“C’è un prima e un dopo, dal tutto all’io. Sei in un gioco di squadra: prima è assoluta dedizione alla causa e concentrazione, poi, senza essere annunciata, l’epifania, la liberazione: la sfera che hai colpito una frazione di secondo prima supera per pochi centimetri le mani protese di un tuffo che è già disperato, perché è la cognizione della giocata decisiva, e poi rimani soltanto tu, dei ventidue giocatori, i due allenatori, i ragazzi delle panchine, gli arbitri, gli accompagnatori, i genitori sulle tribune, il sole di un pomeriggio domenicale, la totalità astronomica di cui facevi parte ti espelle e riappari sul campo, mentre il compagno sta scivolando a gran velocità sull’erba nella tua direzione; il suo urlo di gioia fa implodere la scena e accelera la percezione del tempo: tu che guardi la palla proiettata, con una perfezione geometrica, in rete. Arrivano di corsa e esultano gli altri compagni, che ti abbracciano; uno di loro ti afferra dalle gambe e ti porta in alto. Un minuto di interruzione, una festa nel gioco, la celebrazione del tuo movimento, della precisione, della determinazione, della capacità di trovarsi al posto giusto nel momento giusto: con un gesto d’istinto hai cambiato il corso della realtà”.
Il campo era in fondo alla strada dove abitava, la squadra quella del suo paese. Giorgio, all’inizio, voleva essere un portiere. Aveva nove anni e gli piaceva tuffarsi nell’aria e ricadere sulla terra, che fosse fango o dura come il marmo, assecondante le precipitazioni atmosferiche. Voleva mescolarsi alla chimica dell’ossigeno e del suo contrasto solido: volare, atterrare. Lo stadio, che adesso non c’è più, era un crocevia di ruggine e reti altissime, oscuri e umidi spogliatoi e tribune in grande stile, con gradinate di cemento che avrebbero ospitato un giorno, quello della promozione, centinaia di spettatori; o era soltanto una storia, raccontata da un vecchio preparatore dei portieri. Il panorama intorno era un’apparizione per il pubblico, quando alzava lo sguardo dai giocatori che lottavano su una palla a centrocampo: un incavo nel disegno di ulivi e isole antropomorfe della campagna toscana.
Perdevano di infinità di reti, come si confà a quegli anni senza mezze misure, ma una volta l’arbitro, lo prese da parte a fine gara e gli strinse la mano, erano complimenti sinceri. Forse è per quell’episodio che conserva ancora in una scatola i guanti, scorticati e per dita da bambino.
Ben presto, quando le squadre di due annate vennero accorpate, fu destinato irrimediabilmente alla panchina, ma senza reazioni emotive o dispiaceri duraturi, con una semplice accettazione di un ruolo di secondo piano, dietro al numero uno, il titolare che era un suo amico; oppure, che è lo stesso, nell’inconsapevole attesa di un evento che avrebbe mutato il corso della storia.
E la svolta non tardò. Aveva undici anni e il libero della squadra, un ruolo andato perduto come una specie di volatili solitari, nonché capitano, un bambino piuttosto antipatico a dire la verità, non si presentò all’ultimo ad una partita perché febbricitante. Giorgio sostiene semplicemente di aver risposto alla domanda dell’allenatore e all’indecisione dei compagni: “chi vuol giocare libero? Chi vuol fare il capitano?”.
“Io”. “Sei sicuro?”. “Sì, me la sento mister”.
Da quel momento fu il capitano e il libero per tutta la stagione, risultando uno dei migliori giocatori della squadra. La squadra non aveva ancora iniziato a vincere, ma lui era uno dei pochi a giocare con movimenti dotati di grazia calcistica. Un giorno l’allenatore lo prese in disparte, un pomeriggio che Giorgio ancora si ricorda, e gli disse che era bravo e che altri ragazzi che avevano un talento simile a lui, che aveva allenato, ora giocavano in squadre professionistiche.
A volte Giorgio mi racconta che il calcio gli ha salvato la vita. Lui dice che, nel calcio, hai la sensazione di essere interamente te stesso, più di quanto lo senti fuori dal campo, a partita finita.
A sedici anni non giocava in una squadra professionistica, ma era arrivato in una delle squadre più blasonate della città. Due campioni del mondo sono passati tra le sue fila e lo stadio era una coreografia di verdi alla partita di domenica mattina, con un manto d’erba da massima serie e lunghi abeti fuori dalle reti che annunciavano il parco intorno alla sede sportiva.
Per anni il bagaglio di ricordi di Giorgio ha attinto quasi esclusivamente alla sua storia con il calcio e, nei momenti di vuoto, mentre molti anni dopo non sapeva verso quale direzione dirigere le immagini interne in una palestra di una città straniera, era là che andava a ritrovarsi, come se dentro quelle borse sportive ci fosse più vita che in molte altre faccende della vita, all’apparenza più serie: i rapporti con i compagni e l’allenatore, lo scambio esuberante con la natura e con il mondo all’aperto, l’assoluta intensità della partita tanto attesa e preparata per una settimana, gli articoli sui giornali, i viaggi in macchina con il padre e il numero infinito di campi e cittadine visitate nelle trasferte.
Si ricorda a sedici anni, disteso sull’erba, sudato, a ridere con i compagni, esausto per l’ennesima ripetuta di corsa sui mille metri, nelle giornate di preparazione di metà agosto; è quasi tramonto e c’è nell’aria una presenza assoluta di sensazione, di passato, presente e futuro.
“Sei interamente te stesso perché non c’è il tempo di separare il pensiero dal movimento. L’azione, nella sua complessità sportiva, è sempre esito di un’inclinazione, mai di una decisione consapevole. Per questo ti ricordi così tanti particolari, perché sei presente a te stesso senza interruzioni”.
Penso che ognuno possa dirlo del proprio sport. Cercatene e trovatene uno, quello che fa per voi. È come una seconda vita, un racconto pieno di ricordi. Tutti i compagni o gli avversari che ho avuto potrebbero scrivere pagine di storie e emozioni
In quella stagione fu il migliore in campo in diverse occasioni, ma soprattutto nel primo scontro diretto per il titolo; la sua squadra vinse in trasferta per tre a uno. Anche quell’anno le cose non erano iniziate nel migliore dei modi; arrivato dalla campagna acquisti in sordina, a causa di una stagione precedente in cui non era riuscito a mettersi in luce in una squadra di medio-alta classifica, partì di nuovo molto indietro nelle gerarchie dell’allenatore, di cui sentiva la mancanza di fiducia. Ancora una volta, però, a decidere fu il campo: una sorta di motrice interna della realtà, che provoca le cose, le fa accadere, senza nessun altro intervento che la propria forza intrinseca. Entrò a partita in corso in due o tre occasioni e le sue prestazioni, tra avversari superati, assist e tiri, gli fecero guadagnare il posto da titolare, mezzala sinistra, e la stima dell’allenatore, ex calciatore professionista, che aveva la dote dei migliori mister: modellare lo schema tattico partendo dagli undici giocatori più forti di cui si dispone. La squadra vinse lo scontro diretto e lanciò la sua rincorsa verso la vittoria del campionato, che si sarebbe aggiudicata con due punti di margine sulla diretta rivale, senza aver perso in tutto il campionato. Nella partita Giorgio fece l’assist per il due a zero con un passaggio filtrante per il suo attaccante e giocò una delle migliori gare della stagione, su un campo dalle dimensioni ridotte e al limite della praticabilità a causa di fango e piogge.
Giorgio crede che sia il fatto di avere un ruolo, di sottostare a certe regole, che consente di sentirsi così libero. Libero di agire all’interno di un sistema di riferimento, che invece di imprigionarti, si rivela un amplificatore di potenzialità. Come su un palcoscenico di teatro, dove l’unico tuo compito è interpretare un ruolo.
Mi confessa poi che, pensando alla sua carriera lunga quindici anni, c’è un paradosso che è come una linea costante: ha giocato molte delle sue partite migliori nei campi in pessime condizioni. Sorride perché si accorge della contraddizione. Lui, giocatore esile, le cui doti principali non erano né il fisico, né la resistenza, né la cattiveria agonistica, ma tecnica e visione di gioco, si esaltava sui campi di terra e fango, pieni di acqua e al limite del giocabile. In quelle occasioni, ovviamente, non poteva dedicarsi a giocate di fino e doppi passi che sbilanciassero gli avversari, ma introiettava una grinta, una foga, una forza mentale e fisica che spesso gli difettavano negli altri incontri. Diventava un giocatore tecnico e determinato, dotato di fantasia ma anche agonisticamente cattivo, insomma si completava, diventava un giocatore vero. Peccato, ricorda Giorgio, che questa magia non durasse sempre. Spesso veniva accusato dall’allenatore di assentarsi, di sparire dal campo, come se non avesse davvero voglia di giocare e di lottare. Aveva bisogno di un pretesto esterno, naturale, meteorologico, per alzare le marce, per non pensare a risparmiarsi, per dare sul campo tutto se stesso.
“Nel calcio non ci sono mai rimpianti, né proiezioni sul futuro. Nella partita e negli allenamenti vivi un eterno presente. È come scoprire un se stesso più ampio. Anche un goal sbagliato, un tiro dall’area piccola che finisce alto, sai comunque che è la parte migliore di te a giocare e che fra una settimana sarai di nuovo lì, avrai di nuovo un’occasione”.
L’ultima stagione da calciatore fu una delle più entusiasmanti. Giorgio aveva ventiquattro anni, giocava trequartista, faceva caterve di goal e la squadra era prima in classifica. Mai come in quella stagione si sentiva integro e forte fisicamente. Aveva instaurato un grande rapporto in campo e fuori con la punta centrale, un montagna di novanta chili, tecnico e determinato a vincere ogni gara, ex giocatore di Serie D. Segnò dieci goal nelle prime quindici partite, fra cui una rete con un tiro da metà campo all’incrocio in uno degli scontri diretti: una parabola infinita che superò il portiere in tuffo disperato. A metà stagione fu segnalato come uno dei migliori giocatori della categoria. Grazie ad un’altra ottima prestazione, con rete e assist, la sua squadra aveva appena vinto un derby molto sentito e si preparava alla sfida con la rivale diretta per la promozione, che aveva gli stessi punti in classifica. Era la seconda giornata di ritorno e Giorgio scese in campo con il suo numero dieci sulle spalle, convinto come mai di essere decisivo; dopo pochi secondi dall’inizio della partita ricevette una passaggio da un compagno, si girò e superò di slancio un avversario che, per fermarlo, lo colpì con una spallata: il ritorno degli scarpini dall’aria al contatto con il terreno, con il fisico sbilanciato per quell’impatto improvviso, fu inaspettato e terribile, uno shock di dolore e urla. Aveva sentito torcersi sotto di sé, nel modo più innaturale, il suo ginocchio destro. Capì subito, la sensazione che qualcosa era finito. Si sorprese di riuscire ad appoggiare ancora il ginocchio, andando verso gli spogliatoi fra le braccia dell’accompagnatore. La diagnosi fu impietosa: rottura del legamento crociato del ginocchio destro. La sua stagione terminò con molti mesi di anticipo e anche la sua carriera, se non per qualche partita a calcetto fra amici.
Giorgio pensa che forse non sia stato un caso che abbia subito il più grave infortunio nella sua stagione migliore: forse voleva andare oltre i suoi limiti, forse non era paura di avere successo, di vincere, si è chiesto anche questo, ma solo un eccesso di desiderio, quando le cose vanno bene e senti di poter fare tutto. Ma allora rimane intatto quel viaggio fino al limite, come se quell’interruzione improvvisa, fosse l’unico esito possibile, come per un amore troppo grande, che non può che finire così, ma la cui fine è anche il gesto che lo dichiara superiore agli altri.
“Penso che ognuno possa dirlo del proprio sport. Cercatene e trovatene uno, quello che fa per voi. È come una seconda vita, un racconto pieno di ricordi. Tutti i compagni o gli avversari che ho avuto potrebbero scrivere pagine di storie e emozioni: una rete decisiva, un campionato vinto, un rapporto con un compagno o con un allenatore che all’inizio non ti considerava.
Per me è il calcio lo sport più bello. Perché è un gioco nella natura, nel mezzo di nevicate, piogge o sole; per la relazione con una sorta di secondo padre che è l’allenatore; per il rapporto con quella specie di fratelli che sono i compagni di squadra; per gli allenamenti che sono come uno studio fisico e mentale, due, tre volte alla settimana. Per l’intensità assoluta e religiosa della domenica; una settimana di preparazione per un’ora e mezzo di vita. Poi la tensione negli spogliatoi, la discesa in campo, lo scontro, la testa sotto l’acqua calda nella doccia. È il verdetto, delusione o soddisfazione, disperazione e esaltazione. L’attesa del responso della carta stampata”.
“Non ci sono recriminazioni per quello che poteva essere e non è stato, per i festeggiamenti della vittoria del campionato con le stampelle, perché non c’erano mai state neanche aspettative, o futuri prevedibili. Il fatto è che non c’è mai stata una scelta, questa è la libertà. La semplice accettazione dei propri fallimenti e delle vittorie. Perché il disegno alla fine vince sempre”.
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In copertina: A.C. Fiorentina 1969/70
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