Ieri sera, 11 giugno 2020, il presidente del consiglio italiano, Giuseppe Conte, ha dato il via libera per la vendita di due fregate Fremm di Fincantieri da 1,2 miliardi di euro al regime egiziano di al-Sisi. Secondo The Arab Weekly, in realtà, la commessa potrebbe essere molto più ampia, con 6 fregate Fremm (4 nuove oltre alle 2 citate), 20 pattugliatori d’altura, 24 caccia Eurofighter Typhoon e numerosi velivoli da addestramento M-346, per un valore complessivo di 10,7 miliardi di dollari: la più grande commessa mai ricevuta dall’Italia dal dopoguerra a oggi.
Poco importa che il regime di al-Sisi sia colpevole dell’uccisione del ricercatore Giulio Regeni, e che abbia sempre rifiutato di collaborare con le autorità italiane per assicurare alla giustizia i colpevoli.
Ancora meno importante è che nelle prigioni del Cairo ci sia, da quattro mesi e senza nessuna accusa concreta, un giovane studente dell’università di Bologna, Patrik Zaki.
“Le navi e le armi che venderemo all’Egitto serviranno per perpetuare quelle violazioni dei diritti umani contro le quali abbiamo sempre combattuto”, hanno dichiarato Paolo e Claudio Regeni, genitori di Giulio, commentando la notizia.
Cinque minuti. È il tempo che ci vuole per percorrere a piedi la strada che va da Yanbaa Street 8, nel quartiere di Doqqi, alla fermata di Bahouth, al Cairo, in Egitto.
Cinque minuti. Il tempo che ci avrebbe messo Giulio Regeni, come ogni giorno, per andare da casa alla stazione della metropolitana, la sera del 25 gennaio 2016. Giulio stava andando a prendere il treno. Doveva incontrarsi con Gennaro Gervasio, amico e professore di Middle East Politics alla British University della capitale egiziana. Insieme si sarebbero poi spostati per festeggiare il compleanno di Hassanein Kishk, anche lui professore universitario e consulente del Centro Nazionale di Sociologia e Criminologia del Cairo.
Mentre si prepara Giulio scrive alla sua ragazza, Valeriia Vitynska, che aveva conosciuto qualche anno prima a Berlino e con cui da poco era tornato in contatto. Poi, alle 19.40, chiama Gennaro, avvisandolo che sta per partire, e si dirige verso la metro.
Sono istanti normali, che ognuno di noi ha vissuto, senza pensarci, migliaia di volte. Ci si prepara ad uscire di casa per incontrare un amico, per andare a cena insieme. Ci si fa una doccia, ci si veste, si guardano le email e si scrivono messaggi, magari intanto si ascolta un po’ di musica, si guardano le ultime notizie sui giornali online.
Ho cercato di ricordare dove fossi io, quel 25 gennaio del 2016, ma non ci sono riuscito.
Allora ho fatto una ricerca sulla mia casella di posta elettronica.
E ho scoperto che anch’io, come Giulio, sono uscito quella sera. Sono rientrato a casa dal calcetto verso le 20.40 e poi, alle 21.30, ho incontrato quella che allora era la mia ragazza, in un posto che si chiama Sandmann, a Berlino, un vecchio bar fumoso in Reuterstrasse 7, nel quartiere di Neukoelln.
Prima di uscire ci siamo scambiati un po’ di messaggi.
Li pubblico perché mettermi a fare questa ricerca mi ha fatto rendere conto in maniera ancora più profonda di quanto orribile sia stata la morte di Giulio Regeni e tutto ciò che ne è seguito dopo. Li pubblico perché mi hanno riportato a quel momento, a quel giorno, e mi hanno fatto sprofondare in un’angoscia necessaria, per non dimenticare.
Rileggerli mi ha messo i brividi, il freddo addosso.
Io non lo potevo sapere, cosa stava accadendo in quel momento a un ragazzo italiano di qualche anno più giovane di me, al Cairo. No, non lo potevo sapere.
Però mi sono accorto che in qualche maniera io e Giulio Regeni, per la sera di quel 25 gennaio 2016, abbiamo fatto dei programmi molto simili, delle azioni molto simili. Solo che mentre io, alle 21.30, bevevo vino rosso in un locale berlinese, Giulio, ormai da quasi due ore, era scomparso.
Pensateci, a dov’eravate voi quella notte, pensateci bene, ricostruite, e provate a capire in questo modo quanto sia importante continuare a lottare affinché tutti i dettagli, tutti i responsabili, di questa morte drammatica, di quest’assassinio barbaro, vengano alla luce.
Siamo ancora qui, a scrivere di Giulio Regeni e del suo omicidio, per mantenere viva la traccia di un accadimento che non dobbiamo e non possiamo permettere venga sciacquato via dal torrente del tempo. Perché sono passati quattro anni dalla morte di Giulio, mesi pieni di menzogne, occultamenti, nuove scoperte, intrecci politici ed economici, mesi che però, purtroppo, non ci hanno ancora consegnato la verità su quello che davvero successe quella notte e nei giorni successivi, sino al 3 febbraio del 2016, quando venne rinvenuto il suo cadavere.
Declan Walsh, caporedattore per il New York Times al Cairo, ricostruisce in un lungo articolo, nei minimi particolari, la storia di Giulio Regeni in Egitto. Walsh ripete molte informazioni di cui si era già in possesso, ma aggiunge anche alcuni, importanti, dettagli.
Ci conferma ad esempio, in maniera definitiva, che il coinquilino di Giulio, l’avvocato egiziano Mohamed El Sayad, permise ai servizi segreti egiziani, nelle settimane precedenti la sua scomparsa, di perquisire l’appartamento e la stanza di Regeni e che lo stesso El Sayad, come risulta dai tabulati telefonici, parlò successivamente altre due volte con gli ufficiali dell’Agenzia di Sicurezza Nazionale in Egitto. Ci dice poi che l’altra coinquilina di Giulio, l’insegnante di tedesco Juliane Schoki, si convinse, anche grazie ai sospetti confessati da El Sayad, che il giovane ragazzo italiano ucciso fosse una spia del Mossad.
Ci racconta, soprattutto, un’altra cosa, la più importante. Secondo la ricostruzione di Walsh, l’intelligence americana trasmise al governo italiano diverse informazioni che dimostravano il pieno coinvolgimento di funzionari dei servizi segreti egiziani nel rapimento e quindi nell’omicidio di Giulio Regeni.
Va detto che non viene specificato nell’articolo quando queste prove siano state consegnate all’Italia e dunque non è possibile fare una valutazione precisa circa l’importanza di quei documenti: non sappiamo a che punto fossero le indagini e quanto il governo italiano sapesse già. Inoltre, non siamo a conoscenza di quali informazioni si trattasse. Secondo quanto emerge dall’articolo di Walsh, parrebbero elementi molto importanti e che dimostrerebbero il coinvolgimento diretto del governo egiziano nella morte di Giulio Regeni.
Eppure, il governo italiano ha sempre smentito nettamente quanto dichiarato da Walsh, ricordando come “nei contatti tra amministrazione USA e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’omicidio di Regeni non furono mai trasmessi elementi di fatto”. Restano però a questo punto diverse cose da chiarire, soprattutto in quanto appare ormai definitivo come dietro la morte di Giulio ci sia la mano dei servizi segreti egiziani.
Ciò che va necessariamente compreso e per cui bisognerà continuare a dare battaglia, ostinatamente, riguarda la ragione per cui Giulio Regeni è stato torturato per giorni e poi ucciso.
Per questo, anche se doloroso, crediamo sia importante ricordare ancora una volta la maniera abominevole in cui un ragazzo di 28 anni, che stava andando ad una cena di compleanno insieme a degli amici, è stato distrutto, seviziato, massacrato da un gruppo di torturatori professionisti.
Secondo la relazione di 225 pagine stesa dopo l’autopsia svolta a Roma sul corpo di Giulio Regeni dai medici legali Vittorio Fineschi e Marcello Chiarotti, «Le lesioni sul corpo di Giulio sono state inflitte in tempi significativamente diversi, nell’arco di giorni ed è ipotizzabile che lo abbiano colpito con calci, pugni, bastoni, mazze, scaraventandolo ripetutamente contro muri o pavimenti. Alcune lesioni cutanee hanno caratteristiche che depongono per una differente epoca di produzione avendo un timing differenziato”.
L’esame autoptico italiano rivelerà un corpo martoriato. Cinque denti rotti, fratturate le due scapole, tutte le dita delle mani e dei piedi, l’omero destro, i polsi, entrambi i peroni. Ferite da coltello in tutto il corpo, bruciature di sigarette sulla schiena, sul petto, sulle gambe, sul viso. Delle lettere tracciate con un coltello, una “X” sulla mano sinistra, una “M” all’altezza dell’occhio destro, a lato del sopracciglio. L’esecuzione finale di Giulio arriva con una violenta torsione del collo, che gli viene spezzato.»
A quattro anni dalla sua scomparsa, i responsabili della sua uccisione non sono ancora stati assicurati alla giustizia, nel totale disinteresse delle istituzioni egiziane, apparse più inclini a rallentare, che ad accelerare, la risoluzione del caso: quello di Giulio Regeni appare sempre di più come un omicidio di Stato.
REDAZIONE
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