4 luglio, diciotto e tredici. Entro al civico 65 di Oranienburger Strasse, presso l’ostello Generator Berlin Mitte, seguo i cartelli con la scritta Eye contact. Una freccia indica una scala verso il basso. Mi metto in fila, c’è molta gente, prevalentemente ragazzi e ragazze tra i venti e i quaranta, ma anche qualche signore vagamente brizzolato e una mamma che tiene la mano a una bambina sui dieci anni. Davanti a me un riccetto dall’iride chiara e dal pantalone hippie cerca di carpire ogni movimento degli altri e sorride incuriosito. Dietro di me capelli lunghi e nerissimi raccolti da un nastro in modo disordinato, lasciano scoperto un viso dai tratti asiatici e le espressioni timide. Scruto anche gli altri membri di questa lunghissima coda, mi sporgo avanti e indietro, ma nessuno di noi ha la confidenza necessaria per sostenere lo sguardo per più di qualche secondo. Eppure sappiamo tutti che siamo lì proprio per quello. Niente, distogliamo gli occhi imbarazzati.
L’Eye Contact Experiment è una pratica alternativa di conoscenza dell’altro. Si è invitati a prendere posto davanti a una persona sconosciuta e a guardarla negli occhi per almeno un minuto. L’iniziativa è a cura del movimento “The Liberators”, un gruppo di volontari che organizza eventi in cui l’interazione fra essere umano e essere umano è nodale. Lo scopo è permettere a chi partecipa di ricordare that beyond our differences there is love and humanity.
Il gruppo viene fondato nel 2014 in Australia dal giovane Peter Sharp, ma si diffonde rapidamente in tutto il mondo, toccando nel 2016 almeno una cinquantina di Paesi con il progetto del contatto visivo, che si ripete regolarmente rimbalzando di città in città. La prossima data per Berlino sarà il 30 agosto.
Ma le iniziative che sostengono la causa non si limitano all’Eye contact, ce ne sono tante e diverse: c’è chi attende un abbraccio in mezzo alla strada ad occhi bendati, chi di lunedì mattina canta su un vagone della metro affollato distribuendo il testo perché tutti possano partecipare. C’è chi si spoglia in pubblico e chiede alla gente di disegnare con il pennarello un cuore sul proprio corpo per sensibilizzare all’accettazione fisica di sé, chi si contrappone ai canoni sociali sulla bellezza mettendo in mano un paio di forbici a chi voglia contribuire a una nuova acconciatura.
Alla base di tutti questi piccoli eventi c’è la totale fiducia in ogni sconosciuto che il caso vuole passi di lì. Sul sito ci sono molti video che documentano questi esperimenti, interessanti le reazioni.
Io sto per fare un’esperienza che ho sempre desiderato fare; allo stesso tempo mi viene un po’ di strizza, come sempre accade quando so che sto per confrontarmi con qualcuno che non conosco. Non so mai fino a che punto sono disposta a concedermi, non so mai dosare bene la fiducia da distribuire. Non riesco mai, di fatto, a lasciarmi andare completamente.
Non ho aspettative particolari, so che in questa condivisione generale ognuno uscirà comunque con il proprio – necessariamente – individuale punto di vista. Ma so che per raggiungere questo punto di vista ho bisogno di una controparte che mi insegni la mia diversità, la mia unicità come essere umano.
Nel mentre che aspetto, la mia mente va a ritmo di lucciola a scartabellare i ricordi.
2013. Zio Fabrizio tira fuori un DVD dalla copertina prevalentemente rossa, sulla quale compare il volto di una donna con una treccia corvina. Ha il collo proteso in avanti e sembra scivolare fuori da un vulcano infuocato, che in realtà è la sua veste. Zio infila il disco nel lettore. Sto per conoscere Marina Abramović.
Nella performance al MoMA di New York, The Artist Is Present, per due mesi e mezzo i visitatori hanno fatto la fila per sedersi di fronte a Marina. Gli occhi di lei si trasformavano in specchi: chiudeva e riapriva le palpebre per ogni spettatore a intervalli di tempo irregolari, perché ognuno poteva scegliere quanto a lungo succhiare il proprio riflesso dalle sue pupille.
Era il 2010, e l’artista serba creava un precedente artistico all’esperimento sociale che sto per vivere. Nonostante ci siano delle differenze con il progetto dell’Abramović, dichiarano i “The Liberators” in un’intervista, l’Eye Contact Experiment tende ad evidenziare lo stesso power of love and connection.
Arrivo al margine della fila: nel mezzo di una sala scoperchiata, in una specie di sotterraneo in béton brut, filtra qualche raggio di sole su paia e paia di occhi immobili. La sala è divisa in due ambienti preceduti da una sorta di anticamera più buia, quasi un limbo dove la gente si rifugia a studiare gli altri prima di prendere parte all’esperienza, o a recuperare il senso della realtà dopo averla fatta. Ci sono almeno cento-centocinquanta sedie nere – non sono mai stata brava a fare stime numeriche, ma in ogni caso sono davvero tante – disposte in fila, una davanti all’altra. La folla aumenta. Quando uscirò scoprirò che molti si sono adattati per terra nell’atrio dell’ostello per mancanza di spazio nel sotterraneo. “Bitte stille” dicono i cartelli. Ma nessuno ha voglia di aprire la bocca. Sono tutti in contemplazione di qualcosa, negli occhi degli altri. Ci si scruta a distanza, ci si sorride, ci si abbraccia. In silenzio. E noi che siamo in piedi osserviamo in attesa che si riveli la nostra occasione di sperimentare qualcosa che non potremmo fare altrove, fuori da questo scantinato. Perché fissare qualcuno è maleducazione. Perché è mancanza di rispetto. Perché si mette l’altro in una condizione di disagio.
Questo evento invece intesse un’aura di sicurezza che avvolge lo spazio. Io ho la tua autorizzazione, tu hai la mia: vieni a scoppiare la bolla di sapone che mi protegge, perché siamo pari, disarmati.
Si libera un posto sulla destra, decido che è il mio. Mi siedo occupando il limite estremo della superficie a disposizione, vagamente rigida. Alzo gli occhi.
Compare un ragazzo biondo, quasi bianco, sulla ventina: l’occhio sinistro è leggermente più chiuso del destro, ha un’espressione pacata, eppure impassibile. Deglutisco, due o tre volte.
Cosa possiamo darci io e te?
Indosso gli occhiali, mi sembra di avere un muro che ci separa. Mi arrendo alla sedia, provo a rilassarmi un po’.
“Teile 1 Minute Augenkontakt”. Ne saranno passati almeno otto o dieci, non so quantificare. Siamo ancora lì, gli sorrido.
Cosa mi stai raccontando?
Così è inutile, le sedie sono troppo distanti.
Azzardo. Sfilo gli occhiali e sposto il peso del corpo in avanti. La risposta arriva dopo qualche manciata abbondante di secondi, si sporge anche lui verso di me. Finalmente anche senza lenti riesco a mettere a fuoco le sue iridi chiarissime, con la pupilla che velocemente si dilata e si contrae. Ci sorridiamo di più, ma sono talmente concentrata sui suoi occhi da non vedergli più la bocca.
Respiro con un lieve bruciore allo sterno. Vorrei analizzare quello che sento, ma non capisco bene le mie sensazioni; ho gli zigomi mummificati e i suoi occhi non mi bastano più.
Ho te davanti. Non sei più un ragazzo biondo, quasi bianco, sulla ventina. Sei una persona di cui ho necessità di fidarmi, perché fissandoti in un punto, oltre alla tua bocca, è sparito anche il resto del mondo, e a me è rimasto solo il tuo sguardo, e ho bisogno di fidarmi di te.
Apro i palmi delle mani tra le mie ginocchia, scopro che i suoi polpastrelli stavano aspettando un mio cenno. Ci prendiamo le mani, ci riconosciamo.
Non so più che ore sono. Ho toccato un corpo senza aver sentito vibrare le sue corde vocali. Ho accarezzato una guancia morbida, leggermente butterata, perché era ciò che mi veniva più naturale fare. Mi sono lasciata tranquillizzare dall’odore del sapone di un maglione che ho sfiorato con la punta del naso prima che con la punta delle dita.
Mi sono alzata dalla sedia e la chioma bionda mi ha seguita. L’eye contact era terminato, perché in quell’abbraccio che veniva ad offrirmi volevo solo tenere gli occhi chiusi.
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Immagine di copertina: Screenshot da World’s Biggest Eye Contact Experiment – Release Ufficiale 2015
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