Dopo sei ore di viaggio su un Flixbus partito dalla Masurenallee di Berlino alle sei del mattino, l’autista fa un annuncio in tedesco di cui capisco solo Kassel e Auf wiedersehen: siamo arrivati nella terra di documenta, quinquennale d’arte, vanto della Germania da ben sessantadue anni, in quattordici edizioni.
Punto il naso sul vetro, riconosco il Museum Fridericianum sulla destra, il Partenone di libri in costruzione dell’artista argentina Marta Minujín, i sacchi di juta del ghanese Ibrahim Mahama che ricoprono due palazzetti sulla strada, alla Christo. So che è lui perché ricordo che alla scorsa Biennale di Venezia (2015), quegli stessi rettangoli marroncini cuciti assieme tappezzavano il corridoio esterno dell’Arsenale.
Giù dal pullman mi sgranchisco le gambe facendo una passeggiata fino all’Airbnb della Signora Britta, in una zona basicamente residenziale, a ovest del quartiere Mitte. Il grigiore e l’odore di pioggia si addicono a questa città e le case ben curate sanno tanto di Germania e poco di Berlino. Il centro è una zona prevalentemente commerciale, con diverse Bäckerei e manichini alla moda. Arnold Bode, il fondatore della prima documenta (1955), promuoveva l’idea del site specific. Era convinto che l’opera d’arte debba accogliere le esigenze del luogo che la ospita, stipulando un compromesso che permetta un reciproco nutrimento, perché la relazione tra lo spazio e l’oggetto è stata in fondo l’inizio dell’arte (Bode, 1964). Kassel venne scelta come punto di partenza di questa manifestazione che ai suoi inizi prevedeva di riportare in auge l’arte degli anni Venti bollata come degenerata dai nazisti. Di cosa si sarebbero cibate le opere d’arte secondo Bode? Nel 1955 la guerra era da poco finita e Kassel era stata pesantemente bombardata. Il Museum Fridericianum, la prima struttura di riferimento di documenta, era un cumulo di macerie. Bode si vide camminare su quelle rovine e ipotizzò un’idea di museo temporaneo, totalmente anticonvenzionale rispetto ai musei veri e propri, che considerava una specie di aspirapolvere della cultura, sepolcri delle opere d’arte. Se di questo stesso adattamento dell’opera al luogo che la ospita si ha ancora sentore, è quasi comico che una delle sedi della documenta 2017 sia il Museum für Sepulkralkultur, il museo della cultura sepolcrale. Un’inversione terminologica che non beneficia della proprietà commutativa.
I padiglioni sono in tutto una trentina, raccolti complessivamente intorno al Mitte, con qualche sporadico allungamento verso nord o verso ovest, fino ai paraggi del tempio erculeo.
Il tema scelto dal curatore polacco Adam Szymczyk, Learning from Athens, dovrebbe essere il filo conduttore di queste sedi. Dovrebbe, ecco, ma non credo si possa dire sia facilmente riscontrabile effettivamente in loco. Dal sito fortunatamente si ricava qualche dettaglio in più, soprattutto sugli artisti selezionati e sull’argomento scelto. Learning from Athens prevede, per la prima volta nella storia di documenta, una scissione in duplice sede, Kassel (10.06 – 17.09) e Atene (08.04 – 16.07). Si è cercato di dare risonanza alla capitale greca in un momento di difficoltà economica e politica, evidenziando il contributo che la Grecia può apportare al mondo artistico contemporaneo. In un video proposto dalla compagnia di informazione tedesca Deutsche Welle (DW) sul versante mediterraneo di documenta, si percepiscono punti di vista contrastanti sull’effettiva utilità di questa seconda manifestazione artistica. C’è chi ne esalta la buona riuscita, tra partecipanti e curatori indipendenti, c’è chi invece storce il naso di fronte a un’invasione troppo occidentale.
La retrospettiva all’interno del Fridericianum, Antidorn, espone una selezione di opere della collezione dell’EMST, il National Museum of Contemporary Art di Atene, e i nomi degli artisti greci che compaiono a Kassel sono sicuramente di più di quanti sarebbero stati se non si fosse proposto questo prestito.
Ma non convince l’organizzazione degli spazi, discutibile da un punto di vista fruitivo: il pubblico non è accompagnato adeguatamente nel percorso espositivo e non c’è cura nella mediazione del tema più che nella mediazione dell’opera in sé.
Alcuni dei luoghi assegnati alla documenta sono interessanti – ex stazioni della metropolitana, magazzini delle poste, sotterranei del Fridericianum, fabbriche in disuso – tipologie di spazi che, ultimamente, sono stati associati spontaneamente e con buoni risultati all’arte contemporanea, proprio in virtù del concetto di site specific che Bode già auspicava più di mezzo secolo fa. Eppure le opere presentate in questi contesti non riescono a raggiungere un effetto accattivante, restando scialbe e vagamente abbandonate a se stesse.
Sentendomi anch’io, come visitatrice, un po’ abbandonata a me stessa, mi costruisco un percorso più intimo tra questi padiglioni, ricavando ciò che posso attraverso i cinque sensi, riconnettendomi a uno scopo estetico che travalichi il tema scelto.
Entro nella Ehemaliger Unterirdischer Bahnhof. Luci basse e calde, binari del treno, rimbombi di passi e suoni di installazioni. Mi è sempre piaciuta l’idea di camminare sulle rotaie. Vago sui ciottoli tra le traversine per fare più rumore, risalgo sulla banchina e calpesto le pietruzze scure davanti agli schermi di The Course of Empire di Michel Auder. Cerco di fare passi pesanti, ho voglia di infastidire chi mi circonda. Mi ricordo di quando due anni fa spostavo con la punta delle scarpe le faccine metalliche dell’installazione di Menashe Kadishman al Jüdisches Museum di Berlino, mi ricordo la puzza in una specie di stalla buia in cui si svolgeva la performance di Tania Brugeira a Venezia nel 2015. L’odore è sempre forte, ma diverso: qui proviene da un capannino montato per il lavoro di Nikhil Chopra, e dalla sua apertura fuoriesce una folata di alito alcolizzato.
Scivolo nelle fauci della Neu Neu Galerie, nell’ufficio postale centrale. Odora di contemporaneo: porte scorrevoli, assenza di intonaco, pavimenti fatti per essere sporcati. La tenda di teschi di renna di Máret Ánnet Sara, con l’arcata dentale prevalentemente intatta, mi fa riflettere sul fatto che ad alcuni scandali artistici sono ormai abituata. Non provo disgusto. Era stata decisamente peggio l’installazione del Padiglione della Macedonia alla Biennale del 2013: una lunga passeggiata tra manti di piccoli topini bianchi che conservavano ancora testa, occhi, zampe e coda, ma, aperti, erano stati deprivati degli organi interni e spalmati sulle due dimensioni.
Dell’Heissisches Landesmuseum apprezzo che il visitatore sia abilitato al confronto tra l’arte della documenta e la collezione del museo stesso. A passo lento tra la documentazione preistorica di piccole punte levigate a mano e il design delle cucine anni ’60, rimango incantata da un occhio che ricorda la scuola ferrarese di metà Quattrocento: un santino dolente si riacchiappa a fatica dallo sfondo oro dei due pannelli tratti dall’altare dell’abbazia di Bad Hersfeld del 1480 circa.
Al piano terra una quindicina di Untitled di Ganesh Haloi sono appesi in cornici di legno chiaro su pareti di un grigio sobrio. Sui cartellini è scritto che sono del 2016, ma non mi stupirei se venisse fuori che i cartellini siano postdatati.
Stadtmuseum, tre piani di scale, mi pare. In una camera quadrata chiusa da una porta antipanico ci sono quattro fucili, uno ad ogni angolo. Un foglio all’ingresso fornisce delle istruzioni. Si può scegliere di essere carnefici o vittime, di abbracciare il grilletto con l’indice o di piazzarsi immobili dall’altro capo del mirino. Un ragazzo col berretto si posiziona in modo che io gli spari addosso. Chiudo l’occhio sinistro per inquadrarlo bene, ma mi sento a disagio e mi stacco poco dopo senza aver sfiorato l’arma. Cambio ruolo, mi piazzo davanti alla canna che punta sul mio cuore. Una prima ragazza ripete il mio copione: fa l’occhiolino e si ritrae. Una seconda appena si accorge di una presenza umana davanti al suo fucile si tira indietro di scatto. Il terzo è il ragazzo di prima, che mi ricambia il favore, e mi sorride. Forse stiamo pensando la stessa cosa: in questa specie di gioco che si intitola El objectivo di Regina José Galindo, la vittima e il carnefice si scambiano le proprie paure, e tra i due è il secondo che prova timore, imbarazzo, malessere, all’idea di poter decidere sulla vita e sulla morte di un altro essere umano.
Al Palais Bellevue finalmente ho il tempo di guardare per intero una delle opere di videoarte in mostra. The Dust Channel, Roee Rosen, 2016, 23 minuti. La sala ha diverse poltroncine e un mucchietto di gente è seduta anche per terra. I protagonisti di un’operetta in russo sono una coppia di israeliani insofferenti allo sporco che conducono un ménage à trois con un aspirapolvere e la loro casa è invasa di metaforiche allusioni incarnate da domestici che spolverano e lavano senza sosta, in modo sensuale. I canali televisivi alternano immagini dei sabbiosi campi profughi a tecniche di pulizia che rendano efficace l’eliminazione della sporcizia, in un continuo rimando politico-sessuale. I profughi sono lo sporco che va eliminato, ma il messaggio che trapela è più sottile: è lo sporco che fa il mercato della pulizia.
Mi alzo dalla sedia soddisfatta.
Ho girato complessivamente quasi tutti i luoghi designati per documenta in due giorni. Forse non è proprio come me l’aspettavo, probabilmente la immaginavo più stimolante di come si è rivelata. Ci rimugino su tornando verso l’Airbnb della Signora Britta. Entro nella mia stanza: una tigre bianca di peluche è spaparanzata per terra a mo’ di tappeto; è un po’ come i topini macedoni, trash e inquietante, praticamente sublime.
Mi rilasso sul letto e penso che non è concesso a tutti di addormentarsi in un padiglione della documenta qui a Kassel.
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Immagine di copertina: © Liz Eve, 2017 – Lost and Found, Susan Hiller
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