Succede che devi scrivere un articolo, rispettare una scadenza. Il tema che ti hanno assegnato è il “covo”, inteso come rifugio: un luogo dove sentirsi protetti, al riparo da tutto, anche dai propri pensieri. Tu quel luogo ancora non l’hai trovato, e non sei nemmeno sicuro che esista. Allora come cazzo pensi di riuscire a scriverne? Ti vengono in mente le cose più ovvie: il paese e la casa dove sei cresciuto, ma che hai da tempo abbandonato perché, no, non era quello il tuo posto. Eri proprio lì qualche giorno fa, tornato da Berlino, la città dove ora vivi. Eri lì per la solita visita estiva a tua madre.
Ogni volta è un tuffo nei ricordi. Appesi alle pareti della sua casa ci sono sempre gli stessi quadri di quando eri un moccioso; le stesse foto. Sopra gli stessi mobili, immobili a impolverarsi, gli stessi ninnoli. Dalla cucina gli stessi odori, frutto delle ricette scritte a mano dalla madre di tua madre in quei diari ingialliti conservati come sacre reliquie, e le cui pagine si sbriciolano se non le sfogli con delicatezza. La stessa stanza con lo stesso letto sopra il quale per anni hai dormito, e hai smaltito le sbornie prese con gli amici di sempre. Ti rincuora sapere che, qualsiasi cosa succeda, potrai tornare indietro ma, nonostante tutto, non lo vedi come un rifugio. Eppure il senso dovrebbe essere proprio questo: l’Heimat – parola che hai imparato stando in Germania -, un luogo familiare dove sentirsi al sicuro, cullato, dove sentirsi a casa.
Casa.
In quattro anni che sei a Berlino l’hai cambiata otto volte. In quella dove stai ora non c’è un mobile che sia tuo e le pareti sono sempre disadorne. Il bianco della tua stanza regna indisturbato. Lo si vede anche di notte, per via della luce che passa attraverso le tende che non hai. Ti bastano un paio di valigie per traslocare da un posto all’altro, e non c’è mai nessuno tra quei muri che tu possa chiamare famiglia. Non la ragazza ucraina che pensava che l’aglio fosse il rimedio a tutti i mali diventando essa stessa aglio, a forza di succhiarlo tipo mentina; non la vecchia tedesca con un carico pendente per stalking verso il suo ex-amico gay; non il dottorando in matematica che sciorinava una perfetta dialettica solo quando parlava con il suo gatto, per poi ritrovarsi a balbettare con le persone; non il sardo i cui standard igienici sono stati messi in discussione nel momento in cui, dopo averlo lasciato in casa da solo per un mese, hai trovato una piantina di pomodoro sbocciata dalla spugna per i piatti; e nemmeno tutto il resto dei variegati esemplari umani con cui hai vissuto.
Ce ne vuole a definire rifugi questi surrogati di casa in cui ti ostini a vivere, ma c’è qualcosa dietro – ancora non hai capito bene cosa – che li rende speciali. Sarà merito di quelle storie che, nel bene e nel male, tutti questi luoghi ti hanno lasciato.
Succede che questi pensieri li stai facendo a Sarajevo, dove il rifugio ha una connotazione tutta sua. Sei finito lì senza davvero volerlo, spinto dal caso e dalla noia. Dopo due settimane ne avevi abbastanza del tuo paese, ma il volo di ritorno era ancora distante, così hai cercato un passaggio verso qualsiasi destinazione che fosse ragionevolmente lontana. Ne hai trovato uno per Budapest, in macchina con dei musicisti romagnoli con la fissa per le sonorità balcaniche. Non c’è solo Casadei nel regno della piada.
Dopo aver passato qualche giorno assieme a loro nella capitale ungherese, ti sei congedato e hai preso un treno per Belgrado, poi un bus per Sarajevo. Non sai ancora cosa verrà dopo. Per il momento ti godi la città seduto sul muro esterno del Bijela Tabija, la fortezza bianca che si erge alta sulla valle, offrendo un panorama da cartolina. Le gambe a penzoloni sul precipizio, e in cuffia l’ultimo album dei Do Make Say Think. È la prima volta che lo senti, nonostante fosse da parecchio tempo caricato nel lettore e morivi dalla voglia di premere play. La musica ti si attacca sempre e indissolubilmente ai ricordi del periodo in cui la ascolti. Non facevano un album da otto anni: mica potevi lasciar che rimanesse per sempre associato al grigiore di Berlino. Ora il momento è quello giusto. Sei in viaggio, la dimensione che ti è più congeniale. Il sole tramontando colora di arancio le pallide lapidi che numerose coprono i fianchi dei colli, memoriali di una guerra ancora troppo viva per essere dimenticata. Poi il crepuscolo lentamente lascia spazio alle luci della città e dei minareti, da cui proviene il lamento del muezzin che si mescola, senza stonare, al post-rock che hai cuffia. Il disco è stupendo, l’imbrunire è stupendo, il senso di libertà è stupendo. Hai capito di essere nel tuo covo, e non è Sarajevo. È l’essere fuori dalla tua zona di conforto, perché è lì che succedono le cose, quelle inaspettate, quelle che ti rimangono, quelle belle da raccontare. È l’essere lontano da quello che a rigor di logica dovrebbe essere il proprio rifugio. È il credere che da qualche parte esista, ed è la sua continua e infinita ricerca. È il convincersi di non averlo trovato per potere andare avanti, per non accontentarsi.
Succede che consegnerai l’articolo in ritardo, e che lo farai passare come una cosa voluta, scrivendo che non puoi scrivere di cose che nemmeno sei sicuro esistano. Rimarrai nella tua zona di conforto che è quella del non fare un cazzo, del tergiversare. Ti rifugerai tra i piaceri dell’ozio, dove non succede niente che valga la pena di ricordare, rimanendo con quel senso di insoddisfazione e non appartenenza, fino a che non ne avrai abbastanza, e finalmente ti deciderai a muovere quel culo appesantito dalle proprie certezze per continuare la tua ricerca e lì, di nuovo, capirai che il tuo unico rifugio è il non aver rifugio.
In copertina: John Proctor’s House © Wikicommons
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