Glasgow odora di salmone affumicato, ma il suo sapore ricorda la parte nera che resta attaccata al tegame dopo aver cucinato; quella bruciata, che si assaggia ancora calda: a tutti piacciono le cose proibite, specie quando non si può attestare che abbiano effettivamente delle conseguenze negative.
C’è un quartiere a sud che si chiama Shawlands; ogni giorno cammino da lì fino al centro e ritorno, un’ora a tratta. Va avanti da quasi due mesi, ma ancora mi sento in un limbo, all’incrocio tra la realtà e la mia versione dei fatti. Un’ora di tragitto, andata; la solitudine soddisfa l’emotività di questo specchio che mi circonda, fatto di comignoli fini, di mattoni rossicci anneriti dal traffico, da ponti che si alternano paralleli o perpendicolari, a seconda che incontri le rotaie o il River Clyde, il più importante fiume di Scozia. Un’ora di tragitto, andata; tutto sembra immobile, anche se le macchine ripartono quando il semaforo è verde, anche se il fumo sbuffa da imboccature invisibili e va ad aggrovigliarsi alle nuvole, anche se l’acqua scivola nel suo letto, procede a passo lento verso ovest.
Non c’è nulla che vada oltre questi mattoni in bugnato non troppo levigato che si arrampicano l’uno sull’altro fino al margine dei tre piani, che culminano in un cornicione scuro puntellato di piccole travi di sostegno al tetto a spioventi. Canne fumarie, antenne e leggere sporgenze semiesagonali: le bay windows, finestre pazientemente affiancate l’una all’altra all’infinito, lungo tutto il lato sinistro di Darnley Road.
Tutto è immobile, tutto è uguale, reiterato in questo paesaggio da cartone animato per adulti dall’ex architettura vittoriana in versione post industriale, che trasuda a ripetizione tutti gli accordi più tetri che i Pink Floyd hanno saputo accostare all’interno di The Wall. Questo album forse mi viene in mente perché molte scene del film che ne è stato tratto nell’82 da Alan Parker sono state girate in un Regno Unito spennellato con olio di motore, come questa città. O forse perché le animazioni di Gerald Scarfe, con l’esercito di martelli in marcia, le sento vivere, rumorosamente, sulla sopraelevata che sovrasta come un lungo nastro Pollockshaws Road e di cui si riesce a vedere, alzando lo sguardo, solo un ventre azzurro chiaro che ricorda la superficie inferiore di un’enorme balena.
Seguo con gli occhi il prolungamento del braccio teso di un bambino infagottato in un cappottino militare, e mi ritrovo a osservare un cielo sporco. Goodbye blue sky; vedo le finestrelle rettangolari dall’incorniciatura bianca ulularne i cori alle nubi: Glasgow sarebbe impensabile senza i Pink Floyd. Mi sento tanto partecipe di questa fantasia da abbandonare la solitudine del percorso alla vera essenza delle cose, quella che non conoscerò mai perché, in un’ora di tragitto in cui l’umidità ricopre ogni centimetro fatto, le suole delle scarpe non hanno mai lasciato una traccia a terra. Forse non sono qui.
Ho chiesto a Salvo, che vive in questo posto da più tempo di me, di descrivere con un aggettivo l’architettura di Glasgow; ho pensato che se una persona tanto diversa da me, a cui per giunta questa città piace, avesse pronunciato la parola che avevo in mente, probabilmente tutto ciò che ho scritto, ciò che sento, potrebbe non essere necessariamente dettato da questioni personali. Ho pensato che forse questa città, per come è fatta, per l’assenza inspiegabile di spazi ampi (come le piazze), per le salite che non si trasformano mai in discese, per questo incrocio assurdo di cardi e decumani senza curve, per la mancanza di superfici verticali sulle quali la luce possa picchiare, riflettersi e illuminare, sia davvero come io la vedo.
Cupa, dice Salvo. Non avevo dubbi.
Mentre scrivo ricordo l’esposizione del Royal Glasgow Institute of Fine Arts alla Mitchell Library, la principale biblioteca pubblica in città. Molti dipinti che fanno pensare, ancora, alle copertine dei Pink Floyd, ma anche molti altri che ritraggono una Glasgow di cui non ho mai fatto esperienza. Durante la notte, ho immaginato, un restauratore in incognito deve aver violato quelle stanze, deve aver imbracciato i suoi strumenti e volontariamente spellato il primo strato di quelle tele: la brillantezza di quei colori non ha una controparte nel reale.
Che questi artisti abbiano necessità di proiettarsi altrove? O loro riescono davvero a vedere oltre quel filtro catrame che mi si è incollato alle pupille?
Amy è di Londra, l’ho conosciuta ieri sera. Mentre camminavamo di notte per il West End affiancate da un edificio cammello e finestrelle matematicamente compartite in piccoli quadrati da inferriate bianche, le ho detto che sto scrivendo un articolo sulle emozioni che suscita l’architettura di Glasgow. Questa città ha uno stile che mi piace, dice.
Sospiro e torno a pensare che sia davvero una questione personale.
Sono vicina alla stazione, le finestrelle si sono infittite ancora di più, sempre meno spazio è lasciato alla libertà degli occhi.
Vorrei vederli anch’io, quei colori di cui le bocche degli entusiasti di qui si riempiono.
Un’ora di tragitto, ritorno. Mi intrufolo nelle bay windows dei miei quasi vicini di Darnley Road, le case a schiera alla mia destra stavolta. È un gioco che fanno in molti, guardare nelle case della gente, io l’ho fatto tante volte. A Bologna c’erano molti soffitti con travi di legno dietro le tende rosse del centro. Nel cuore di Roma affreschi, e librerie colme d’abbondanza intellettuale e prosperità teologica, in periferia mobili nuovi e luci calde e famiglie giovani appena insediate. A Berlino molte piante e colori etnici e rimbombi di padelle antiaderenti.
Su Darnley Road ci sono i divani in primo piano, o tavoli senza disordine; le pareti sono molto spoglie e il gusto generale ricorda quello delle case delle bambole vendute in edicola in fascicoli, ma con un sapore più scialbo.
Le case si interrompono quasi all’altezza del ponte, lasciano spazio a un campo sportivo. A sinistra ci sono le rotaie coperte dagli alberi, sull’asfalto lucidato dalla pioggia si addormentano mucchi di foglie gialle, appiccicate dall’acqua al suolo. Percepisco un’ombra in movimento incrociare il mio cammino, la cui rapidità mi blocca per un istante. Intravedo la lunga e folta coda di una volpe in fuga dietro la ringhiera. Forse questo momento in Darnley Road lo voglio conservare.
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