È sabato pomeriggio a Kottbusser Tor, la grande piazza ovale tagliata in due dall’omonima stazione della metropolitana di Berlino, Linea 1. Io sono lì ma non riesco a vedere; la mia mente è come bloccata a quello che è successo pochi minuti prima. Potenza dell’immagine. Mi sembra un film e dentro di me penso a quanta fatica mi ci vorrà per elaborarlo.
Oggi pomeriggio la parte di piazza che dà a nord è affollata, come di regola. Ci sono di tutte le etnie: bianchi, neri, arabi, turchi; la disperazione e la violenza latente le percepisci bene camminando fra quella gente, cercando di capire se puoi vedere qualcuno che può aiutarti. Chiedo a un ragazzo turco con la sigaretta in bocca e un giubbotto di pelle se conosce i Jungs che mi hanno appena rubato la macchina fotografica. Con un’espressione di compassione che un po’ mi sorprende mi dice di no, ma che gli dispiace. Il tipo ha altre questioni a cui pensare. In mezzo a quella gente, mi accorgo ancora di più di vivere la realtà come in uno schermo. Passo in mezzo ai tossici e agli spacciatori e vado, lungo il lato occidentale, verso le scale laterali del Neue Kreuzberger Zentrum (NKZ), il grande palazzo, una cosa mostruosa in quanto a bruttezza, che sovrasta la strada e la piazza. È un caseggiato enorme a sette piani, con la facciata punteggiata di antenne paraboliche che spuntano dalle finestre delle case degli immigrati, in prevalenza turchi, che ci vivono. Salite le scale c’è una sala scommesse e so che lì dentro posso trovare qualcuno che ha contatti, che conosce. L’ambiente è quello solito delle sale giochi, fumoso; e sguardi agli schermi. Mario Gomez porta il Besiktas in vantaggio proprio quando entro. Cerco la faccia più losca possibile e gli chiedo se può aiutarmi a trovare la macchina fotografica, se sa niente di quello che mi è appena successo. Gli offro 100 euro. Mi dice secco: “Io no, va’ da lui”, indicandomi un altro uomo. Vado da questo, ma anche lui si mostra reticente. Esco e sulle scale vedo due ragazzi. Sui trenta anni, vestiti curati. Sneakers, camicia e giubbotto di pelle, cappellino. Sono turchi. Uno di loro mi dice, dopo che gli ho offerto soldi, che lui sì, ha qualche contatto, che può aiutarmi. “Bene”, dico, “allora portami dal tipo, mi dai la Kamera e io vi do i soldi”. Fa qualche telefonata. Mi dice che il ladro non mi vuole vedere, ha paura, della polizia; e che io devo dare i soldi a lui. Poi mi porterà la macchina. Cazzo, ho appena commesso un errore che mi è costato la Kamera, ma coglione fino al punto di dare i soldi a uno sconosciuto, no. Cerco di spiegare ai due come la penso e comunque rimangono allettati dalla possibilità di guadagnarsi 100 euro senza faticare, oppure, inizio a pensare, dalla opportunità di derubarmi di nuovo (gli avevo fatto vedere il foglio verde). Devo stare attento e comunque stiamo insieme mezz’ora, a contrattare, a parlare.
Fa ancora una telefonata e poi mi dice: “Andiamo!”. Ci avviamo lungo la Reichenbergerstraße, verso l’incrocio con l’Erkelenzdamm, la strada che costeggia ad est il giardino pubblico che ricopre quello che una volta era il Luisenstädtischer Kanal, il canale che arrivava fino a Engelbecken, un angolo bello di Kreuzberg.
Tutto si svolge in una manciata di secondi. Un gruppo numeroso di adolescenti turchi seduti nelle due panchine. Io che provo a fargli una foto. Loro che dicono di no, che si avvicinano, ridendo: “Italiano! Pizza!”.
Ci vado vicino a riprendermi la macchina fotografica ma non ci riesco. Vedo infatti un giovane con il cappuccio della felpa in testa a 200 metri che parla al telefono. Sta parlando con il ragazzo che è con me; gli sta dicendo che io non mi devo avvicinare, di farsi dare i soldi da me. Di nuovo gli spiego che io non mi fido, che io sgancio i soldi solo quando tocco con una mano la macchina e con l’altra consegno l’obolo. Prova a convincerlo, ci stiamo avvicinando. Adesso il ladro è a 100 metri. Mi viene una rabbia che penso anche di dargli una fraccata di botte e che è giusto che mi riprenda la mia macchina. Ma è solo un pensiero fugace. E pericoloso. Ho anche una sensazione brutta. Davvero di essere attaccato e derubato. Quindi mi sposto e mi allontano da quello che era con me. Lui in qualche modo mi “tranquillizza” e dice che ora proverà ad andare da lui, senza soldi e a convincerlo. I due si congiungono che oramai sono a Wassertorstraße, distante dal parco. Io li seguo a distanza implorando con la mente: ”Dai! Prendi ‘sti cazzo di soldi e ridammi la mia macchina fotografica”. E lì faccio un errore; un altro. Passa una signora in bici, con lo sguardo sembra che le chieda aiuto perché si ferma e mi parla. Vedo i due ragazzi, a nemmeno 50 metri da me, che si mettono a correre e scappano.
Addio macchina.
L’avevo presa in mano due ore prima, più o meno, per andare a fotografare il giardino sotto il palazzo dove abito. E’ un edificio anonimo, isolato, nell’angolo tra Skalitzerstraße e Oranienstraße, dove questa diventa poi Wienerstraße. Fra i palazzi scrostati e segnati dai graffiti c’è un bel giardino, che regala un fascino particolare alle decadenti case intorno. Tutto si svolge in una manciata di secondi. Un gruppo numeroso di adolescenti turchi seduti nelle due panchine. Io che provo a fargli una foto. Loro che dicono di no, che si avvicinano, ridendo: “Italiano! Pizza!”. Mi circondano e mi tirano via la macchina. È l’immagine che mi si imprime nella mente: il giovane che in una frazione di secondo mi strappa la macchina fotografica dalle mani e la sua schiena. Prima di rendermi conto che non è uno scherzo lui è già a dieci metri da me. Stupito, mi volto verso gli altri giovani che si sono anche loro immediatamente dati alla fuga. Cerco di bloccarne uno e questo mi colpisce al volto con un pugno. Provo inutilmente a inseguirli e arrivo a Kotti, da dove è iniziata questa storia.
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Foto copertina: © Zaira Biagini
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