Se vi aspettate che vi racconti una storia sul rap della serie, “C’era una volta la me bambina che ascoltava Lauryn Hill a colazione, Queen Latifah a pranzo e Roxanne Shante a cena”, mi dispiace deludervi: a me fino a qualche anno fa il rap faceva schifo. E so anche il perché. Quando ero piccola avevo un fidanzato. Lui ascoltava “musica rap” che poi tentava in ogni modo di propinarmi. I suoi artisti preferiti erano gli Articolo 31. Non è per giustificarmi – e con tutto il rispetto per gli Articolo 31 – però immagino possiate capire perché il mio entusiasmo non fosse proprio alle stelle.
Fortunatamente però, camminando un pomeriggio per le strade della mia città – Torino, a quei tempi – un cartellone pubblicitario in Corso Regina Margherita attrasse la mia attenzione. Era giallo, rosso e bianco, e al centro era raffigurata una bellissima calaca messicana con in testa una mitra papale rossa. Il cartellone diceva: Colle der Fomento + Gente de Borgata + Brokenspeakers live @ C.S.O.A. Askatasuna.
Era il 2011, ed è precisamente da quel giorno che nella mia cameretta di Corso San Martino ho iniziato ad ascoltare il rap. Quello vero. Mi è bastato un beat, pochi versi: Provaci, toccami le ali e bruciati/ Sei niente, solo un’altra vittima, abituati/ Una fenice risorge dalla cenere/ Torna al fuoco per quanto tu la possa uccidere. Non ho più potuto farne a meno.
Non sono mai riuscita a vedere i miei miti live fino al 2016. Vivevo a Berlino già da qualche anno e al Bi Nuu di Schlesisches Tor i ragazzi dell’associazione Mongolfiere Libere Project avevano organizzato un evento chiamato Rap’n Stadt. Ospiti della serata erano diversi rapper niente male, francesi, italiani e tedeschi, con i Colle Der Fomento come artisti di punta. Quella sera ero in prima fila, con il locale stipato di gente, soprattutto italiani. Quando, dopo la performance, la crew romana si è ritirata nel backstage, la sala ha iniziato a svuotarsi, nonostante l’evento non fosse ancora concluso. Sul palco sono salite allora due ragazze, che si sono trovate di fronte un pubblico a dir poco decimato. Erano la rapper tedesca Alice Dee accompagnata dalla producer e cantante MXIML. Credo che non andarmene sia stata la scelta migliore che potessi fare. Quella notte, infatti, sono tornata a casa con la testa piena di domande e rivelazioni. Quindi le MC donna esistono? E sono brave, anche. Perché io non le ho mai ascoltate? Dove si nascondono?
Devo dire che le mie idee erano ancora abbastanza confuse. Ricordo di averne parlato con un amico, che mi suggerì i nomi di gente come Marti Stone e Drowning Dog e mi diede una secca strigliata per non aver mai ascoltato seriamente La Pina. Col senno di poi mi rendo conto di essere stata per troppo tempo all’oscuro di una questione che in realtà esiste da sempre, ovvero quella delle female MCs. Si sente dire di continuo che l’hip hop è una subcultura dominata dagli uomini. Eppure io Missy Elliot non me la sono sognata.
Come mai, allora, le donne nel rap sembrano avere meno successo? Sono forse meno brave? O meno presenti? La questione mi interessa.
In cerca di risposte, un pomeriggio vado all’Archiv der Jugendkulturen, situato tra le strade in salita del meraviglioso Bergmannkiez berlinese. All’entrata vengo accolta gentilmente da una ragazza che mi mostra la biblioteca e mi indirizza verso ciò che sto cercando. Credo fermamente che per capire un fenomeno di qualsiasi tipo occorra informarsi, leggere, analizzarlo a partire dalle sue origini. Per questo, più tardi quel pomeriggio, esco dall’archivio con una pila di fotocopie sotto il braccio e la faccia speranzosa. La ragazza al desk mi saluta con un cenno, anche lei sembra alquanto soddisfatta.
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Come è nato, quindi, l’hip hop?
Siamo a New York, anni Settanta. Le comunità afroamericana e latinoamericana di Bronx, Harlem e Brooklyn, in questi anni, si ritrovano spesso a cantare e suonare insieme durante i Block Party, le feste di strada durante le quali i dj fanno scatenare la gente a ritmo di reggae, funk e rock, introducendo lentamente innovazioni tecniche come lo scratching o il sampling. È l’inizio di una nuova era.
A poco a poco anche gli MC, i Masters of Ceremony, che di solito improvvisano con una sorta di canto parlato sulla musica dei dj, diventano parte integrante di questo nuovo genere musicale nascente. Il loro stile particolare attinge al toasting jamaicano, al griot dei cantautori africani, ma soprattutto al blues e alla dub, un sottogenere della musica reggae. Ben presto gli MC iniziano a includere nei propri testi elementi più sostanziosi, sia sociali che politici, facendosi portavoce delle proprie comunità di riferimento e descrivendo le difficili condizioni di vita in cui queste si trovano.
Perché, diciamolo, se negli anni Settanta eri nero e vivevi ghettizzato in un quartiere come il Bronx probabilmente la tua vita non era proprio tutta rose e fiori e di certo avevi qualcosa da recriminare. In un certo senso l’hip hop contribuì a salvare molte vite, ai tempi. Era un modo in cui una grossa fetta di gioventù teoricamente a rischio riusciva a incanalare le proprie energie e a trasformarle in creatività. A volte addirittura in successo.
A partire dagli anni Ottanta infatti questo movimento underground inizia ad essere assorbito dalla cultura mainstream, fino a diventare nel corso del tempo un fenomeno mondiale senza pari.
E qui torniamo dove ci eravamo lasciati poco fa, al punto problematico. Perché, inevitabilmente, quando un movimento di una tale fascinazione diventa così famoso, incappa in dinamiche contraddittorie. L’hip hop mainstream sembra essersi allontanato parecchio dalla sua forma originaria, con la quale stride per la deriva che hanno preso alcune questioni fondamentali, come appunto quella del ruolo della figura femminile, soprattutto nell’MCing ‒ o rap, che dir si voglia. Le donne hanno quasi sempre svolto, infatti, una funzione marginale, di contorno. Se è indubbiamente vero che l’hip hop degli esordi ha contribuito a dare visibilità alle problematiche delle comunità afroamericane e latine, è altrettanto vero che proprio le donne di queste comunità sono sempre rimaste in secondo piano. Le primissime rapper nere americane, come MC Lyte o le Salt-N-Pepa, si sono quindi trovate a fronteggiare una doppia discriminazione perpetrata nei loro confronti: per il fatto di essere nere, ma anche ‒ e soprattutto ‒ a causa del proprio genere. Per emergere hanno quindi provato a far sentire la propria voce affrontando tematiche politiche e sessuali. Then the little one said, “Yeah me, bitch”, and laughed/ Since he was with his boys, he tried to break fly/ Huh, I punched him dead in his eye/ And said, “Who you calling a bitch??”, cantava Queen Latifah nel 1993, in piena ondata post-femminista. Sono gli anni della critica, della messa in dubbio di tutte le conquiste della generazione sessantottina, comprese quelle di un femminismo considerato ora come la ribellione di una parte ristretta di popolazione, ovvero delle donne borghesi bianche. Il movimento delle donne di colore, dal canto suo, preferisce darsi una definizione differente: si fa chiamare Womanism e imposta i propri parametri di lotta su un livello più generale, senza differenze di etnia, classe o genere. Alla ricerca di un’uguaglianza totale.
Il successo di artiste come Lauryn Hill, Missy Elliot o Queen Latifah è la dimostrazione del fatto che il rap non lo fanno soltanto gli uomini e che l’hip hop rimane una cultura aperta a tutti i generi. Anche in Italia non si scherza su questo punto. Negli ultimi anni le MC nostrane ci hanno regalato una perla dopo l’altra.
È il caso di Mc Nill, per citarne una. Ventisette anni e una vita difficile alle spalle: rapper, freestyler, omosessuale in una “terra di santi”, come la definisce lei stessa. Nel 2013 partecipa a Mtv Spit, famoso show televisivo di battle freestyle, e da allora la sua musica è sulla bocca di tutti: Io ogni volta che salgo, no non è un traguardo/ Voglio andare sempre più su! Sono parole sue d’altronde.
Vivendo a Berlino ormai da un po’ sono curiosa di immergermi nella scena rap cittadina e provare a scovare qualche rapper non-uomo che mi piaccia tanto quanto l’italiana Mc Nill. Così compro un biglietto per lo storico Rap am Mittwoch, al quale finora non ho mai partecipato. È un evento di battle freestyle che si tiene una volta al mese al Bi Nuu di Kreuzberg e rappresenta una vera e propria pietra miliare nella scena rap tedesca, trampolino di lancio di alcuni tra i rapper oggi più famosi in Germania come Sido o King Orgasmus One.
Quella sera la coda per entrare al locale è a dir poco infinita. Ho il tempo di bere due birre e di conoscere una ragazzina canadese approdata da poco a Berlino che non fa altro che parlare di Berghain e di quanto le manchi il suo cane. Quando finalmente riesco a metter piede all’interno del Bi Nuu ‒ e a seminare la canadese logorroica ‒ la folla è talmente tanta e il calore talmente elevato che mi sento male. Decido di fare una capatina al bagno, prima di buttarmi nella mischia pregando di riuscire a vedere il palco. Mentre sono intenta a sciacquarmi le tempie di fronte al lavello nella toilette delle donne, entra un ragazzo. È alto, muscoloso, sprizza testosterone da ogni suo poro ubriaco, e decide di voler fare la mia conoscenza esordendo con un amichevole: “Ehi, ma tu sei gnocca!”. Cominciamo bene, penso. Lo ignoro e me ne vado, con suo grande disappunto. Nella mia testa gli ingranaggi iniziano a emanare fumo nero e scintille, e a questo punto capisco che non è solamente a causa del calore. Mi guardo intorno e quello che vedo è tutto uguale: ragazze e soprattutto ragazzi giovanissimi, col cappellino da baseball in testa girato al contrario e le canottiere, sudati ed eccitati, alcuni ancora con lo zaino di scuola sulle spalle. Quando lo show inizia, io non ci capisco più niente. Sono schiacciata lungo la parete in fondo al locale, tra un ragazzino di diciannove anni al massimo e una tizia annoiata che continua a succhiare il suo cocktail da una cannuccia troppo corta, versandomene immancabilmente un po’ sulle scarpe ad ogni spintone che riceve.
Il palco è nascosto da una folla di teste e braccia che si muovono coordinate a ritmo di slogan e jingle rodati. Mi sento del tutto fuori contesto. Mi giro verso il diciannovenne e gli chiedo di spiegarmi cosa sta succedendo. Lui mi guarda seccato e prova a liquidarmi con una spiegazione poco esauriente: “Niente, adesso salgono sul palco gli MC che vogliono sfidarsi e poi si sfidano!”. Gli chiedo se tra questi MC ci saranno anche delle donne e lui fa spallucce. Insisto: “Ne hai mai viste tu di donne su quel palco?”. “Quasi mai”, risponde senza guardarmi. La sua indifferenza fa scatenare la Sailor Moon che è in me, paladina della giustizia. Alzo un sopracciglio e ribatto: “E credi sia un bene?”. Sailor Moon uno, Regno delle Tenebre zero. Il ragazzo ora concentra tutta la sua precaria attenzione sulla mia persona. È più alto di me e sento che vorrebbe schiacciarmi con la sua mole. Dice: “Sì, credo vada bene così”. Tutto quello che riesco a pensare è che il Regno delle Tenebre sia un luogo orribile.
Naturalmente non aspetto la fine della serata. Accaldata e delusa recupero le mie quattro cose dal guardaroba e me ne torno a casa. Non prima di farmi intercettare per l’ultima volta dalla petulante ragazzina canadese. “Ma dov’eri finita?”, mi domanda con lo sguardo più ubriaco delle ultime due decadi. Le dico: “Vado. La serata non mi piace, e in più sto morendo di caldo”. Lei mi fissa per un attimo con i suoi enormi occhi acquosi, si avvicina e, dal nulla, mi sussurra: “E comunque, per me il rapper più femminista di tutti rimane Kanye West. Lui sì che non ha paura di parlare di sentimenti nei suoi testi!”. Tralasciando i possibili commenti sull’accostamento femminismo/sentimenti, sarebbe bello poterle citare quella canzone, in cui il buon Kanye parla di Taylor Swift in questi termini: I feel like me and Taylor might still have sex/ Why? I made that bitch famous!
Sarebbe bello, ma ci rinuncio. La pianto in asso ed esco nell’aria immobile e gialla di Berlino.
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Un amico mi chiama inaspettatamente alle nove di un venerdì sera.
“Stasera c’è un party al Bei Ruth, secondo me potrebbe piacerti.”
“Ah sì? Di cosa si tratta?”
“Si chiama ‘Feminist Hip Hop Soli Party’, ti ho mandato anche l’invito su Facebook. Ti aspetto tra venti minuti sotto casa mia.”
Riattacco il telefono e mi collego sul social network. Che razza di nome è “Feminist Hip Hop Soli Party”? Scorro velocemente la line-up delle artiste che si esibiranno e leggo il nome di Alice Dee: sono una sua fan da quando l’ho sentita live un anno fa a Rap’n Stadt. Saperla al party mi convince ad uscire di casa.
Il Bei Ruth stasera è estremamente affollato e l’atmosfera non ha niente a che vedere con l’esperienza di Rap am Mittwoch: qui ci sono solo persone che hanno voglia di ubriacarsi e fare festa lontane dagli stereotipi di genere e ascoltando ottima musica dal vivo. Le performance delle rapper e cantanti Schleim & Schlau, YANSN, Alice Dee e Fleur Earth mi lasciano piacevolmente sorpresa. A evento concluso posso dire di avere una risposta alla mia annosa domanda sull’esistenza di rapper donna in questa città.
Assolutamente sì: le rapper ci sono, sono attive, e ‒ cosa ancora più importante ‒ sono brave. Purtroppo, però, sono meno conosciute, anche a causa di una serie di stereotipi sessisti. A tal proposito leggo un intervento di Sookee, la rapper Quing of Berlin, da sempre impegnata nella scena queer e attiva musicalmente contro razzismo, fascismo e omofobia. “La questione del ‘come appari’ è una faccenda seria nel rap”, scrive. Secondo Sookee, le donne in questo ambiente sono sempre state incasellate in un qualche tipo di definizione: quella della sister, della bitch, della gangster. Ma si tratta di categorizzazioni alla lunga limitanti, che funzionano solo in relazione al sistema sessista che le ha generate. “Forse è proprio questo il motivo per il quale finora ancora nessuna donna è riuscita a entrare nella Top 5 dei migliori MC in Germania”, conclude l’artista.
“Sì, ma Sookee è Sookee. Voglio dire, è un bene che faccia ciò che fa, ma questo non significa che ci si debba aspettare che ogni rapper donna scriva testi come i suoi, così esplicitamente impegnati”. Siamo al tavolino di un bar e Alice Dee ‒ sì, proprio lei ‒ mi sta raccontando il suo punto di vista su tutta questa faccenda. L’ho contattata perché ero curiosa di sapere l’opinione di un insider, di qualcuno, cioè, che mastica pane e rap quotidianamente. E che si dà il caso sia anche una donna. “Beh, aspetta però. ‘Donna’ è una definizione che mi stai dando tu in questo momento. Non è detto che io abbia voglia di descrivermi così”. Ok, Alice, ricominciamo da capo.
Lei ride e mi racconta dei suoi esordi. È ancora una ragazzina quando inizia a scrivere testi rap, “che prima però erano semplici pagine di diario”, ci tiene a precisare. Ad accorgersi del suo talento è il suo coinquilino di Norimberga, un breaker che la sprona a buttarsi nel mondo dell’hip hop. “È per questo motivo che sono venuta a Berlino, nel 2012. Per il rap. Mi sono trasferita in un Hausprojekt e da lì creare le connections è stato semplice: tra una festa solidale e l’altra ho iniziato ad ottenere sempre più ingaggi e nel giro di un anno è uscito il mio primo album”. Wunderland ‒ al quale poi nel 2014 seguirà Sichten der Dinge ‒ va ufficialmente online il 6 marzo 2013 e contiene tracce significative, che toccano tematiche anche molto personali. Kaputt, ad esempio, è un pezzo che racconta senza peli sulla lingua l’esperienza dell’autolesionismo. Alice mi spiega: “Ho ricevuto molte critiche a causa di questa canzone. Sono stata accusata di voler indurre la gente a ferirsi o a farsi del male. Ma ovviamente la mia intenzione era un’altra: io volevo soltanto descrivere una cosa che capita a molti”, dice stringendo le braccia contro il petto. Alice è un’operatrice sociale e tiene diversi workshop sull’hip hop, come Diversity Box, un progetto dell’Archiv der Jugendkulturen che si pone come obiettivo la sensibilizzazione dei giovani su temi come l’omofobia e gli stereotipi di genere. Quando le chiedo se il suo rap possa essere definito in qualche modo ‒ politico? conscious? femminista? ‒ la sua risposta è molto seria e determinata: “Non mi va di rientrare in nessuna categoria. Io scrivo e parlo di ciò che mi va, e basta”.
Alice emana un’energia difficile da spiegare a parole. “Cos’è per te il femminismo?”, mi chiede inaspettatamente. Non ci devo riflettere molto, in realtà. Per me femminismo è autodeterminazione. “Sono d’accordo”, continua. “Prendi le SXTN, ad esempio, questo duo di rapper berlinesi che ora colleziona un sold-out dopo l’altro. Molte persone mi salteranno al collo per quello che sto per dire, ma per me le SXTN sono femministe”. Ci penso un attimo. Juju e Nura sono due donne e rappano testi che ci si aspetterebbero cantati da degli uomini: sesso, scopate, droga e quant’altro. “È proprio questo che intendo: sono due donne, sono bellissime, sono controverse e, soprattutto, non gliene frega niente di piacere alla gente. Della serie: ‘Noi rappiamo questa roba. Se non vi piace non sono affari nostri’. Adesso dimmi se questa non è autodeterminazione!”.
Non posso darle torto. Nella società di oggi le donne ricevono una pressione incredibile per apparire in un certo modo, per rispettare ruoli predeterminati e imposti da un patriarcato infiltrato in qualsiasi ambito. Le SXTN invece cantano: Du willst mich ficken/ Aber du darfst es nicht, weil ich’s verbiete/ Ich bin zu für dich!, (Mi vuoi scopare/ Ma non puoi, perché non ti do il permesso/ Io sono troppo per te!). Quando fai musica il tuo obiettivo è quello di raggiungere più persone possibili. Di farle riflettere, nel bene o nel male. Alice è indubbiamente femminista, indubbiamente queer, ma le piace pensare che quello che comunica nei suoi testi possa arrivare al pubblico al di là di queste categorie. Il fatto che le donne emergano meno nel mondo dell’MCing, secondo lei è dovuto prima di tutto ad una questione di sicurezza di sé: “I ragazzi non si fanno molti problemi a mettersi in gioco, evidentemente perché subiscono meno pressioni in generale. Le donne invece ci riflettono sempre non una, ma mille volte prima di salire su un palco. Vogliono avere la certezza di essere davvero brave. Ma le MC dovrebbero capire una volta per tutte che hanno le stesse identiche possibilità degli uomini in questo campo”. Lei stessa mi racconta che, nonostante frequenti numerosi eventi di freestyle in città, spesso si sente troppo poco sicura di sé. Le piacerebbe partecipare a Rap am Mittwoch, ad esempio, ma crede di dover ancora migliorare molto per tener testa a tutto quel testosterone incazzato.
“Conosci il Little Stage?”, mi chiede poi. Sì, ne ho già sentito parlare. So che in questa Kneipe berlinese di Neukölln ogni lunedì sera si svolge una serata di freestyle open mic, che significa che chiunque voglia può salire sul palco e mostrare al pubblico ciò che sa fare. “Al Little Stage una volta al mese da qualche tempo c’è un evento di open mic freestyle per sole donne e trans che si chiama Women’s World. Ad organizzarlo è Leila, una rapper incredibile. Dovremmo andarci insieme, così te la faccio conoscere!”.
Il giovedì sera successivo Alice mi aspetta davanti al Little Stage di Jonasstraße. È tardi e il locale da fuori sembra vuoto. C’è un tizio seduto all’ingresso: è grande, grosso, pelato e indossa una camicia hawaiana aperta sul petto, che lascia intravedere una mappatura di tatuaggi che sembra coprirgli interamente il busto e le braccia. È Bernd, il proprietario del locale. Ci saluta con un cenno del capo mentre gli passiamo accanto per entrare. Alice sorpassa a grandi falcate la prima sala, con il bancone e le luci fluo, dirigendosi verso una ragazza che sta facendo il sound-check sul palco, illuminata da una serie di faretti rossi che pendono dal soffitto e puntano nella sua direzione. “Alice Dee, finalmente sei arrivata!”, la apostrofa questa prendendola immediatamente tra le braccia, da brava padrona di casa. Poi aggiunge, rivolgendosi a me: “Ciao, io sono Leila”, e mi schiaffa una poderosa manata sulla spalla. Finalmente la conosco, è lei l’organizzatrice della serata. Non vedo l’ora di sentirla rappare. Nel frattempo mi guardo intorno.
Il Little Stage è sostanzialmente una Kneipe, ovvero un tipico bar berlinese, di quelli con la birra alla spina che costa poco. L’arredamento è composto da una serie di divani in similpelle ‒ che mi fanno sempre pensare al set di un film porno ‒ e luci soffuse. La conformazione del posto fa sì che tutta l’attenzione si concentri sulla sala in fondo al locale, quella con il palco e la consolle, presso la quale un ragazzo sta smanettando con la testa immersa in una di cinque casse stracolme di vinili. Lentamente il locale inizia ad animarsi. La gente che arriva si sistema sui divani più vicini al palco, e così faccio anche io. Poi Leila afferra un microfono e urla: “Benvenuti a Women’s World, signori e signore! Qui si fa freestyle, stasera solo per donne, scusate maschietti! Ragazze, fatevi avanti!”. È un’immediata esplosione di energia.
Per le due o tre ore successive sul palco si alterneranno diverse ragazze, dapprima per presentare alcuni dei loro pezzi, come la rapper Sisa Sandra, e poi per improvvisare sui beat di un dj davvero in gamba, che sfoggia un ricco repertorio di basi old school. Sarà l’ubriachezza, sarà che amo il freestyle, ma essere qui stasera mi fa riacquistare un briciolo di fiducia nel genere umano. Queste ragazze sono bravissime e sputano una rima dopo l’altra senza farsi intimorire, spronandosi a vicenda, sostenendosi, incoraggiandosi.
Mi colpisce soprattutto un pezzo di Leila, dedicato ai diritti delle donne: Steh auf, steh auf, beweg dich/ Schöne Frau, befrei dich aus dem Käfig/ Nicht nur in Deutschland, auch in anderen Ländern/ Frauenrechte müssen sich ändern, (Alzati, alzati, muoviti/ Donna meravigliosa, liberati dalla gabbia/ Non solo in Germania, anche in altri Paesi/ I diritti delle donne devono cambiare). Ritrovo in queste dinamiche il senso più vero dell’hip hop, quello fatto di solidarietà, di energia, denuncia, inclusione. Arte. Penso a quello che si perde quando si vuole essere mainstream a tutti i costi e, all’opposto, all’ambizione di queste persone, che cercano con tutti i loro mezzi di far arrivare un messaggio, più che un contratto o un assegno.
La mia Sailor Moon interiore qui si sente a casa.
“Il messaggio nel rap è tutto”, mi dice Leila qualche giorno più tardi. Ha acconsentito ad incontrarmi con calma per parlare un po’ di sé e del suo Women’s World. Leila, in arte Leila A., è un’apolide originaria della Palestina dalla quale è fuggita insieme alla propria famiglia quando aveva solo quattro anni. A Berlino la sua vita è stata difficile, soprattutto agli inizi. “Eravamo una famiglia di rifugiati, senza documenti, senza un soldo. Non parlavamo il tedesco, soltanto l’arabo. Io ho iniziato ad andare a scuola a otto anni, e imparare la lingua per me è stato faticoso. Ero un disastro in tutte le materie, tranne che in musica: riuscivo a imparare a memoria i testi di intere canzoni e a cantarli insieme ai miei compagni. Era chiaro già da allora che avrei intrapreso questa strada”.
Mentre racconta la sua storia, Leila sorride. È una donna forte, lo si capisce ascoltandola.
“Da piccola non avevo amici. Ero spesso presa in giro dagli altri bambini, che non accettavano la mia diversità. Gli insegnanti non dicevano mai nulla, si limitavano a osservare e non intervenivano. Così per difendermi dal bullismo ho dovuto spesso fare a botte. Sempre e solo con i maschi. E vincevo sempre!”. Il rispetto Leila se lo guadagna però definitivamente con la musica: da ragazzina inizia a frequentare i workshop del progetto teeny Musik treff, presso la Ev. Kirchengemeinde am Humboldthain di Wedding, un quartiere a nord di Berlino, dedicandosi inizialmente al canto e al soul. Si avvicina al rap attraverso la scrittura di brevi poesie, che sente necessariamente di voler rappare. Si rende conto di avere talento e decide di sfruttare questa consapevolezza: “Finalmente avevo degli amici. Mi sentivano cantare e rappare e improvvisamente si rendevano conto di quanto fossi brava. Il rap ha cambiato la mia vita, mi ha dato, dal nulla, delle persone su cui finalmente poter contare”.
La gente inizia ad accorgersi di lei non solo per la sua bravura e la sua energia, ma soprattutto per i suoi testi, che veicolano messaggi e intenzioni importanti e ammirevoli. “Tutti questi rapper che cantano di ‘cocaina’ e ‘puttane’, che messaggio lasciano ai ragazzi e alle ragazze che li ascoltano? Che immagine danno dell’hip hop? Per me questa roba non vale la pena di essere ascoltata”. Leila racconta in particolare di un progetto che ha in mente di realizzare proprio presso il teeny Musik treff, con bambini e ragazzi del quartiere: “Il rap deve essere vissuto in modo positivo dai piccoli. Non è necessario assumere atteggiamenti da gangster per far parte di questo mondo. Io voglio insegnare loro la bellezza della creatività, e che si possono rappare anche cose semplici e più appropriate, da bambini appunto, ed essere comunque estremamente cool. Roba tipo: Ich stehe morgen auf/ Um 6 klingelt der Wecker/ Ich putze mir die Zähne/ Meine Mutter war beim Becker/ Und nach dem Frühstück zieh ich mich an/ Weil die Schule fängt bald an, (Mi alzo la mattina/ La sveglia suona alle 6/ Mi lavo i denti/ Mia madre è andata dal panettiere/ E dopo colazione mi vesto/ Perché tra poco inizia scuola)”.
Il messaggio è tutto, insomma. Leila ci tiene a sottolinearlo più volte: “Nei miei testi io voglio parlare della questione femminile. Voglio che le donne ricevano il rispetto e il riconoscimento che meritano, al pari degli uomini. Per me essere femminista significa proprio lottare per l’uguaglianza, per l’autodeterminazione, per la dignità che spetta ad ogni singola donna di questo pianeta”.
È anche per questo che, nell’inverno del 2016, le viene in mente il progetto che poi chiamerà Women’s World. “Al Little Stage ci vado da moltissimi anni ormai, da quando ho scoperto che lì il lunedì sera si può rappare. Ad un certo punto però mi sono resa conto di essere l’unica ragazza a partecipare agli open mic di freestyle e così mi sono detta: perché non organizzare, una volta al mese, un open mic per sole donne?”, e da quel momento si è attivata per mettere in piedi l’evento. Ha ingaggiato un dj, una band, e ha iniziato a fare pubblicità sui social networks e tramite volantinaggio.
Il Women’s World esiste ormai da gennaio 2017 e ogni mese la partecipazione sembra aumentare esponenzialmente. Leila è fiduciosa: Women’s World è un evento che funziona perché offre a tutte le rapper ‒ anche alle meno brave ‒ un ambiente protetto in cui migliorare, creare connections, divertirsi ed esprimere se stesse senza ansie da prestazione e completamente al di fuori da meccanismi giudicanti. Leila afferma: “Là fuori ci sono moltissime rapper, adesso lo so. Devono solo trovare il coraggio di uscire allo scoperto, devono venire al Little Stage, al mio evento”. Il suo entusiasmo mi tocca profondamente. È troppo semplice ricevere attenzione quando si parla esclusivamente di droga, sesso, di immagini e stereotipi ormai triti e ritriti, che però a quanto pare sembrano evergreen intramontabili nel rap. La mia stima infinita va invece a chi ci crede, a chi ha i piedi nella merda e lo sguardo sulle stelle ‒ per dirla come i Colle der Fomento ‒, a chi non molla e riesce sempre a trovare un motivo per andare avanti anche se, spesso, di motivi proprio non ce ne sono. Leila A. è una di queste persone, e si merita tutto il successo e la realizzazione possibili. Si merita di riuscire a cambiare il mondo.
***
Il 18 giugno fa caldo mentre pedalo sulla Mühlenstraße in direzione Yaam, il centro sportivo e culturale dove, per cinque domeniche di cinque mesi successivi a partire da oggi, si svolgerà l’evento “High Five ‒ A Journey through Hip Hop Culture”. Si tratta di un progetto che punta alla creazione di uno spazio libero da stereotipi, violenze, sessismi e razzismi vari presso il quale tutti gli interessati possono immergersi nei quattro elementi dell’hip hop ‒ graffiti, rap, breakdance e djing ‒ attraverso workshop, presentazioni, interviste ed esibizioni. Il tutto rigorosamente gratis.
Non ho neanche oltrepassato il gabbiotto all’ingresso, dove due ragazzi turchi mi controllano lo zaino, che già sento una voce conosciuta provenire da un altoparlante al di là della collinetta, dallo spazio che si affaccia sul fiume. Percorro rapidamente il sentiero che mi porta in quella direzione e, come avevo previsto, Leila A. è sul piccolo palco di fronte all’ingresso dell’edificio principale e sta rappando. Ci salutiamo con un ampio gesto della mano.
Osservo i volti delle persone che si sono fermate, come me, ad ascoltarla e noto una serie di sorrisi stampati e sguardi attenti. Leila sa come catturare l’attenzione del pubblico, il suo freestyle è una bomba. Mi allontano per un momento sul retro della struttura, verso la spiaggetta artificiale e il bar, costeggiando per un breve tratto il lato meridionale dell’edificio: da una fila di porte aperte sulle sale interne posso vedere i gruppi di bambini e ragazzi che provano una serie di passi di breakdance, coordinati dalle indicazioni di un’insegnante. Al bar incontro Alice Dee e la abbraccio per salutarla. Era stata lei a consigliarmi di venire, fa parte degli organizzatori ed è presa da mille incombenze. Fa in tempo a dirmi: “Che bello che ci sei! Divertiti!”, prima di sparire travolta da un gruppo di collaboratrici piene di domande.
C’è un sacco di gente. Alcune persone sono nelle sale al chiuso dello Yaam, impegnate con i workshop, molte altre invece si rilassano qui, sulla spiaggetta, o di fronte al palco del freestyle dove Leila A. sta ancora macinando una rima dopo l’altra. Intravedo anche la rapper luso-tedesca YANSN, che dispensa abbracci e indicazioni a chiunque le si avvicini, e le inseparabili rapper berlinesi Josh und Nash. Il sole picchia forte, noi siamo una folla felice che suda all’unisono, muovendo le teste coordinati sul beat.
Tanz/ tanz tanz tanz aus der Reihe/ Treib es bunt und ignoriere die Schreie/ Der Vernunft. Das kommt aus einem Mund der Freaks
(Balla/ balla balla balla fuori dagli schemi/ Fai casino e ignora le urla/ della ragione. Te lo dice una matta)
“Dove sono quindi le donne nel rap?” mi chiedevo all’inizio di questa esperienza.
Eccole, sono qui: organizzano, si attivano, producono, accolgono, ascoltano, cantano. Non si fermano mai, consapevoli del fatto che per farsi sentire bisogna mettere da parte le scuse e la pigrizia, alzarsi in piedi e farsi vedere. Alzare la voce, soprattutto. E a queste ragazze la voce di certo non manca. Fanno un ottimo lavoro, e non hanno nulla da invidiare ai propri colleghi uomini. Le donne nel rap hanno quel qualcosa in più. Chiamatelo come vi pare, a me piace pensare che sia innata, potente e sfrontata determinazione.
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Foto di copertina: Leila A. & Alice Dee ©Loris Rizzo
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