Gennaio 2017: l’esercito tedesco entra in Lituania. Sono passati 76 anni dall’ultima volta. Allora, nel 1941, le armate del Terzo Reich avevano iniziato proprio dalla Repubblica baltica l’Operazione Barbarossa, l’invasione con cui Adolf Hitler voleva ridurre tutto l’est europeo a una landa di schiavi al servizio della svastica.
Oggi, però, il mondo è cambiato: i tedeschi in Lituania sono stati chiamati dallo stesso Governo di Vilnius. La missione della Germania è parte delle operazioni NATO denominate “Enhanced Forward Presence”, con cui l’alleanza atlantica si è posizionata per una strategia di “dissuasione” contro la Russia. Le repubbliche baltiche, così come la Polonia e altri stati dell’Europa centro-orientale, hanno fatto della richiesta di supporto militare anti-russo una delle principali narrazioni della loro politica estera e, anche, della loro politica interna.
La città base della missione NATO, Rukla, si trova a meno di 100 km dal confine con la Bielorussia, da considerare uno stato satellite russo, e a poche ore dal territorio di Kaliningrad, una porzione di Russia staccata dalla madrepatria e schiacciata tra la stessa Lituania e la Polonia.
A Rukla sono arrivati quasi 500 soldati della Bundeswehr, 20 mezzi da fanteria Marder e 6 panzer Leopard 2A6. L’esercito tedesco è capo di una missione in cui rientrano anche Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Repubblica Ceca, Croazia e Francia.
Come sempre più nervosamente avviene tra NATO e Russia, anche in questa occasione ci sono stati scambi di accuse su chi stia provocando chi. La verità, però, è che nella logica di guerra non esistono ragioni oggettive e giustizie condivise, ma interessi e inimicizie particolari dove le provocazioni reciproche sono una costante della “deterrenza” armata.
Da parte sua, la Bundeswehr sta utilizzando il palcoscenico lituano per dimostrarsi sempre più fiduciosa nei propri mezzi, come nel caso dell’auto-narrazione delle proprie esercitazioni con i partner della missione.
Nelle altre due repubbliche baltiche i battaglioni Nato sono coordinati rispettivamente dal Regno Unito in Estonia e dal Canada in Lettonia. L’esercito americano è invece a capo di un medesimo battaglione multinazionale in Polonia.
La presenza della Germania come forza coordinatrice assieme alle tre grandi potenze anglofone suggerisce che nell’alleanza atlantica ci sia al momento una certa concordia sui fatti geostrategici d’Europa. La realtà, però, è diversa. Nonostante Berlino sia un alleato, la preoccupazione dell’asse anglofono per una nuova dimensione militare tedesca è piuttosto palpabile.
Chi ha paura dei tedeschi?
Nel maggio di quest’anno, Foreign Policy, il più autorevole magazine americano di affari internazionali, ha pubblicato un articolo dal titolo “Germany is quietly building a european army under its command”. Nel pezzo, scritto da Elisabeth Braw – Senior Analyst presso l’Atlantic Council, si pone soprattutto l’accento sulle sempre più strette partnership tra la Bundeswehr e gli eserciti di alcuni paesi confinanti. L’81’ Brigata Meccanizzata dell’esercito rumeno, ad esempio, ha ufficializzato la propria integrazione nella Division Schnelle Kräfte tedesca, seguendo così i passi dell’11’ Brigata Aeromobile dell’esercito olandese, anch’essa entrata sotto il comando tedesco. La 4’ Brigata di Rapid Deployment dell’Esercito della Repubblica Ceca, invece, è entrata a far parte della 10’ Divisione Armata della Bundeswehr.
Questi passaggi di forte cooperazione bilaterale vengono interpretati da Braw come un preciso percorso di progressivo rafforzamento dell’esercito tedesco tramite l’assorbimento di eserciti minori, in uno schema portato avanti appositamente senza troppo clamore.
L’articolo di Foreign Policy ha fatto il giro del mondo ed è stato ripreso in numerose altre analisi. In alcuni giornali italiani la notizia è stata però velocemente banalizzata con scarsissima consapevolezza geopolitica e presentata come l’ennesima prova di una Germania in continua espansione e già pronta a conquistare l’Europa, anche sul piano militare, e senza alcun attrito con quelli che sono stati a lungo i tutori atlantisti della sua sovranità.
La realtà, come sempre, non è riducibile alla superficialità e, oggi più che mai, la banalizzazione non è solo inutile, ma profondamente deleteria. Cerchiamo quindi di approfondire lo scenario eterogeneo degli sviluppi militari tedeschi e di alcune dinamiche geopolitiche di causa-effetto che ne derivano.
Oltre a dirci qualcosa sui tentativi della Bundeswehr di diventare un esercito all’altezza del potere economico tedesco, ad esempio, l’analisi di Foreign Policy ci dice anche qualcosa sulla cultura politica e strategica anglofona che è strutturalmente ostile alla possibilità di una reale indipendenza militare tedesca. Questo vale sia per un’improbabile progressione autonoma della Bundeswehr in senso unilaterale, sia per una molto più probabile evoluzione militare tedesca all’interno di un sistema di difesa UE più o meno compatto.
Due eserciti a servizio
Lo scontro tra la Germania in espansione e l’asse anglofono è un elemento costante nella storia occidentale, un meccanismo che ha le proprie radici in uno dei capisaldi delle teorie geopolitiche, quello del naturale conflitto tra potenze di terra e potenze di mare.
Dopo la Seconda Guerra mondiale gli Alleati si chiesero come riuscire a tenere sotto controllo la Germania una volta per tutte. La soluzione più nota fu lo smembramento del paese in due. “Voi controllate i vostri tedeschi, che noi controlliamo i nostri”, diceva agli americani il navigato diplomatico russo Pëtr Abrasimov.
Nel 1945 nessuno voleva ripetere l’errore fatto a Versailles nel 1919: lasciare la Germania in umiliante miseria, ma capace di rinascere militarmente. Così, il Piano Marshall per la Germania del 1947 stimolò invece un paese incredibilmente florido, ma senza alcuna concreta indipendenza militare e strategica. Dal 1955 al 1989 l’esercito tedesco-occidentale si sviluppò con un arsenale imponente e moderno, ma restò sempre un’espressione senza alcuna autonomia dell’esercito americano. A Est valse la stessa logica: la Nationale Volksarmee era il secondo esercito più forte del Patto di Varsavia, ma era anche una succursale diretta dell’Armata Rossa di Mosca.
Non solo. Per comprendere quanto la Germania sia stata per decenni senza sovranità militare, bisogna ricordarsi che in caso di scontro militare tra le due potenze della Guerra Fredda le due Germanie non erano considerate soprattutto paesi da proteggere, ma il territorio in cui si sarebbe svolto quello stesso scontro. Negli anni ’80 l’esercito americano conservava in Germania Ovest 7300 testate nucleari, qualcosa di simile avveniva al di là della cortina di ferro. I due eserciti tedeschi si sarebbero potuti trovare a combattere in casa propria, diventando incapaci di rispettare la prima prerogativa di qualunque esercito nazionale: difendere la propria nazione dalla guerra.
Non è certo un caso che la classe politica tedesco-occidentale del secondo Novecento sia stata una delle più pacifiste al mondo. Per pochi altri paesi come la Germania una guerra USA-URSS avrebbe significato la distruzione totale. Il pacifismo, così, è stato a lungo la sola strategia di difesa degli interessi nazionali tedeschi. Questo vale ad esempio per la Ostpolitik di distensione Ovest-Est, che fu la sola possibilità che l’intellighenzia politica della RFT trovò per perseguire politiche di autodifesa del proprio territorio e di capacità di movimento interessato sullo scacchiere internazionale.
Dagli anni ‘60 in poi le élites politiche della Germania Ovest svilupparono un soft power di estrema intelligenza strategica, con cui, senza forza militare e con la sola potenza commerciale, giunsero addirittura a un’inaspettata riunificazione nazionale nel momento del crollo economico del socialismo reale. La riunificazione tedesca fu il primo vero atto di forza geostrategica dello Stato tedesco.
Finita la Guerra Fredda e riunificata la nazione tedesca, però, si pose fin da subito il problema di un nuovo inizio per la cultura di difesa della Bundesrepublik. Certo, erano gli anni in cui ci si illudeva dell’avvento della “fine della Storia”, ma una nuova strategia militare era pur sempre necessaria. La Nationale Volksarmee fu riassorbita solo parzialmente dalla Bundeswehr, mentre migliaia di uomini e quadri militari della defunta DDR vennero semplicemente disarmati e mandati negli uffici federali a chiedere un sussidio di disoccupazione.
L’attentatore contro Hitler per un nuovo inizio
Dopo il 1990, la nuova Germania ha lentamente avanzato verso un nuovo ruolo internazionale del proprio esercito. Nel 1993, il Ministero della Difesa apre una sede nello stesso cortile del Museo della Resistenza Tedesca, a 10 metri dalla statua dedicata a Claus von Stauffenberg, l’ufficiale della Wehrmacht che tentò di uccidere Adolf Hitler. Von Stauffenberg è uno dei pochi militari di cui la Germania abbia generalmente il diritto di andare fiera. La scelta della nuova sede del Ministero ha degli aspetti fortemente simbolici.
Nel 1994 la Corte Costituzionale Federale estende alla prevenzione dei conflitti in aree di crisi il concetto di “sola difesa” che determina le regole d’ingaggio della Bundeswehr. Progressivamente, poi, i rappresentanti dell’esercito tedesco compaiono per la prima volta in piccole missioni nel Golfo Persico, in Somalia o nei Balcani. Nel 1999 la Germania partecipa alla missione NATO in Kosovo (dove oggi si trovano ancora 640 soldati tedeschi).
Il vero anno della vera svolta, però, è il 2001, quando il Bundestag vota l’appoggio della Bundeswehr alla missione americana in Afghanistan (guerra in Afghanistan). Nel 2006 i tedeschi prendono il comando operativo della regione Nord del Paese. Per la prima volta la Bundeswehr è platealmente impegnata in un paese straniero, con tutto quello che ne consegue.
Un neutralismo anti-americano
Già nell’anno 2003, tuttavia, riemergono i problemi geopolitici tra la Germania e l’asse anglofono della NATO. Il Cancelliere Gerhard Schröder non appoggia l’invasione dell’Iraq decisa dal Presidente Bush Jr e la strategica disobbedienza pacifista torna a essere un elemento della politica estera tedesca. In Germania si ritorna a parlare di Friedensmacht, “potenza di pace”, e di “deutscher Weg” in opposizione alla risolutezza armata dell’”American Way”. Questo intreccio tra neutralismo e pacifismo d’indipendenza strategica-patriottica persiste ancora oggi, in maniera spesso assolutamente trasversale all’interno della politica tedesca.
Poco dopo il gran rifiuto tedesco di appoggiare la destituzione manu militari di Saddam Hussein, le richieste di un maggiore impegno tedesco nel sostenere maggiormente il budget NATO diventano sempre più insistenti: la Germania, dicono negli USA, non può beneficiare della sicurezza atlantica e poi perseguire una propria politica di interessato neutralismo (e, anche, di semi-collaborazione economica con il gigante russo).
Per anni la questione rimane sul tavolo della ridefinizione sempre rinviata dei rapporti transatlantici, per poi riemergere come recriminazione contrattuale all’interno di quel tragico disastro che diventa velocemente la guerra in Ucraina. In occasione del conflitto ucraino la Germania deve presto rinunciare al proprio sogno di “pax germanica” in Europa basata sul solo uso del potere commerciale e di un soft power fatto di valori tradizionalmente liberaldemocratici. Il veloce inasprirsi dell’escalation di deterrenze militari ricorda ai tedeschi che senza potere militare non c’è egemonia che regga.
Una semplice ricostruzione delle dinamiche interne al triangolo Berlino-Washington-Mosca nella crisi ucraina dimostra che gli attriti Germania-USA erano pronti da tempo e che non sono stati inventati da Donald Trump. Il nuovo presidente americano ha solo accelerato e inasprito i toni, prima a causa di una sostanziale ignoranza degli interessi strutturali della propria stessa nazione (nel momento in cui giunge a dire che la “NATO è obsoleta”), e poi tramite l’inutile rozzezza della sua indeterminata comunicazione politica.
Il grande paradosso
Identificato uno scenario intricato, stratificato ed eterogeneo come quello analizzato fin qui, diventa però necessario affrontare quella che sembra una paradossale contraddizione all’interno dei rapporti tra la leadership NATO e la Germania.
La domanda che sorge spontanea, infatti, è questa: non è un paradosso che gli Stati Uniti richiedano un maggiore impegno tedesco nella spesa militare e, al tempo stesso, ci sia paura che questo maggiore impegno dia il via a una nuova autonomia militare tedesca?
La risposta è sì, è un paradosso. Un paradosso che, però, è più vivo che mai. Un paradosso tipico dei momenti di cesura storica in cui il mondo vecchio segue la propria logica mentre emerge, ancora in nuce, un mondo nuovo.
La verità è che quando i governi USA chiedono alla Germania di investire di più nella difesa, in qualche modo si augurano ancora la Germania del secondo Novecento, quella dell’esercito a servizio, quella per cui ogni marco o dollaro investiti nel militare andava direttamente in una NATO al 100% americana, ad esempio a rafforzare la struttura USA all’interno della stessa Germania. Oggi, però, si chiede a Berlino di occuparsi da sola di se stessa, ma le si chiede anche di occuparsi di se stessa restando subordinata sul piano strategico. Il paradosso nasce da questa contraddizione.
La Germania, da parte sua, è ancora troppo debole militarmente per staccarsi dalla protezione NATO, ma l’istinto geostrategico delle sue élites politiche ed economiche è per certi versi già post-atlantico. Gli ambienti militari degli Stati Uniti, quindi, sanno che chiedere alla Germania di investire di più nel proprio esercito, passando dall’attuale budget del 1,3% del PIL a un 2% del PIL, è una richiesta con conseguenze ambigue.
Per comprendere fino in fondo questo paradosso è sufficiente ritornare in Lituania. Un mese dopo l’arrivo della Bundeswehr a Rukla, il Washington Post ha scritto un lungo articolo sulla presenza tedesca nella Repubblica baltica. In quell’occasione il Tenente Colonnello Torsten Stephan, portavoce della missione tedesca, ha risposto alle bordate di Trump con una replica a dir poco emblematica:
“Forse, con tutto il rispetto per gli Stati Uniti, bisognerebbe stare attenti a quello che si desidera. Mr. Trump dice che la NATO è obsoleta e che dobbiamo diventare più indipendenti. Beh, magari lo faremo”.
Cosa può fare la Germania da sola?
A fine maggio, Angela Merkel ha ribadito lo stesso concetto del Tenente Colonnello Stephan. Dopo il ben poco conciliante G7 di Taormina, in cui le è stato difficile mascherare la crescente inimicizia con la nuova amministrazione USA, Merkel ha dichiarato:
“I tempi in cui potevamo contare pienamente su altri sono in una certa misura finiti, come ho sperimentato nei giorni scorsi… Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani… Naturalmente dobbiamo avere relazioni amichevoli con gli Stati Uniti e il Regno Unito e con altri vicini, inclusa la Russia… ma dobbiamo essere noi stessi a combattere per il nostro futuro”.
“Noi europei” significa anche, e in questo caso soprattutto, “noi tedeschi”.
Non solo, è altrettanto importante notare come la Cancelliera abbia citato direttamente il Regno Unito, che è forse il vero avversario strategico di una maggiore indipendenza militare europea e/o tedesca.
Se gli Stati Uniti si stanno in verità disinteressando sempre di più dell’Europa per concentrarsi sul Sud Est Asiatico, chi non può disinteressarsi del continente europeo è il Regno Unito. Questo vale a maggior ragione ora che l’UK sta ufficialmente diventando un corpo esterno all’Unione Europea.
Storicamente, da un punto di vista prettamente geostrategico, l’interesse inglese per l’Europa è sempre stato uno: evitare l’emergere di una potenza egemone (in passato la Spagna e la Francia, oggi di nuovo la Germania o, anche, la potenza semi-esterna della Russia). In Europa si ricorda raramente come l’avallo inglese alla creazione e alla persistenza dell’UE sia sempre stato dato in nome di un’assicurazione di interesse nazionale. Non a caso, quando questo interesse nazionale è sembrato compromesso, il Regno Unito si è agitato per staccarsi dai vincoli col continente. Se la causa occasionale della Brexit è stata la propaganda xenofoba, per l’intellighenzia sovranista inglese la Brexit è stata soprattutto la necessità di staccarsi da un’Europa che fu creata per sedare e contenere la Germania e che viene ora vista come un’area a completa egemonia tedesca.
A chi appartiene militarmente l’Europa?
Per chiarire alcuni aspetti dell’attuale posizione di una certa Inghilterra di fronte a una possibile egemonia tedesca, è utile volgere lo sguardo verso una recente analisi di Brendan Simms, professore di Relazioni Internazionali e direttore del Forum Geopolitico dell’Università di Cambridge. Lo scorso marzo Simms ha pubblicato un articolo sul New Statesman, dal titolo “The world after Brexit”. Simms contraddice molto del pessimismo diffuso tra i progressisti inglesi che considerano la Brexit la finale estromissione dell’UK dal mondo che conta. Per sostenere la propria tesi l’accademico sottolinea la fondamentale e irrinunciabile importanza del Regno Unito all’interno della NATO, di cui è il paese “europeo” militarmente più potente (soprattutto se si considera la Francia più debole di quanto pretenda la sua naturale grandeur autorappresentativa). Finché il resto d’Europa dipenderà dalla NATO, quindi, sarebbe sbagliato pensare che la Brexit possa porre l’UK fuori dai giochi strategici europei.
Ma c’è di più, molto di più. Quello che sottolinea Simms è che quasi 70 anni di egemonia anglo-americana sull’Europa occidentale sono qualcosa di molto radicato, che non può essere eroso semplicemente sulla base di burocratici trattati internazionali. Scrive Simms:
“L’UE può essere un club che fa tutte le regole che preferisce, ma non dovrebbe mai dimenticare che gli Anglo-Americani sono i proprietari del terreno sui cui questo club sorge. Bruxelles e le altre capitali sono al massimo affittuarie e in molti casi soltanto inquiline. In altre parole: il Regno unito non è un qualsiasi altro “spazio” europeo da ordinare, ma una delle principali forze ordinanti del continente”.
Per chi non ha confidenza con la materialità degli equilibri geopolitici le parole di Simms possono sembrare feroci, ma sono in realtà la scontata espressione oggettiva dell’essenza culturale di una delle élite politiche occidentali.
Qua, del resto, non si tratta di dire se Simms abbia o meno ragione, si tratta unicamente di prendere atto del fatto che le rivendicazioni di cui parla la sua analisi sono oggettivamente presenti e oggettivamente in contrasto con qualsiasi visione di una semplicistica egemonia tedesca.
Un’ostinata cautela strategica
Delle dinamiche strutturali riprese da Bernand Simms è consapevole, più di chiunque altro, la stessa intellighenzia strategica tedesca. Per intenderci: quella certa ritrosia di Berlino a ufficializzare un proprio ruolo di guida nell’UE non è solo data dalla consapevolezza del persistente peso del proprio passato, ma anche dalla certezza che esporsi eccessivamente sullo scacchiere geopolitico potrebbe rivelarsi una mossa troppo precoce per non avere conseguenze.
A metà 2016, il Ministro della Difesa tedesco, attualmente guidato dalla cristiano-democratica Ursula von der Leyen, ha pubblicato un white paper sui futuri piani di difesa. Quello che trapela dal documento è l’attenzione nel cercare di portare avanti un passaggio istituzionale indolore tra la vecchia Germania senza potere militare e la Bundeswehr del futuro, ad esempio vincolando continuamente le missioni dell’esercito ai principi etici della democrazia e dei valori fondanti dell’attuale Costituzione tedesca. Al tempo stesso, l’obiettivo è quello di liberare i movimenti militari da alcune gabbie burocratiche previste dalla stessa Costituzione. Ma, soprattutto, quello che emerge dai piani del Verteidigungsministerium è una visione di lungo respiro che vuole procedere con calma, senza strappi pericolosi e accelerazioni avventuriste.
Al momento la Bundeswehr conta 178 mila soldati attivi, l’obiettivo è portarli intorno ai 200 mila entro il 2024. Per quanto riguarda l’arsenale, è stato annunciata una spesa relativa di 130 miliardi di € entro il 2030, da usare per l’acquisto di nuovi panzer da combattimento, oltre che per un sensibile sviluppo della flotta sottomarina e di quella degli aerei da combattimento. Ovviamente, un tale investimento militare significherebbe ridurre il budget per altri provvedimenti, un dettaglio decisamente non trascurabile in un paese in cui la pacificazione sociale è attivamente perseguita con l’immissione di denaro in un capillare sistema di welfare.
Un altro aspetto cruciale della strategia tedesca è quello dell’integrazione della difesa europea. Com’è intuibile, uno dei più grandi ostacoli alla costruzione di un sistema di difesa europeo è sempre stato il Regno Unito; la Brexit cambia gli equilibri in questo senso. Progredire militarmente all’interno di un progetto condiviso UE sarebbe la soluzione più indicata per la Germania, soprattutto per stemperare il valore ancora fortemente simbolico di una Bundeswehr troppo protagonista. A ben guardare, però, al momento è difficile immaginare che la già sfibrata integrazione europea possa realmente rafforzarsi nel campo della difesa (una delle aree di cui qualunque stato nazionale è tradizionalmente molto geloso). Per ora la Germania cerca di rafforzarsi militarmente su scala bilaterale all’interno di quella Kerneuropa centrale che le sembra sempre più congeniale. Per approfondire un discorso di difesa europea, invece, sarebbe cruciale il ruolo della Francia, ma la prevedibile spregiudicatezza della politica estera d’interesse nazionale del nuovo Presidente Macron non dà molte garanzie in questo senso.
Il progetto di rafforzamento militare tedesco esiste, ma è quindi molto cauto e dilatato nel tempo e sarebbe un errore imperdonabile credere che la Germania possa esprimersi sul piano militare con la stessa sicurezza con cui, ad esempio, contratta le dinamiche della moneta unica europea. Per la questione militare la Germania deve ancora confrontarsi con problematiche materiali, economiche, culturali e strategiche che possono avere conseguenze molto evidenti sugli stessi equilibri istituzionali interni alla Bundesrepublik.
Quello che è certo è che l’irrompere della Storia ha drammaticamente accelerato specifiche dinamiche. Un’Europa circondata da conflitti, la cosiddetta crisi dell’immigrazione, la Brexit e il precipitare delle relazioni transatlantiche stanno ora costringendo la Germania a prendere atto del fatto che la deterrenza militare è di nuovo un elemento cruciale, pressante, decisivo. Il che è certamente molto sbagliato. Ma il fatto che sia sbagliato non significa che non sia vero.
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