È il 3 luglio 1990 e senza che nessuno se ne accorga si sta per consumare uno dei più grandi tradimenti che la mente umana possa concepire. Al San Paolo di Napoli, pochi minuti dopo le 22, Aldo Serena posiziona il pallone sul dischetto del rigore. Prima di calciare fa cinque passi indietro: sembra un impiegato di banca in giacca e cravatta che vede un piccione morto sul marciapiede. Ha la faccia pietrificata, le braccia lunghe vicine al corpo e un’andatura rigidissima. Serena, un metro e ottantatrè centimetri di puro panico in maglietta azzurro acrilico, dà un ultimo sguardo avanti e calcia esattamente sul lato dove il portiere argentino si sta tuffando, forse ipnotizzato (o mosso a compassione, mai lo sapremo) dal pattern “televisore guasto” della divisa di Goycochea. Il mondiale italiano delle notti magiche finisce in quel momento, con gli argentini in festa e con un Totò Schillaci pieno di rimpianti disteso sul prato verde con le mani fra i (pochi) capelli.
Il tradimento a cui mi riferisco non è quello di Aldo Serena, incolpevole distruttore dei sogni di un paese intero, ma il mio: su quel calcio di rigore sbagliato è finita per sempre la mia passione per la maglia azzurra e per la nazionale italiana. Vorrei poter raccontare una storia strappalacrime, in cui la delusione nel mio cuoricino di sette anni è stata tanto grande da impedire di affezionarmi ancora alla Nazionale. E invece no, i motivi sono altri.
Eppure la mia formazione educativa da piccolo tifoso c’era stata: collezionavo le figurine dei calciatori italiani che si ricevevano facendo benzina alla IP, percepivo la tensione di parenti e sconosciuti per un mondiale che vedeva l’Italia chiaramente favorita e avevo anche ricevuto in dono da mio babbo una bandiera con scritto “Forza Azzurri”. Ripensandoci adesso mi rendo conto della terribile frustrazione che ho dato a mio padre. Cercare di crescere un figlio nel segno del patriottismo calcistico e vederselo sfuggire via, come un vile traditore. Gli ho però concesso una punitiva rivincita permettendogli di passarmi un’angosciante passione per la Fiorentina.
Sulla bandiera regalatami, oltre alla scritta, campeggiava un gigantesco Ciao, la mascotte dei Mondiali di Italia ’90: una specie di incrocio tra un cubo di Rubik decomposto, Pinocchio e il bozzetto venuto male di un designer costretto a lavorare di sabato mattina. Ricordo la mestizia con cui, il giorno dopo l’eliminazione con l’Argentina, ripiegai il vessillo staccandolo dalla ringhiera della terrazza di mia nonna. Quanta poesia in questo gesto: ammainando una bandiera ho ammainato anche una passione.
I mondiali successivi si giocavano negli Stati Uniti e io, nel giro di quattro anni, mi ero già trasformato in un reietto. Unico bambino biondo con gli occhi azzurri in una classe di bimbi dai tratti mediterranei, subivo talvolta delle perfide prese in giro: “Sei tedesco, giochi nella Germania!”.
Probabilmente l’unico bambino dell’universo vittima di razzismo da parte dei propri connazionali.
E così finivo per essere isolato nelle partitelle nel cortile della scuola, portiere fisso in un’area di rigore di cemento, a difendere quattro metri di intonaco giallo scrostato (bugia: in realtà venivo messo in quel ruolo perché ho due piedi delicati come incudini. In porta facevo meno danni).
In quei lunghi pomeriggi di pallonate prese ovunque maturai il mio tradimento: se dovevo comunque essere preso in giro, perché non trasformare la mia “diversità” in una distinzione? E così fu. Abbandonai la passione per Walter Zenga e cominciai ad adorare Bodo Illgner, portierone tedesco, fresco vincitore dei mondiali italiani.
Il 17 Giugno 1994 alle ore 15 (le 22 in Italia) ero in trepidante attesa che i miei nuovi beniamini della Germania riunificata scendessero in campo al Soldier Field di Chicago per il match inaugurale di USA ‘94. La partita era un’improponibile Germania-Bolivia che, ancora ricordo, fu di una noia abissale. Roba che la Messa di Pasqua in confronto è un concerto degli Iron Maiden. Ma l’amore è amore, fa apparire tutto meraviglioso. Agli occhi di un bambino Illgner si era trasformato in un portiere leggendario, il migliore al mondo; Thomas Häßler dominava il centrocampo dal basso dei suoi 166 centimetri; Klinsmann e Riedle erano una micidiale coppia d’attacco… Insomma, una squadra imbattibile. Talmente imbattibile da essere eliminata dalla Bulgaria delle sorprese di Stoichkov e Letchkov nei quarti di finale. Il “mio” Mondiale era finito una settimana prima di quello dell’Italia, che si sarebbe giocata la finale col Brasile.
Il 17 Luglio, mentre tutto il paese sudava per il caldo e la tensione, io giocavo a palla nel giardino di una casa al mare che avevamo preso in affitto per la stagione. Mentre tiravo ripetutamente il pallone oltre la siepe (i miei soliti piedi ad incudine, solo cresciuti di qualche misura), Baggio ne calciava uno ben più importante fino al quarto anello del Rose Bowl di Pasadena.
Lo ammetto: sono diventato un traditore della patria (calcistica) e, come tale, ho ricevuto dosi monumentali di insulti e prese in giro da parte di familiari, amici e conoscenti. Ho accettato il tutto sempre con sorrisi e sportività, sia che la Germania vincesse sia che, come è spesso accaduto, perdesse. Soprattutto nelle partite contro l’Italia.
Non c’è però mai stata una volta in cui abbia tifato contro gli azzurri. Anzi, una volta c’è stata e il destino me l’ha fatta pagare cara: ai Mondiali del 2006. Un gruppo di giocatori secondo me moralmente impresentabili messi insieme da una Federazione allo sbando in piena Calciopoli.
Risultato? Italia campione del mondo dopo aver battuto in semifinale proprio la Germania. Una tragedia personale.
In realtà con il passare degli anni ho capito che il mio sentimento per la nazionale tedesca era più una simpatia da bastian contrario che una vera e propria passione: seguo ancora i risultati della Germania, conosco i calciatori e apprezzo il modo in cui il sistema calcio teutonico abbia saputo reagire dopo alcuni mondiali disastrosi. Niente più di questo. Non mi troverete mai a cantare l’inno in sandali e calzini di spugna con un boccale di birra in mano.
L’altra sera ho guardato la partita di ritorno dell’Italia nello spareggio contro la Svezia, senza gufare. L’ho fatto da sportivo, da spettatore neutrale: non avevo lo stomaco chiuso dall’emozione e dalla paura della mancata qualificazione. Ho visto una squadra che ci ha provato, l’Italia, e una che ci ha creduto, la Svezia. La differenza è stata tutta lì: imparagonabili le due formazioni e i nomi in campo, semplicemente imbarazzante la differenza tecnica. Da appassionato di calcio posso dirlo: erano anni che non vedevo una squadra scarsa come quella svedese, più simile ad undici piloni di un’autostrada verniciati di gialloblù che a dei giocatori. Eppure ai mondiali ci andranno loro, ed è pure giusto così.
Potrei scrivere pagine di discussioni tecnico-tattiche su questa sconfitta. Anzi, non potrei: ne so sicuramente meno di chi ci sta già scrivendo interi libri. Resto intimamente convinto che il calcio sia caos e che le cause di una vittoria e di una sconfitta siano così tante da essere insondabili. Il fatto che ci si provi è solo la naturale tendenza umana a ordinare il disordine, a fornire schemi che la nostra mente può riconoscere e replicare in qualsiasi situazione.
Non essere preoccupato per le sorti di alcuna nazionale mi ha fatto scoprire il calcio, quello vero, che spesso ci perdiamo perché siamo troppo occupati ad incazzarci per una formazione sbagliata o un errore arbitrale. Ho visto la bellezza in una discesa sulla fascia al 71’ di Grecia-Costa D’Avorio, la poesia nei capelli di Ochoa dopo una parata, la gioia nel volto di Eto’o rigato dall’acqua durante Camerun-Messico ai mondiali brasiliani. E tutto questo non svanirà come lacrime nella pioggia: rimarrà ben fermo nella mia mente.
Sono momenti come questi che mi fanno dire che il calcio è forse lo sport più bello del mondo, al netto di tutte le schifezze che pure lo compongono e delle valanghe di soldi che l’hanno ricoperto. In ogni giocatore non vedo altro che un bambino ricco e cresciuto che sognava esattamente questo: il prato verde, le luci, le urla, il rumore sordo del pallone calciato. Nel momento del tiro tutto si azzera e diventa silenzio, gli occhi del giocatore seguono la palla che vola leggera verso la sua destinazione, qualunque essa sia. Se volete sapere cos’è per me il calcio guardate quel momento perché è l’attimo visibile in cui l’universo del pallone si crea dalla singolarità cosmica. Senza tattiche, senza fair play finanziario, senza violenza o scandali.
Non è una tragedia nazionale non qualificarsi ad un mondiale. Brutale, ma così la penso. E mentre lo scrivo sento già gli insulti di chi leggerà; me li prendo di buon grado. Certo, la prossima estate non sarà la stessa senza la trepidazione, gli appuntamenti davanti ai maxischermi, i 60 milioni di commissari tecnici che si troveranno improvvisamente disoccupati o, al massimo, a disquisire dell’azione avvolgente di Valentìn Pimentel, centrocampista della nazionale panamense (sì, a Panama si gioca a calcio e si sono qualificati ai prossimi mondiali. Loro.).
È che c’è molto da vedere nel calcio, soprattutto in quello nascosto tra le pieghe del non tifo: potrebbe essere l’estate in cui gli italiani (ma anche gli olandesi, i cileni, gli statunitensi…) lo scopriranno di nuovo e si innamoreranno come la prima volta, quando erano bambini.
Proprio loro, i bambini: in Italia le scuole calcio formano circa 600mila piccoli calciatori (Dati FIGC – 2016). È il serbatoio educativo più grande dopo la scuola, dove i ragazzini si ritrovano appena si alzano dal banco e chiudono i quaderni dei compiti a casa. È una responsabilità enorme a carico degli allenatori e anche della FIGC perché tra quelle migliaia di bambini si nascondono i 22 che porteranno la nazionale italiana ai mondiali futuri. Andargli incontro, raccontargli che sono la più bella risorsa che il calcio possa avere, prenderli per mano e accompagnarli fino al momento in cui potranno decidere se il calcio sarà la loro strada oppure no. Scegliere di portare avanti solo i “migliori” è mortificante per tutti gli altri e una responsabilità schiacciante per i prescelti. Vogliamo trovare una soluzione alla mancata qualificazione? Bene, allora andiamo a migliorare l’insegnamento di calcio ed educazione ai giovanissimi fin dalla scuola elementare, facciamoli sì appassionare allo sport ma anche alla cultura che lo accompagna. Insegnamogli che qualche volta una sconfitta serve per migliorarsi e vincere la volta successiva. E, soprattutto che il calcio (inteso come FIGC) tiene a loro tanto quanto loro tengono al calcio.
E proprio questa recente sconfitta, così enorme e così impensabile, può essere la spinta a ripartire insegnando al bambino in lacrime davanti al televisore che bruciare tutte le IKEA non è la soluzione migliore né il modo per reagire. È davvero una questione di educazione e anche un po’ di filosofia. Perché qualche volta farsi un mazzo così per non prendere gol premia quanto segnarne uno in rovesciata. Che mettere l’anima, in tutto, porta più lontano di quanto si possa immaginare. E che anche avere dei piedi maleducati può farti arrivare a grandi traguardi. La Svezia ne è stata l’esempio chiarissimo.
O magari niente di tutto questo succederà e la prossima sarà solo un’altra torrida estate di frustrazione passata a guardare tutto il resto del mondo che si contende il mondiale. E poi ricominciare come se fosse stata solo (s)Ventura. A voi la scelta e la riflessione, questo è solo quello che pensa il piccolo traditore della patria che è dentro di me e continua ancora a calciare palloni oltre le siepi.
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In Copertina: La Nazionale di Calcio Under 21 dell’85-86 © Wikicommons
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