Ci sono molte cose che non capisco. Una di queste è l’uso della maiuscola: in italiano solo per i nomi propri e Dio (nome proprio di Dio); in inglese anche per io (che come diceva una mia maestra, “tra io e dio c’è solo un d”); in tedesco per qualunque sostantivo (e quindi il caos). Mi è sempre sembrata del tutto aleatoria e inutile, da anni porto avanti una lotta insensata contro le maiuscole e i punti di fine paragrafo, anche se, costantemente, nella versione editata ricompaiono (ed avverrà anche questa volta, la ricomparsa ndr). Se scrivo “America” voglio decidere se dargli reverenza o meno, o a tutti o a Nessuno.
Nonostante questo, incredibile ma vero, decido di andare alla prima de La Damnation de Faust alla Staatsoper im Schiller Theater proprio per i nomi che sfoggia e la loro maiuscola rilevanza: regia del Terry Gilliam di Brazil, della Leggenda del Re pescatore, dei Monty Python; direttore d’orchestra Simon Rattle, uno dei più grandi, dicono; libretto di Hector Berliotz e Almire Gandonnière dal Faust I di Johann Wolfgang von Goethes nella traduzione di Gérard de Nerval. E già ho il capogiro. Ma soprattutto, che non passi inosservato in mezzo a tanti, perché il soggetto è appunto l’ormai esemplare figura di Johann Georg Faust, alchimista del ‘500 simbolo stesso della ricerca dell’oltre. Una figura capace di incarnare l’idea stessa di sapienza e di uomo al cospetto dei suoi limiti, di magnificare il potere della seduzione dell’infinito fino a riportarmi nelle succose viscere dell’Opera al nero della Marguerite Yourcenar (senza contare che, proprio per Marguerite e Faust, Michail Bulgakov chiama i suoi eroi il Maestro e Margherita). Insomma, gli ingredienti, almeno nominalmente, ci sono tutti.
In realtà non andavo all’Opera, con la maiuscola, da parecchi anni. L’ultima volta era stata un’Aida niente di che alle terme di Caracalla, o forse poi il Flauto Magico di Mozart per la regia di Peter Brook e quindi, come da lui teorizzato, volutamente senza orchestra e meno, diciamo, pomposamente operistico. Perché un limite dell’Opera, dice Brook, è appunto l’ingente quantità di cantanti, comparse, musicisti, scene, manodopera, soldi che necessita. Ma Brook, forse, è un rivoluzionario, perché venendo a teatro in questo sabato pomeriggio è chiaro come tutto ruoti proprio e solo intorno alla pomposità e allo sfarzo.
Vengo da una giornata campale in cui ho aiutato un amico a trasportare giù e su per le scale di due palazzi un pesantissimo enorme tavolo in ghisa, più precisamente un mastodontico macchinario anni ’50 da montaggio analogico per pellicola. Sono sfatto, sporco e puzzolente. Considerando pure che a Berlino sembra non aver mai fatto tanto caldo come oggi, porto degli inguardabili pantaloncini corti e sono in ciabatte. Mentre arriviamo all’Opera penso che in fondo è Berlino, che qui il casual è la norma, ma appena giro l’angolo capisco che mi sbaglio. Dame ingioiellate scendono da taxi e macchine con autista. Il gala che mi si presenta davanti fa a gara col pacchiano dei tappeti rossi di Hollywood. L’unico cambio che ho dietro è un pantalone che uso per lavoro abbondantemente macchiato di candeggina. Decido di restare in pantaloncini e ciabatte.
Una signora anziana, la più affascinante e in stile in realtà, porta un completo anni ’30 dai tessuti d’oro che sembra disegnato da Gustav Klimt, con tanto di scarpe, borsa e cappellino con piume vere, tutto visibilmente d’epoca. Resto esterrefatto con la bocca spalancata a fissarla. Oltre a lei vengono i veri mostri. Damine con tanto di sbuffo dietro al sedere stile ‘800 e pelliccia (con 30 gradi all’ombra), vecchi bicentenari immersi in acqua di colonia con papillon e fazzoletto al taschino abbinati su completo bianco a righe viola, fino al top del top del carnevale dell’orrido: una signora sulla novantina ha deciso di indossare un cortissimo completo bianco alla basic instinct, ma ci cammina dentro come piegata a metà, con movenze incartapecorite che ricordano il professor Farnsworth di Futurama (per scendere verso la platea è costretta ad aggrapparsi goffamente alle tende).
Tutto sa di vecchio cocktail party di nobiltà decaduta, e la decadenza raggiunge il suo apice per un evento che, in qualche modo, sembra non avere più senso di esistere. Qualcuno, certo, viene per la musica, anche se nulla parla direttamente all’uomo contemporaneo, se non nella pretesa di eccellenza. Non c’è nessuna tensione per lo spettacolo in programma, il vero evento è già lì, sulla passerella nel foyer. I più teneri sono i ragazzi e i bambini, palesemente vestiti a forza dai genitori in modi improbabili, che emanano senza malizia tutto il fuori luogo senza senso di questa messinscena. Una maschera mi chiede di posare lo zaino al guardaroba e, dopo un’occhiata al mio completo da straccione, aggiunge: “ist kostenlos” (è gratis) – pezzente.
“Berlin ist, wo man das Libretto liest” leggo arrivando su un cartellone della Deutsche Oper. Provo a sfogliarlo, ma è in un tedesco troppo forbito: dovrò fidarmi dell’istinto e improvvisare. Proiettato sul boccascena ci accoglie l’uomo di Vitruvio di Leonardo da Vinci. La saga dei nomi importanti continua. L’orchestra rumoreggia in preparativi, gli ultimissimi ritardatari sgattaiolano dentro, poi un lungo, lunghissimo silenzio di attesa. Un timido mezzo applauso accennato parte da un angolo della sala, ma nessuno lo segue: sembra una finta e invece era l’ingresso di Rattle, ma è sotto la platea e non si vede (dei minuscoli schermi lo proiettano in un video quasi invisibile ai lati della sala). Non avrà altri applausi. La formalità del gala inizia a perdere pezzi.
Lo spettacolo comincia con uno scoppio di fuoco d’artificio e la classica comparsa del diavolo attraverso il fumo. Tra il francese lirico cantato e i sovratitoli troppo piccoli, come previsto, non capisco quasi nulla, ma conosco più o meno i quadri e le scene, e mi godo l’Opera. La musica, le trovate, le luci, le scenografie e coreografie. Anche se tutto è un po’ fuori scala sul piccolo palco dello Schiller Theater, la pomposità, almeno nominalmente, c’è tutta. Come se ogni cosa fosse accennata, fatta per dare l’idea più che per avvenire veramente; per rappresentare quello che avrebbe potuto essere, ma non è.
Sfondi sognanti che ricordano anche troppo palesemente le vedute romantiche di Caspar David Friedrich si alternano a visioni costruttiviste del periodo nazista. Perché, in omaggio agli abitanti del luogo forse, Gilliam decide di riportare la storia al trentennio tedesco, dove Marguerite è una delle tante ebree messe alla gogna. Così svastiche nere su fondo rosso sono ovunque per quasi tutto lo spettacolo, assieme a gialle stelle di Davide e a candelabri a sette braccia. Tutto è come appiattito su questa versione, tralasciando purtroppo le derive filosofiche e magiche che il Faust, almeno nella mia immaginazione, poteva scaturire. Niente alchimia, niente ideali. E l’Opera si trasforma in un già noto film romantico americano su nazisti ed ebrei; di facile lettura per tutti.
Restano magnifici alcuni quadri, come i burattinai del mondo a spartirsi la torta e gran parte delle scene di massa. Su tutti trionfa però senza dubbio quello dei giovani atleti di razza ariana: il coro entra in scena in tutine aderenti e parrucche rigide bionde alla Ken di Barbie; canta contorcendosi in esercizi ginnici da gioventù in parata, in una dimostrazione grottesca dello spirito olimpico. Comico eppure quasi raccapricciante, è l’unico che mi ricorda che sono venuto a vedere una messinscena di Terry Gilliam. Perché in fondo è sempre così: come diceva proprio oggi a pranzo un mio amico, “nulla è brutto o buono in assoluto”, tutto dipende solo dalle nostre aspettative. E con tutti questi nomi, con tutte le possibilità maestose e scoppiettanti di un teatro dell’Opera, mi aspettavo forse effettivamente di essere stupito da qualcosa di meno classico, dove ci fosse più gusto nell’esplorare e lasciare aperte possibilità, invece di risolvere su un troppo facile buoni e cattivi. Così anche Méphistophélès, in realtà l’unico solista con qualche visibile dote d’attore, ai miei occhi sognanti è ridotto solo alla caricatura di un Benito Mussolini in canotta sporca di grasso, capace di divertire nel ruolo di domatore di circo, capocomico di una pagliacciata da massoneria satanica un po’ buffonesca, alla Amici miei atto III.
La scena si chiude sullo stesso uomo vitruviano di Leonardo, ma capovolto, e questo è tutto il senso. Qualche buuu accompagna gli applausi e l’empasse a rompere i cristalli del gala di lusso continua. L’orchestra che non si vede, i cantanti che non sanno dove andare e quando inchinarsi, che si guardano attorno sperduti, con una manina da direttore di scena che compare goffamente dalle quinte a indicare cosa devono fare. Applausi applausi e applausi per infinite comparse e maestranze di un gioco teatrale da grandi numeri, bello come un circo voluttuoso e dorato. Perché la differenza tra i bambini e gli adulti è solo che i giocattoli dei secondi sono molto, ma molto più costosi.
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