Prologo.
U-Bahn Hermannstraße. Neukölln. È la notte tra il 26 e il 27 ottobre. La telecamera a circuito chiuso della U-Bahn inquadra una sezione che comprende parte della scalinata che arriva dalla strada e parte di quella che porta alla banchina.
Alcune persone entrano nell’inquadratura, tra queste una ragazza con un cappotto nero. L’ampio cappuccio poggiato sulla testa. Una borsa a tracolla. Comincia a scendere la seconda scalinata. Dietro di lei un altro ragazzo. Jeans, giubbotto di pelle, una bottiglia di birra nella sinistra, una sigaretta nella destra. Tira una boccata. Lo seguono altri tre ragazzi, probabilmente amici.
Accelera, raggiunge la ragazza quando ha fatto soltanto metà degli scalini, e la spinge di sotto, con un calcio.
La ragazza vola, letteralmente vola, coprendo quasi l’intera distanza che la divide dalla banchina. Poi atterra di faccia sugli ultimi gradini.
Il ragazzo, nel frattempo, se n’è andato, senza fare una piega. Uno di coloro che lo accompagnano, si china per afferrare una bottiglia caduta. La raccoglie, guarda la ragazza e segue il resto del gruppo.
Perché.
La violenza del video è tutta lì, nel volo e nell’atterraggio.
La violenza del gesto, invece, è tutt’altra cosa. Risiede in una domanda: perché?
Non è un perché semplice, che indaga su moventi e alibi, è una domanda più ancestrale, più diretta, che parte da una cosa chiamata umanità e arriva, per l’appunto, alla definizione radicata di violenza. Radicata nella società contemporanea.
Ho già avuto modo, in passato, di scriverne. Meglio, di analizzare quelli che sono stati gli episodi di violenza che hanno colpito alcune aree di Berlino.
Berlino che è considerata una metropoli sicura, in quanto metropoli. Berlino che però, talvolta, rischia di essere presa sottogamba. Questo è un dato di fatto. Ma anche in questa considerazione c’è una quantità di informazioni, ipotesi e purtroppo insinuazioni, che potrebbero aprire discussioni infinite. E di fatto le aprono.
La verità è che la motivazione ad un gesto del genere non va cercata nei “generis” (ci tornerò più avanti), ma più in profondità.
Non lo so cosa possa essere accaduto i minuti prima del fatto, forse c’è stato un diverbio tra la ragazza e il suo aggressore, forse no. Quello che mi chiedo è come può un uomo compiere un’azione tanto avventata, che sarebbe potuta concludersi con una tragedia. Fortunatamente la vittima non ha, quantomeno sul momento, ripercussioni gravi: la si vede rialzarsi, mettendosi a sedere, e guardare verso le scale, toccandosi il volto.
La cosa triste è che ciò che viene discusso con maggiore veemenza, dalla comunità web, è la provenienza degli individui che hanno commesso il gesto.
Ecco dove voglio arrivare.
L’ira del web.
La Polizia rende pubblico il video solo tre giorni fa, nonostante l’accaduto risalga alla fine di ottobre. Questo perché le indagini sono partite immediatamente, ma il colpevole resta ancora non identificato. L’intento è quello di cercare aiuto attraverso le testate giornalistiche.
E i social network.
Nei due giorni seguenti, il popolo di Facebook si è scatenato.
Come spessissimo accade, ultimamente, tutto vale pur di potere dire la propria su Facebook. La maggior parte delle volte, questo, coincide con pensieri sconnessi dettati dal fatto che quella popolarità sicura e semplice che il web regala a chiunque, è talmente immediata, che non riusciamo a farne a meno.
Il popolo italiano dei social network si scatena all’indomani dei risultati dell’ultimo Referendum. Il popolo italiano dei social network si scatena alla notizia dell’infarto di Al Bano Carrisi. Il popolo italiano dei social network di italiani a Berlino si scatena quando il video della ragazza spinta dalle scale della metropolitana di Hermannstraße viene trasmesso dalle maggiori testate giornalistiche tedesche e da lì passa a Facebook, che lo fagocita e lo vomita fuori come una pepita d’oro.
Si scatena come in un Black Friday virtuale e lo fa, come suo solito, nel modo peggiore. Non tutti, è chiaro, in molti si sono messi lì a pensare e non a sparare. Purtroppo però, la maggior parte dei commenti e degli status, vertevano su due cose principalmente, la violenza del gesto – e ci sta tutto – e la provenienza dei criminali che lo hanno compiuto.
Mi è capitato di leggere vere e proprie discussioni alla luce del giorno, il che significa non da chat privata (oramai la terminologia della società contemporanea si è impossessata di vocaboli che sono propri di Facebook. Non del Web in generale, non del suo contenitore, ma di Facebook) in cui si prova a fare un’analisi attenta dei tratti somatici e del vestiario, al fine di capire se i ricercati siano rifugiati oppure turchi.
Rifugiati oppure turchi.
Sicuramente non tedeschi. Sicuramente non italiani perché il Bel Paese lo tiriamo in mezzo solo quando ci si butta da solo, nell’arena.
Non posso dimenticare lo scandalo della nota catena di pizzerie italiane a Berlino, accusate dai propri dipendenti di essere fascisti e sfruttatori. In quel caso erano italiani.
Riuscite mai a percepire lo stridere di quello che scrivete nei vostri status Facebook?
Riuscite mai ad annusare quanto state ridicolizzando l’intelligenza umana, e tutto per una motivazione bugiarda?
È successo questo.
È successo che ci siamo persi dietro le cose sbagliate.
Oppure.
Oppure sono io che non ho capito niente: la libertà di parola, la libertà di opinione, la libertà di avere un mezzo sul quale scrivere quello che cazzo mi pare e piace, mentre prima dovevo telefonare alla radio oppure dovevo riuscire ad andare in televisione e bla bla bla.
Ora c’è il Facebook.
Qualche tempo fa mi sono messo a cercare di capire quale altra comunità di immigrati a Berlino abbia una così grossa componente di forum, gruppi e pagine di connazionali a Berlino.
Nessuna.
Ci sono, ma nessuna di queste riesce a raggiungere il numero di iscrizioni di alcune di quelle italiane. Esatto, alcune. Perché i gruppi di italiani a Berlino sono decine. Veramente, decine.
Tutto quello che è stato detto finora può sembrare incredibilmente banale. Una vecchia opinione che ha nel capo la sua stessa coda. Questo però è il nostro lavoro, nolente o volente: informare e persistere, soprattutto quando le cose sembrano non cambiare, da una parte e dall’altra.
Io credo che ripetere i concetti, quando sono concetti “cardinali”, sia un bene, non un male.
Su un tema del genere, per non essere banali bisogna essere teste di cazzo (dato che probabilmente, con l’obiettivo di aggirare la banalità, ci si addentra in concetti che non funzionano) e allora, invece, preferisco la ripetizione concettuale.
REDAZIONE
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