Jordan Peterson negli ultimi due anni è passato dall’essere un anonimo docente universitario canadese di psicologia allo status di star. Ospite di una miriade di trasmissioni televisive e radiofoniche, viene osannato dai suoi fan in ogni angolo dell’internet, oppure insultato violentemente da chi non è d’accordo con lui. Il suo ultimo lavoro: 12 rules for life, an antidote to chaos, è un bestseller internazionale.
Perché tutti questi riflettori puntati su Peterson?
Maps of meaning, il primo libro
Prima di avventurarmi in un discorso politico devo per forza parlarvi delle teorie di Peterson, dello sfondo teoretico in cui si muove e dell’impianto metodologico a cui si appoggia. Sopportate questa manciata di paragrafi in cui mi cimento con un po’di filosofia e vediamo chi è Peterson e cosa effettivamente dice.
Jordan Bernt Peterson è nato nel 1962 ad Edmonton, in Canada. Dopo un percorso accademico standard, per anni è stato un anonimo professore universitario di psicologia all’Università di Toronto, conosciuto da una nicchia per aver pubblicato Maps of Meaning: The Architecture of belief, un’alquanto astrusa analisi dei miti, delle religioni e dei sistemi di credenze umani, supportata dalla neurobiologia.
Peterson sostiene che alla base del nostro sistema di pensiero e quindi del nostro modo di organizzare il mondo ci siano due forze: ordine e caos. Il caos è lo sconosciuto, l’avventura, la sfida, il progresso, il viaggio, ma anche la morte di una persona cara, la perdita del lavoro, la malattia, il posto in cui si precipita quando il terreno ti frana sotto ai piedi. L’ordine è la struttura, la sicurezza, la casa, la routine, la famiglia, il focolare, la religione, la moneta, ma anche l’oppressione, la prigione, l’assenza di libertà, la noia, l’annichilimento, il totalitarismo. Queste due forze sono presenti come archetipi in ogni narrazione che l’umanità ha compiuto su se stessa fin dall’inizio dei tempi: esistono in ogni testo religioso, in ogni rito, in tutte le storie, le favole e i film. Sono lo Yin e lo Yang, il Maschile (associato con l’ordine) e il Femminile (associato con il caos), il fascismo e il nichilismo, il giorno e la notte.
L’essere umano, secondo Peterson, si è evoluto interiorizzando queste narrazioni, che sono diventate parte della nostra struttura neurologica. Pensate, ad esempio, alla stessa divisione del cervello in emisfero destro ed emisfero sinistro.
Per Peterson, in equilibrio tra ordine e caos esiste il significato (meaningful), un luogo che l’uomo, darwinianamente, si è evoluto a riconoscere come significativo. Questo vuol dire che, per vivere in modo positivo e sano, l’uomo deve stare saldo nell’ordine, ma con un piede nel caos, in modo da espandere la propria coscienza e i propri orizzonti. Così facendo, lentamente, incorpora parte del caos nell’ordine dell’esistenza, mentre la parte dell’ordine che non è più utile va a decadere. Le religioni, i miti, le narrazioni che l’uomo ha prodotto nel corso del tempo sono delle linee guida a questo modo di vivere significativo, perciò è importante il loro studio. Non solo, il nostro cervello riconosce quando ci troviamo in quel punto, reagisce istintivamente e rilascia serotonina. Infine, quel luogo non è solo un luogo metaforico e psicologico, è un luogo reale ed è rappresentato da strutture sociali costanti che fanno parte del modo di vivere dell’uomo e pertanto non possono essere scardinate. Una di queste strutture sarebbe, per Peterson, un sistema gerarchico dove il maschio sta ai vertici (torneremo su questo punto più tardi).
Vorrei prima di tutto esaminare il linguaggio che viene usato da Peterson.
In Maps of Meaning vengono connesse tantissime discipline diverse (dalla religione, alla psicologia, alla filosofia, alla sociologia, alla neurobiologia) usando della terminologia specialistica che lascia spaesato qualsiasi tipo di lettore. I concetti vengono ripetuti all’infinito, ma mai nella stessa maniera. Nulla è descritto in modo troppo specifico, le argomentazioni risultano vaghe, sembrano contenere della sostanza, ma in realtà quella sostanza è spesso ineffabile, più frutto di intuizione che di ragionamento. Ci sono tanti grafici che invece di delucidare – come dovrebbe essere loro compito – rendono tutto ancora più fumoso. Il corsivo viene usato spesso per sottolineare delle parole che, non si capisce bene perché, dovrebbero avere più senso. Anche le maiuscole vengono messe per dare legittimità ad alcune Parole, ma non ad altre parole. Ed ecco ora piogge torrenziali di aggettivi completamente superflui.
Vi faccio un esempio. Qui potete vedere due grafici che dovrebbero essere esplicatori e che io sfido chiunque ad interpretare:
Il risultato è un prodotto che non va incontro al lettore, ma lo disorienta. Alla base di questa struttura comunicativa complessa, ci sono però delle osservazioni legittime, e chi legge può quindi avere l’impressione di trovarsi di fronte a rivelazioni importanti, tanto importanti da risultare di difficile comprensione e, soprattutto, tanto complesse da essere difficili da criticare. Si tratta, in fondo, di una tattica persuasiva non nuova: stordire il pubblico con una nebbia di tecnicismi ed eloquio forbito, che nasconde un messaggio misero o comunque non troppo sofisticato.
Ciò significa che il contenuto del libro sia da screditare totalmente? Non credo. Il lavoro di Peterson contiene degli spunti affascinanti. La sua interpretazione e comprensione dei miti e delle narrazioni è profonda e il tentativo di saldare scientificamente le considerazioni teoriche effettuate è coraggioso. Personalmente trovo intelligente anche l’operazione di collegamento di più discipline, anche se è quando Peterson “sta nel suo”, ovvero parla e scrive di psicologia, che risulta più convincente. Anni di psicologia clinica gli hanno fornito un’intima conoscenza della psiche umana e dei suoi meccanismi. Guardare i suoi video, ad esempio, può davvero essere di aiuto per comprendere e ricalibrare alcuni nostri comportamenti. Ad esempio in questo video parla di dipendenza e in questo di ansia.
Ci sono, però, dei problemi di fondo i quali non possono che discreditare la teoria in toto.
1 – Il carattere multidisciplinare del libro fa sì che sia impossibile stabilire la verità dei paradigmi avanzati. Il lavoro di selezione delle informazioni ,prese prima dall’una e poi dall’altra disciplina, e di amalgamazione di quelle informazioni in una teoria unica, implica necessariamente un certo livello di arbitrarietà. La teoria di Peterson è impossibile sia da verificare, che da falsificare. Questo è quello che accade quando si connettono nozioni provenienti da tanti saperi totalmente diversi tra loro, costringendoli a stare insieme in un sistema sensato. Quel “sensato” è frutto di forzature, perché nel decidere quali nozioni prendere e quali scartare, già si è effettuata una scelta interpretativa che andrà ad influenzare l’esito teorico futuro. Questo è tanto più chiaro quanto più si nota, infine, il carattere ideologico della teoria di Peterson. I miti che lui sceglie, i parallelismi dal mondo animale che lui porta, vanno tutti a delineare una certa ideologia conservatrice a lui cara. Se invece fossero stati selezionati altri esempi, altrettanto validi, il risultato sarebbe stato totalmente diverso.
2 – Peterson cade in quella che in filosofia viene chiamata fallacia naturalistica, la quale consiste nel derivare prescrizioni da descrizioni. In questo caso viene sostenuto che la neurobiologia – che fa da impianto a tutta l’argomentazione del libro e in generale a tutte le argomentazioni di Peterson – ci dà delle indicazioni morali di comportamento. Un esempio più chiaro di fallacia naturalistica lo troviamo nelle discriminazioni contro gli omosessuali, quando viene sostenuto che le coppie gay non possono adottare bambini perché, naturalmente, non possono avere figli.
Date due proposizioni (1) e (2): vediamo dov’è l’errore nel procedimento.
(1) Una coppia formata da individui di uno stesso sesso non può avere figli in modo naturale, quindi
(2) una coppia formata da individui di uno stesso sesso non ha il diritto di avere figli.
La premessa (1) è un fatto di natura, la conclusione (2) è invece un giudizio etico. Tra (1) e (2) non esiste nessuna correlazione logica.
Peterson commette lo stesso errore, sebbene in modo meno grossolano, quando sostiene, ad esempio, che il sistema gerarchico è una parte della struttura sociale che si deve assecondare perché frutto dell’evoluzione della specie umana e incorporata nel sistema neurobiologico umano.
Tagliando corto, le teorie di Peterson non reggono un’analisi filosofica. Contengono sì spunti interessanti, sono sì frutto di una preparazione accurata, ma non costituiscono niente di rivoluzionario o di geniale. Allora a cos’è davvero dovuto il successo di Peterson? Perché l’orda di fan che letteralmente lo adorano? Perché tutta questa preoccupazione da parte di coloro che non condividono le sue teorie? In fondo non si tratta del primo intellettuale conservatore al mondo.
Tutto è iniziato nel 2016, quando Peterson ha rilasciato una serie di video contro il politically correct che hanno raggiunto più di 400 mila visualizzazioni in meno di un mese. Da qui la sua ascesa.
La battaglia al politicamente corretto
A spingere Peterson a girare i video è stata una nuova legge canadese, il Bill C-16, che include nel Canadian Human Rights Act identità di genere ed espressione di genere, mettendole sullo stesso piano di razza, religione e orientamento sessuale. Questo rende illegale ogni discriminazione per ragioni di identità di genere.
Quello che soprattutto Peterson non ha digerito è la parte in cui viene richiesto di usare pronomi alternativi come “they”, “ze” e “zir” al posto dei classici pronomi “he” e “she”, nel caso qualcuno non si riconosca nella classica distinzione maschile/femminile. In un’intervista dichiara:
“If they fine me, I won’t pay it. If they put me in jail, I’ll go on a hunger strike. I’m not doing this. And that’s that. I’m not using the words that other people require me to use. Especially if they’re made up by radical left-wing ideologues.”
Le ragioni del rifiuto sono queste:
1 – La legge attacca la libertà di parola, la quale è secondo Peterson la base fondante della civiltà occidentale. Il focus del problema sta nel fatto che il governo sta costringendo ad usare una specifica terminologia. Infatti, se proibire l’uso di determinate parole è una pratica diffusa per debellare il discorso di incitamento all’odio, costringere ad usarne altre è un tipo di intervento più invadente, che mina la libertà individuale. Peterson ha studiato a fondo i sistemi totalitari e individua nella manipolazione linguistica uno dei germi comuni alla loro nascita.
2 – Per Peterson la fluidità di genere non ha nessuna base scientifica. In natura esistono due sessi, maschile e femminile, ai quali corrispondono delle precise identità di genere e che differiscono enormemente nelle loro caratteristiche. Comportarsi come se così non fosse non porterà nessun progresso, getterà solo le basi per un’interpretazione sbagliata dei fatti che condurrà a problemi più gravi in futuro, perché invece di affidarsi a ciò che dice la scienza, si è deciso di optare per una arbitraria interpretazione della realtà.
3 – La legge sarebbe una delle tante espressioni di una cultura ormai dominata dal politicamente corretto, dal marxismo, dal postmodernismo e dall’ideologia di sinistra.
Per un approfondimento sulla prospettiva di Peterson, vi rimando qui. Noi per ora lasciamo da parte le prime due ragioni e concentriamoci sulla terza.
Tutto il dibattito, infatti, deve essere contestualizzato in un clima culturale – soprattutto nordamericano – imbevuto di politicamente corretto, dove questo “politicamente corretto” ha lo scopo di finalizzare le battaglie iniziate da post-colonialismo, femminismo e politiche di genere. La cultura del politicamente corretto legge la realtà come un intricato sistema di relazioni che si basano sulla contrapposizione oppressione/privilegio ed è erede degli insegnamenti della filosofia del linguaggio del 900, per cui il linguaggio non solo descrive il mondo, ma contribuisce a plasmarlo, e del movimento postmoderno, per cui – e qui semplifico fino a far piangere in massa tutti i miei docenti di filosofia – “tutto è cultura”. Il suo obiettivo sarebbe quello di eliminare sottili faziosità e pregiudizi profondamente radicati in una civiltà da sempre retta su un sistema patriarcale e figlia della presunta superiorità dell’uomo bianco. Il politicamente corretto è nato nelle università e si è poi diffuso nelle istituzioni politiche e nella cultura di massa raggiungendo presto vette di ridicolo imbarazzanti. Vi do un paio di esempi. L’Oxford University Press, una delle più grandi case editrici di testi scolastici in Inghilterra e nel mondo, ha chiesto ai propri autori di non nominare e raffigurare il maiale in tutte le sue forme, per non urtare i piccoli lettori di fede musulmana o ebrea. Il Tunbridge Wells Borough Council nel Kent ha bannato il termine “brainstorming” rimpiazzandolo con “thought showers” per non offendere gli epilettici. In un’università americana i docenti sono stati istruiti sul considerare i sentimenti degli studenti prima di dar loro una valutazione. Una scuola in Inghilterra ha vietato ad una ragazzina di portare il suo contenitore per il pranzo di Wonder Woman perché “raffigura immagine troppo violente che potrebbero essere imitate”.
Non tutti i tentativi effettuati in questo senso sono ridicoli, naturalmente. Inoltre, l’operazione chirurgica che si sta effettuando si muove in un territorio non chiaro, subdolo, che implica necessariamente un po’ di pedanteria ed eccesso di zelo. Il problema è che la pratica si è insinuata nella vita quotidiana fino a diventare un vero e proprio fenomeno di massa. Se l’obiettivo del politicamente corretto è quello di far emergere dei meccanismi nascosti per capirli ed estirparli, il risultato effettivo è che li sta nutrendo, rendendoli sempre più manifesti ed invadenti: vengono manipolati, sfruttati per fini politici, e diventano parte di un dibattito pubblico estenuante che entra nella testa di chi ascolta in modo distorto. Così non è più possibile fare una battuta, l’offesa è sempre dietro l’angolo e anche dove non c’è malizia, viene vista discriminazione. È come quando hai un brufolo e invece di schiacciarlo una volta e lasciarlo stare lo tormenti fino a formare un cratere di due centimetri quadrati in faccia. Con i problemi funziona allo stesso modo: a furia di portarli a galla e di spostarli di qua e di là, diventano più grandi di quello che sono.
Ecco, allora, il primo motivo per cui Peterson è così popolare: ha colto questo scontento e, in un clima dove ogni parola deve essere soppesata al milligrammo, si è ribellato pubblicamente. Torniamo al Bill C-16 e alle prime due ragioni che hanno spinto Peterson ad alzare la voce, inquadrandole in questo contesto. Il rifiuto ad usare i pronomi neutri può essere visto come un rifiuto di appoggiare l’ennesima insensata esagerazione del politicamente corretto, e sostenere che in natura ci sono due sessi a cui spesso si accompagna un’identità di genere e che hanno determinate caratteristiche è un’ipotesi sostenuta da vari studi che forse non dovrebbe essere ignorata solo per non ferire la sensibilità di qualcuno. Possiamo essere d’accordo o no, ma le argomentazioni hanno una certa legittimità e non dovrebbero essere attaccate senza se e senza ma o liquidate come mero bigottismo se l’obiettivo è quello di creare un dibattito razionale sull’argomento. Invece le reazioni esagerate di astio e polemica agli interventi di Peterson sono, credo, testimonianza della perdita di controllo e di senso della realtà che caratterizza la cultura del politicamente corretto oggi.
La voce perduta del maschio bianco
C’è un altro motivo per cui Peterson è diventato una star e forse lo avete già intuito. Si è fatto portavoce di una categoria che, negli ultimi anni, la voce se l’è vista parzialmente togliere piano piano: il maschio bianco eterosessuale.
Stiamo assistendo, infatti, ad una crisi della mascolinità, che ha varie e complesse cause impossibili da esaminare estensivamente adesso, ma fra le quali si annovera la nuova concorrenza di donne, gay e altri gruppi etnici, categorie che hanno acquisito maggiori diritti e ora hanno più potere. In Sexual Anarchy: Gender and Culture at the Fin de Siecle (1990), Elain Showalter descrive il grande terrore causato dalle modeste conquiste del femminismo già alla fine del Diciannovesimo secolo: “Fears of regression and degeneration, the longing for strict border controls around the definition of gender, as well as race, class and nationality”.
Uomini e donne gay sono più liberi di amare chi vogliono e anche di sposarlo, le donne rivendicano maggiore soddisfacimento sul posto di lavoro, a casa e a letto. Trump avrà il nucleare, ma la Cina è davanti all’America per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, e la tecnologia e l’automazione minacciano di rendere obsoleto l’uomo che sposta e solleva, specialmente in occidente.
Il fenomeno è aggravato dal fatto che l’uomo bianco eterosessuale viene colpevolizzato per il fatto di essere un uomo bianco eterosessuale. Senza andare ad esplorare i massimi sistemi, vi faccio degli esempi terra terra. Se anche voi, come me, siete single da quando andavano di moda le Buffalo, forse avrete acquisito una certa dimestichezza con le online dating app. Scorrendo fra i profili femminili, credo sia spaventosa l’incidenza di frasi del tipo “non contattarmi se sei un maschio bianco eterosessuale”, oppure “se non sei femminista non abbiamo niente da dirci”. Un po’ di tempo fa ero ad una festa con un amico, il quale ad un certo punto ha fatto una battuta che conteneva la parola “pompino”. Una ragazza si è avvicinata furiosa e gli ha intimato di lasciare la festa perché “quel termine è sessista e qui non c’è spazio per fascisti”.
Insomma, se sei un uomo bianco etero, sei dalla parte del torto, e noi minoranze siamo incazzate con te. Questo è quello che accade. Non sempre, non in tutti gli ambienti, ma è innegabile sia una tendenza. Aggiungiamo anche che l’uomo bianco etero colpevolizzato che sta perdendo il lavoro e che soleva rivolgersi alla sinistra per far valere i suoi diritti, ora non abbia più una sinistra a cui rivolgersi, perché occupata ad analizzare l’ultimo capolavoro post-coloniale invece di appoggiare gli operai, com’era da storia. Cosa rimane? Rimangono Trump, Kurz, Salvini. E Jordan Peterson. Uomini di destra che in qualche modo impersonano un modello di virilità attaccato ed indebolito, i cui discorsi fanno presa su un uomo (di qualsivoglia indirizzo politico) che sta perdendo i suoi punti fermi ed inizia ad essere nostalgico dei tempi in cui i ruoli erano chiari e i poteri ben distribuiti (a suo favore).
La crisi della mascolinità, infatti, ha radici che vanno rintracciate nell’avvento del capitalismo industriale, che si sviluppa attorno ad una rigida divisione sessuale e razziale del lavoro. La divisione di genere può essere addirittura considerata come “the social foundation of modern western nation-states”, come scrive Joan Wallach Scott nel suo recente libro Sex and Secularism. Scott sostiene che i modelli di differenza sessuale che sono stati creati hanno aiutato a stabilire “the racial superiority of western nations to their ‘others’ – in Africa, Asia, and Latin America”. “White skin was associated with ‘normal’ gender systems, dark skin with immaturity and perversity.” Uno dei tanti punti di vista da cui si può leggere la storia occidentale recente, è il continuo tentativo di mantenere salda questa divisione di ruoli fra uomo e donna. Ad esempio, Susan Falaudi in The Terror Dream: What 9/11 Revealed about America, descrive come gli attentati dell’11 settembre siano stati strumentalizzati per ristabilire l’immagine dell’eroe americano e rimettere la donna al suo posto passivo.
In questo contesto Peterson, forte di una capacità dialettica fuori dal comune (guardatevi le sue interviste) e di una teoria supportata da fatti scientifici (o presunti tali) che rinvigorisce il debilitato uomo bianco, diventa così un messia, un guru, il salvatore, come lo descrivono i suoi commentatori di Youtube.
12 Rules for Life è l’ultimo lavoro di Peterson, un testo di auto-aiuto con il quale si rivolge prevalentemente al giovane uomo bianco eterosessuale, al cosiddetto millennial, sottocategoria particolarmente sensibile alla voce tonante di una figura paterna che indirizza verso la retta via e legittima il ruolo del maschio alfa nella società. Il libro è costituito da 12 capitoli che sono, appunto, 12 regole per la vita. Contengono consigli su come comportarsi, come sort your shit out, come vivere responsabilmente e in modo significativo. Così come in Maps of Meaning, le teorie avanzate sono supportate da fatti estrapolati dalla neurobiologia evoluzionista.
Il capitolo che a noi interessa si intitola “Stai su con le spalle” ed ha a che fare con le aragoste. Esseri umani e aragoste, infatti, hanno un antenato comune ed entrambi possiedono un sistema nervoso che “funziona a serotonina”. L’organizzazione sociale delle aragoste è caratterizzata da territorialità e lotta per il dominio. Più in alto nella scala gerarchica le aragoste si collocano, più serotonina – associata con sensazioni positive di soddisfazione – rilascia il loro sistema nervoso. Se nelle lotte per la scalata sociale si viene spesso sconfitti, invece, la quantità di serotonina rilasciata diminuisce, causando stati d’animo negativi e una maggior difficoltà a risalire la scala gerarchica. Secondo Peterson la società umana funziona allo stesso modo. In uno dei passaggi più citati del libro scrive: “Look for your inspiration to the victorious lobster, with its 350 million years of practical wisdom. Stand up straight, with your shoulders back!”. L’intento di Peterson è quello di spronare il giovane uomo bianco in crisi a prendersi delle responsabilità, ad essere assertivo, a lottare per quello che vuole e, se preso isolatamente, il consiglio può avere senso e sembrare innocuo. Però, se si guarda alle conseguenze e alla teoria nel suo insieme, innocuo non lo è.
Il primo problema lo troviamo sintetizzato, ad esempio, in questo passaggio (ma ce ne sarebbero tantissimi altri dello stesso stampo da citare):
“The primary hierarchical structure of human society is masculine, as it is among most animals, including the chimpanzees who are our closest genetic and, arguably, behavioral match. It is because men are and throughout history have been the builders of towns and cities, the engineers, stonemasons, bricklayers, and lumberjacks, the operators of heavy machinery.”
Per Peterson, quindi, in cima alla gerarchia sociale si posiziona l’uomo. L’uomo, infatti, possiede le caratteristiche necessarie al dominio, essendo naturalmente not agreeable, dove agreeableness è un tratto della personalità che riassume caratteristiche come affidabilità, altruismo, onestà, modestia, empatia. La donna, invece, essendo più agreeable, oggi si trova in una posizione di inferiorità. Se vi ho insegnato bene, il problema lo vedete senza bisogno che ve lo indichi. Ancora la fallacia naturalistica: che in natura sia così (sempre che sia così), non significa che debba essere così.
Prendiamola ancora un po’più larga. Assumere che ciò che “deve essere” sia codificato nel processo di selezione evolutiva, ovviamente, protegge lo status quo, i migliori, ma mette in pericolo le minoranze, i freaks, perfino i geni, in generale tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, volontariamente o no, sono ai margini della struttura gerarchica.
Un altro grande problema è che quelli che Peterson presenta come fatti, spesso fatti non sono. Senza andare troppo per le lunghe, vi rimando a questo articolo dove la neuroscienziata Leonor Gonçalves smonta la teoria dell’aragosta.
Purtroppo, però, la sinistra che dovrebbe offrire alle sparate di Peterson una valida alternativa, o almeno un’intelligente risposta, continua a fallire. L’esempio più avvilente lo potete trovare in questa intervista di Channel 4 (quasi 10 milioni di visualizzazioni), dove la giornalista liberale Cathy Newmann offre una performance esemplare di cattivo giornalismo. Se vi interessano la teoria dell’argomentazione e la comunicazione pubblica dovete guardarlo, dà i brividi. Invece di ascoltare cosa Peterson dice, la Newmann si fa prendere dalla rabbia e gli mette in bocca versioni semplificate delle sue teorie, abusando di quello che in logica argomentativa viene chiamato strawman, l’argomento del fantoccio. Un errore davvero grossolano e fastidioso. Peterson, invece, mantenendo un aplomb da manuale e continuando a dare risposte pacate ed articolate, finisce per conquistare ancora maggiore credibilità.
Spero di essere riuscita a mostrare come le teorie di Peterson, benché interessanti, non siano credibili e, anzi, possano essere pericolose, instillando nella testa di chi le ascolta un sistema mentale reazionario che trae dalla paura il proprio potere. Di figure come Peterson ne è piena la storia. Si presentano in tempi incerti come il nostro, approfittano della categoria più suscettibile e fanno leva sul suo terrore e la sua instabilità. È per questo che dobbiamo capire che qui non è Peterson il vero protagonista, il protagonista è lo sfondo dove opera. I movimenti che hanno contribuito a cambiare così profondamente la nostra società negli ultimi decenni – post-colonialismo, femminismo, intersezionalismo, la stessa sinistra – sembrano avere sbagliato qualche manovra. Quale? Quando? Dove esattamente? Queste sono domande a cui io, onestamente, ora non mi sento di dare nessuna risposta precisa, ma andrebbero analizzate per decidere come modificare il nostro atteggiamento futuro.
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