazione mentre gli ospiti pranzano? Forse. In realtà mi da pace pensare che stiamo consumando un pasto insieme. Il mio è semplicemente un po’ più solido.
La casa di riposo qua davanti è una struttura d’élite: gli ospiti non vivono in camerate ospedaliere ma hanno a disposizione dei monolocali privati. Per qualsiasi bisogno possono chiamare il personale di servizio, paziente e sempre disponibile, 24 ore su 24. Tranne durante le pause, che gli infermieri passano fumando una sigaretta dopo l’altra sul tetto dell’edificio; quello è il loro spazio, delimitato da una centralina elettrica e da un comignolo, con un triste patio di legno, ufficialmente lì per riparare i presenti, ma che ufficiosamente grida “cerco di dare umana dignità a una distesa di catrame e cemento. E non ci riesco”.
Il personale gode di alcune deroghe festaiole che agli anziani non sono permesse: la notte di capodanno, ad esempio; chi è in pausa può andare sul tetto a stappare spumante e a rincorrersi con le stelle luminose in mano. Ritornano bambini per la durata di un sospiro: finite le scintille, si ricomincia il lavoro. Qualche piano sotto i vecchietti più temerari assistono affacciati alle finestre ai test balistici intercontinentali che i vicini turchi mettono in scena per strada. Stanno attaccati ai vetri, coi capelli bianchissimi sui quali si riflettono le luci colorate dei fuochi d’artificio; le loro teste cotonate sono l’unica cosa visibile nel buio della casa di riposo.
Quando non riesco a dormire, e capita spesso, vado in salotto e cerco consolazione: so che anche i miei dirimpettai sono insonni perché in molti appartamenti le luci sono accese. Alcune volte sono deboli: immagino siano luci da comodino, magari rimaste accese dopo che i legittimi proprietari si sono addormentati. Altre volte le luci sono più forti e dietro le tende bianche vedo muoversi delle ombre: qualcuno è sveglio come me, ma non sta guardando fuori dalla finestra dall’altra parte della strada. Ci sono poi le luci intermittenti negli appartamenti completamente bui: quelle sono le televisioni, rimaste accese a raccontare cosa succede nel mondo oltre le tendine bianche delle finestre.
I più fortunati tra gli ospiti possono estendere il loro limite di mondo: chi è in grado di camminare autonomamente, o con l’aiuto di un deambulatore, può uscire dalla struttura e fare un giro nel quartiere. Il percorso è una specie di circuito: la prima strada a destra dopo l’uscita, cento metri fino a Wittenbergplatz. Una breve sosta a vedere l’umanità che si affanna inutilmente e poi via, un passo dietro l’altro sulla strada verso il rientro, lungo una Tauentzienstraße piena di alberi e negozi; un ultimo sforzo per la curva sulla sinistra su Nürnbergerstraße. Fiatone, le gambe affaticate come dopo una tappa di montagna al Tour de France. In fondo si vede il traguardo, il porto sicuro, la propria stanza dietro le tende.
La domenica è il giorno delle visite, chi vive fuori viene a vedere come sta il padre, il nonno, la zia o magari l’amica che ad un certo punto è diventata inadatta a stare da sola in casa. I bicchieri sono cominciati a cadere troppo frequentemente, qualche fornello lasciato acceso, un po’ di confusione coi nomi… Le stesse cose che continuano a succedere nella casa di riposo, solo che lì nessuno le vede. E quindi, semplicemente, non accadono. Questo significa che gli anziani stanno meglio.
E forse è davvero così, senza gli occhi di qualche rompicazzo a giudicarli in ogni deroga involontaria alla loro autosufficienza.
Quando i capelli diventano bianchi e le rughe delle ragnatele, il tempo si trasforma: diventa elastico e si tende in forme e estensioni inimmaginabili fino a pochi anni prima, quando ventiquattro ore non bastavano perché eravamo sempre di corsa; da vecchi non ci si ricorda nemmeno a cosa ci servisse tutto quel tempo. Una giornata diventano 2880 giri dell’enorme insegna luminosa sul palazzo accanto, le stagioni si misurano dai vestiti di chi passeggia per strada; tutto quello che sta in mezzo è spazio da riempire. Anche le ore della notte, che prima servivano per il sonno, diventano un numero da contare.
Da qualche mese una delle ospiti del palazzo ha l’abitudine di lasciare accesa una piccola torcia sul davanzale della finestra per tutta la notte. Forse per cercare di dirmi che lei è lì e non dorme. Ogni mattina, appena albeggia, apre la finestra e spegne il suo segnale luminoso.
È un’abitudine che dovrei prendere anche io quella della torcia accesa, dovesse anche solo servire a far vedere alla mia dirimpettaia che un po’ di compagnia ce l’ha e che non deve aspettare le sei della mattina per ritornare nel mondo dei vivi. Non è sola a catalogare le sfumature di buio e ad affollarsi la testa di pensieri. Sono con lei e insieme abbiamo più coraggio; possiamo volare più in alto dei palazzi, guardare fino a dove gli occhi arrossati ci permettono di vedere. E parlarci francamente, di quelle cose che non si riescono a dire alla luce del sole. Poi però l’illusione finisce, io ritorno nel mio salotto e capisco di essere ancora troppo giovane per essere sincero con me stesso. E rimango vigliaccamente al buio.
Arriva un momento in cui ci si stanca anche di essere vecchi e di tutte le comodità della casa di riposo. Penso sia giusto così: i giri dell’insegna luminosa diventano semplicemente troppi, le persone che passano per strada sembrano sempre le stesse, le zuppe del pranzo e della cena finiscono per assomigliarsi in gusto e consistenza. E allora si decide di spegnere la tv, la luce del comodino e pure la torcia alla finestra. Non c’è più nessuno in casa. L’ultima avventura, la più emozionante, si fa da un’altra parte. A bordo di un’ambulanza, con le luci più forti che si siano mai viste, anche un ultimo pensiero: con delle luci stroboscopiche blu fuori dalla finestra chi potrebbe far finta di dormire e non vedere?
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