Trenta stanze, pareti di cemento armato spesse quattro metri, ventilazione autonoma, rete telefonica indipendente. A 8,2 metri di profondità i suoni della superficie si attenuano, diventano indistinti brontolii che spaventano soltanto per l’idea che portano con loro: la fine si avvicina rumore dopo rumore, le ore diventano infinite, lasciando il tempo per riflettere su quello che doveva essere un trionfo ed ha finito per diventare il punto più basso di una nazione intera. In fondo a questo dedalo di gallerie c’è una piccola camera diversa dalle altre, arredata in modo inutilmente sfarzoso e illuminata da una luce leggermente più forte. In un angolo un uomo smagrito e ricurvo guarda il corpo senza vita di quella che è stata la sua compagna per molti anni e sua moglie solo per poche ore; si siede, con la mano destra estrae una capsula di cianuro da un piccolo astuccio e la osserva. La porta alla bocca e la schiaccia con i denti. Subito dopo estrae una pistola dalla sua custodia e si spara alla tempia. Il colpo scompare sotto i suoni delle bombe, è solo l’ennesimo rumore indistinto in una Berlino assordata. Si tratta però del suono finale della Germania nazista, che di fatto cessa di esistere nel momento esatto in cui Adolf Hitler preme il grilletto.
I giorni successivi saranno solo un epilogo militare buono per i libri di storia e le propagande.
“Die Bunker sind nicht weg zu kriegen” recita un vecchio detto berlinese: “I bunker non si levano più”.
In effetti gli uomini, anche i peggiori, scompaiono dalla circolazione ma delle solide tonnellate di cemento armato sono un po’ più complesse da cancellare dalla storia.
Il tentativo viene comunque fatto, subito dopo la guerra. I sovietici non vogliono che rimanga traccia del passato nazista: i vincitori sono loro, i perdenti sono stati spazzati via e con essi deve sparire anche ogni tangibile segno architettonico. Interi edifici già gravemente danneggiati dai bombardamenti vengono demoliti con cariche di esplosivo o direttamente a cannonate, utilizzando i feroci obici dei carri T-34, i veri vincitori della battaglia di Berlino grazie alla loro anima fatta dell’acciaio tanto caro a Stalin.
Il Führerbunker non fa eccezione. Nel 1947 i resti di quella che era l’uscita di emergenza, situata nei giardini della cancelleria, furono fatti esplodere; i danni effettivi alla struttura sotterranea si rivelarono però limitati, causando solo il crollo delle pareti di tramezzo e lasciando integri gran parte dei muri perimetrali.
Quando l’Armata Rossa sgomberò da Berlino, il testimone delle demolizioni selettive passò al governo della Germania Est: nel 1959 fu fatto un nuovo tentativo di demolizione, anch’esso senza risultati apprezzabili. I resti del bunker furono quindi interrati in fretta e furia, destinati a essere cancellati dalla memoria, quantomeno visiva, della popolazione. Solo alla fine degli anni ’80 il pesante cemento armato ritornò a vedere la luce del tiepido sole berlinese; in vista della costruzione delle fondamenta per un complesso residenziale il terreno smosso rivelò i resti di una storia quasi dimenticata. E ancora una volta fu l’esplosivo il boia chiamato a prendersi cura del condannato: alcuni dei resti riemersi furono fatti brillare, altri semplicemente lasciati al loro posto e ricoperti di nuovo di terra. In superficie il terreno fu occupato da un grande parcheggio e fine della storia.
“Perché ci porti a vedere le macchine parcheggiate?”
La domanda, estrapolata dal contesto, suona strana ma è totalmente legittima. Il mio lavoro consiste nel raccontare ai visitatori di Berlino quello che di solito hanno studiato (male, anzi malissimo) sui libri di storia. Tra un imperatore prussiano e un accenno alla divisione di Berlino parlo ovviamente anche del passato nazista della capitale tedesca.
Trovo che sia una responsabilità abbastanza grande tentare di spiegare a parole ciò che appare inspiegabile; al di là degli eventi strettamente bellici, raccontare la storia di un regime che ha sistematicamente e scientemente deciso di annientare quindici milioni di persone è difficile. Con quale pelo sullo stomaco posso raccontare che la soluzione finale della questione ebraica fu presa durante un pranzo in una villa alle porte di Berlino? Sui piatti da portata, tra un antipasto e un primo, si ammassavano i corpi di milioni di persone senza che nessuno avesse né un conato di vomito né niente da obiettare.
Portare le persone a vedere il luogo in cui si sono svolte le ultime ore di uno dei periodi più cupi del ‘900, ricostruire il cemento parola dopo parola, riportare in vita per alcuni minuti gli esseri più abietti della storia dell’umanità è un lavoro massacrante.
Vorrei rispondere, a chi me lo chiede, che li sto portando a vedere la macchine parcheggiate perché nella normalità del quotidiano si può nascondere l’orrore. Sotto le carrozzerie sporche è sepolta una storia che in molti vorrebbero cancellare ma che sarebbe bene ricordare ancora meglio, soprattutto adesso con l’aria che tira in Europa e nel resto del mondo. Quando qualcuno dice che ciò che è accaduto 80 anni fa adesso non potrebbe ripetersi, rabbrividisco: sono frasi come queste che mi fanno capire che il rischio è ancora più alto. La sottovalutazione del male dell’uomo, dell’odio verso il diverso o l’estraneo sono il nutrimento quotidiano di molti. E la paura, quanto potente può essere la paura: per essa si rovesciano stati e si calpestano persone senza battere ciglio.
Se la paura nasce dall’ignoranza allora è meglio cercare di trasmettere il più possibile la storia, non lesinando particolari e orrori. La storia è una brutta cosa e guerre e regimi sono il suo allegato più terribile: nascondere e buttare la polvere sotto il tappeto sono i modi migliori per far dubitare chi non ha visto. E allora racconto del sangue, delle pallottole, del cianuro, dei sei figli di Goebbels avvelenati nel sonno, degli edifici scheletrici di Berlino, dei raid aerei, del massacro di civili e degli orrori che da tutte le parti sono stati commessi.
Poi mi sento in colpa, vorrei lavarmi la bocca con il sapone perché masticare lo schifo che racconto è amaro da morire. Vedere i volti contriti di chi mi ascolta è la mia punizione, il dolore che mi si ritorce contro per aver raccontato troppo dolore; è un taglio che mi infliggo e che si rimargina con estrema fatica.
“Hitler was buried here”
No, Hitler non è seppellito tra una BMW e una Mercedes. Hitler è stato ritrovato bruciato e sfigurato sotto l’albero più alto del parcheggio dove tu, turista anglofono di incerta provenienza, stai berciando ai tuoi compagni di viaggio. Hitler è stato riconosciuto dal suo dentista che ne ha esaminato la mandibola e adesso non è sepolto da nessuno parte ma galleggia in molecole di cenere nel fiume Elba, dove i suoi resti furono sparsi negli anni ’70 per evitare qualsiasi luogo di sepoltura.
Tutto questo per cancellarlo dalla storia e, ragionando col senno di poi, anche per impedire che orde di ignoranti si scattassero macabri selfie dal retrogusto orrorifico nel luogo di morte dell’essere umano più disumano che la storia ricordi.
“Eh…era completamente pazzo…”
Magari lo fosse stato. Questa è la frase di comodo che ci raccontiamo per giustificare l’incomprensibile e l’inimmaginabile: il fatto che un uomo in possesso delle sue piene facoltà mentali (perché tali erano nei primi anni del suo regime) abbia deciso di macellare milioni di persone in base a malattie, razza, orientamento sessuale e religione. Il cervello di Hitler era né più né meno come quello dei tanti che lo etichettano come un folle. Dura da ingoiare, ma vera.
In una sorta di paradosso, non trovo altri termini per definirlo, mi sento con un sentimento molto più affine nei confronti di quelle persone che preferiscono esorcizzare l’orrore provando a scherzare sulla figura di Hitler piuttosto che liquidandolo come l’ennesimo spostato della storia dell’umanità. E’ anche la via seguita parzialmente da alcuni autori letterari e cinematografici tedeschi: negli ultimi vent’anni sono uscite alcune opere che cercano di alleggerire il peso dalle coscienze che un paese intero fa ancora fatica ad eliminare. Sto pensando a Mein Führer – La veramente vera verità su Adolf Hitler del 2007 e al ben più famoso Lui è tornato del 2015, prima caso letterario e poi film di grande successo in tutta Europa.
Credo che scherzare un po’, con parsimonia, aiuti a prendere coscienza e a riflettere. E’ un modo per raccontare qualcosa in maniera diversa, per offrire una via d’uscita dal buio dell’anima senza comunque assolvere i colpevoli. Come dice un altro proverbio “una risata non ha mai ucciso nessuno” dopotutto. La superficialità ha invece commesso enormi stragi.
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Immagine copertina: Turisti in visita nei pressi dell’ex Führerbunker © Wikicommons
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