Dunque: i Kraftwerk (il cui nome in tedesco significa centrale elettrica) sono una band di musica elettronica formatasi a Düsseldorf nel 1970 dalle ceneri degli Organisation. I membri fondatori sono Ralf Hütter e Florian Schneider, ai quali si aggiungono successivamente Peter Schmidt, Wolfgang Flür, Emil Schult e Fritz Hilpert, solo per citarne alcuni. Sono considerati pionieri della musica elettronica, principalmente elogiati per la loro capacità di unire le idee della musica classica e d’avanguardia (come per esempio, la musica di Stockhausen e la musique concrete) con la sensibilità della popular music. Raggiungono il successo internazionale nel 1974 con l’uscita di “Autobahn”, al quale seguono tra gli altri “Radio-Activity” (1975) e “The Man-Machine” (1978). Nel tempo, e ancora fino a oggi, la loro influenza è andata a toccare i contesti musicali più disparati, da Afrika Bambaataa e i Coldplay, passando per i Depeche Mode, David Bowie e i Daft Punk. La musica dei Kraftwerk, così come la loro estetica e identità visiva, è semplice, minimale, ripetitiva, quasi distante. La loro peculiare sintesi di visivo e sonoro sottende l’idea dell’interazione simbiotica tra uomo e macchina: tale idea si traduce quindi da un lato nell’ampio utilizzo di strumenti elettronici (spesso realizzati da loro stessi), e dall’altro in una presenza scenica molto meccanica, anzi, decisamente robotica. Insomma i Kraftwerk sono quelli che oggi fanno live 3D con tanto di occhialini per il pubblico e che lasciano spesso che siano dei veri e propri manichini a prendere il loro posto sul palco e non solo.
I Kraftwerk hanno influenzato la storia e cambiato per sempre la popular music, più di quanto non abbiano mai fatto i Beatles. O perlomeno così afferma Uwe Schütte. Il professor Schütte, i cui interessi ricadono maggiormente sulla storia e sulla cultura contemporanea della Germania, è così profondamente convinto che ha infatti persino organizzato la prima conferenza dedicata interamente alla band tedesca dal titolo “Industrielle Volksmusik for the Twenty-First Century: Kraftwerk and the Birth of Electronic Music in Germany”. La conferenza si è svolta nel 2015 alla Aston University di Birmingham in Inghilterra e prevedeva due giornate ricche di presentazioni intervallate solamente da una serata ‘Kraftwerk Disco’, tenutasi all’Electric Café, titolo di un disco dei Kraftwerk, utilizzato qui con goliardia. A partecipare sono state quasi 200 persone provenienti da tutto il mondo, tra accademici e fan; sebbene non fosse chiaro dove iniziasse e dove finisse la meticolosa precisione dei primi e la frettolosa euforia dei secondi. Il primo giorno si è iniziato con Stephen Mallinder (sì, quello dei Cabaret Voltaire) che ha presentato un discorso sull’estetica moderna dei Kraftwerk; di lì si è poi continuato a discutere su temi quali l’identità nazionale, il retro-futurismo, l’arte del movimento Dada, la memoria collettiva, la nostalgia, il Krautrock e altro ancora. Per quelli di voi che peccano di euforica precisione, è tuttora possibile leggere, ascoltare e scaricare il programma, tutte le presentazioni, i discorsi e i momenti di Q&A che sono stati caricati sul sito dell’università.
Ah, ve l’ho già detto che a raccontarsi e a farsi raccontare c’era pure Wolfgang Flür?
Nonostante non fossi presente a Birmingham durante i due giorni, dando un’occhiata ai vari link disponibili sul sito dell’università, ho avuto modo di leggere l’intervento del professor Pertti Grönholm, ricercatore presso il Turku Institute of Advanced Studies: “When Tomorrow Began Yesterday: Kraftwerk’s Nostalgia for the Past Futures”. Grönholm scrive che Neon Lights (originariamente “Neonlicht”), è una canzone d’amore profondamente e sfacciatamente nostalgica. Pubblicata nell’album “The Man-Machine” (1978), Neon Lights è una traccia che descrive una passeggiata attraverso le strade della Düsseldorf degli anni settanta e, più precisamente, attraverso le luci al neon che tappezzano ogni angolo della città: dalle insegne dei negozi e dei ristoranti, alle luci delle banche e degli hotel – molti dei quali costruiti tra gli anni venti e trenta. Dietro a ogni insegna poi c’è una storia, un ricordo, un’immagine che appartiene a quel posto, alla città intera o al singolo individuo. Camminando tra le strade e le luci al neon, lanciando lo sguardo alle vetrine e ai passanti, i Kraftwerk si spostano sì tra i simboli della vita moderna (includendo l’aspetto urbano della città, dunque l’architettura, e soprattutto la spettacolarizzazione della vita in ogni suo aspetto), ma anche tra le immagini e le storie della Düsseldorf di quando erano bambini: si va avanti o indietro col tempo, si elogia il futuro e ci si rifugia nel passato. Attraverso l’unione del testo, della musica e successivamente del video della canzone, quella dei Kraftwerk diventa così una passeggiata sonora e visiva: un’immagine collettiva che può essere letta, ascoltata, immaginata o vista.
Ciò che più mi ha interessato del pensiero di Grönholm è che questa nostalgia non è minimamente considerata come una malinconia personale fine a se stessa o come uno stato d’animo che rende l’individuo incapace di guardare avanti. La nostalgia dei Kraftwerk, Grönholm la identifica come un perfetto esempio di retro-futurismo e quindi come una nostalgia che riflette sul passato mentre contemporaneamente vive il presente e pensa al futuro. Questa ambigua nostalgia viene quindi tradotta non solo in musica ma anche in una vera e propria attitudine, spesso e volentieri mostrando grandi dosi di ironia e coscienza critica. In una intervista del 1976, lo stesso Ralf Hutter faceva notare come la loro sensibilità artistica si lasciasse influenzare in egual misura dal contesto culturale degli anni trenta – in modo particolare, dalle avanguardie artistiche e dallo sviluppo delle tecniche elettroacustiche in Europa – e dai pionieri del surf pop, quasi loro coevi, i Beach Boys. Quest’ultimi, che a delle orecchie superficiali potrebbero sembrare distanti musicalmente, vengono guardati dai Kraftwerk al tempo stesso con grande ammirazione e sana invidia. Ai Beach Boys viene infatti ammirata e invidiata, al di là di ritmi e melodie, la capacità di essere riusciti a dare un’immagine precisa e reale della California degli anni sessanta attraverso canzoni da tre o quattro minuti. Insomma i tedeschi speravano che, un giorno ascoltando i loro dischi, a qualcuno arrivasse l’immagine della Germania degli anni sessanta. Certo, ascoltandoli oggi verrebbe da dire che ci sono riusciti o almeno che non ci sono andati troppo lontano.
Tornando al concetto di retro-futurismo, l’attenta nostalgia dei Kraftwerk è capace di riflettere la storia della Germania e di riconnettersi al passato con il linguaggio culturale e musicale del presente. Però non è solo capace di riflettere e di riconnettere, ma anche di restituire una parvenza di identità sociale e culturale a una Germania che sembrava essere smarrita, di ricostruire una memoria collettiva priva di qualsivoglia umiliazione, e di ridonare significato a simulacri ormai vecchi e spenti. Insomma, è una Germania divisa che deve (smettere di) render conto degli anni del nazismo, di due guerre mondiali, dell’Olocausto, per poter iniziare a immaginare un futuro più florido che riesca a lasciarsi alle spalle quell’ormai interiorizzato senso di rimorso e vergogna.
A tal proposito, parlando di simulacri e identità nazionale, un disco che può servire come perfetto esempio è proprio Autobahn (1974). Il disco è infatti il primo nella produzione dei Kraftwerk a presentare una nuova identità musicale, più complessa e matura rispetto allo stile puramente krautrock dei dischi precedenti; è il primo disco ad avere i testi completamente in tedesco, distinguendosi in questo da album contemporanei i quali preferivano l’inglese e dunque il contesto internazionale; ed è inoltre il primo disco a connettere direttamente la band con il passato della Germania. Questa connessione avviene esattamente come abbiamo visto in Neon Lights: non limitandosi ai termini musicali, che risultano più fluidi e predisposti all’imprevedibile mondo dell’immaginazione, ma adoperando contemporaneamente la schiettezza del linguaggio visivo.
Ancora prima di mettere il disco sul piatto, i fan dei Kraftwerk si trovano davanti una normalissima immagine, realizzata da Emil Schult qui in veste di pittore, che rappresenta in primo piano una strada statale (una autobahn, appunto) e sullo sfondo e sui lati degli spazi verdi. Ma guardando bene normalissima non è, o perlomeno c’è molto di più in ciò che viene semplicemente rappresentato. La strada è una delle tante strade costruite negli anni venti e trenta che doveva servire a connettere gli spazi urbani della città con la campagna e quindi una possibile allusione ai tentativi di modernizzazione affrontati dal paese negli anni cinquanta. Poi ancora, ci siamo noi alla guida di una macchina che riflette sullo specchietto i quattro artisti e altre due macchine, una che cammina sulla nostra stessa corsia e l’altra che ci viene incontro. E fin qui, almeno per noi, niente di strano. È per quei fan che il disco l’hanno comprato quando è uscito che potrebbe risultare più ironico. La macchina nera infatti è una Mercedes-Benz W112 300SE mentre la bianca è una Volkswagen Beetle (meglio conosciuta come maggiolino). Se la prima rappresenta il mezzo di trasporto utilizzato da una classe medio-alta, la seconda è la macchina che garantiva a tutti di potersi spostare spendendo poco; quindi, la prima è stata spesso favorita dall’alta borghesia e la seconda dal popolo. Viene da sé che una se ne torna indietro e l’altra guarda avanti.
Ad essere più precisi però, bisognerebbe aggiungere che proprio la Volkswagen fu commissionata dallo stesso Adolf Hitler e che quindi nel suo andare avanti – ancora una volta analizzando la relazione tra vecchi simulacri e la volontà di costruire una nuova identità nazionale – c’è anche il desiderio di liberarsi di un passato che i tedeschi sentono ormai stretto e lontano.
La Volkswagen che ci sfreccia davanti rappresenta dunque non solo il diritto di dimenticare, in un certo senso, ciò che è stato per poter riuscire a ricominciare e a dare spazio a una nuova memoria collettiva, ma soprattutto la volontà di ricostruire il passato stesso e, svuotandolo appunto di vecchi significati, guardarlo, analizzarlo, interpretarlo, usarlo da una prospettiva nuova, diversa, futurista, certamente attuale.
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