C’era il sole e faceva caldo e passeggiare sui marciapiedi in mezzo alla gente, non troppa, è stato quasi piacevole. Quasi: quando vado a visitare i luoghi dell’arte ho sempre la sensazione di dover essere in guardia, più di quando cammino per strada in mezzo a sconosciuti. A rigor di logica, essendo tutti mossi da un interesse comune, dovremmo essere spinti con maggiore trasporto gli uni verso gli altri in queste circostanze. Eppure c’è sempre quel garbuglio all’imbocco dello stomaco che crea una diffidenza felina, altezzosa, competitiva. Ci si osserva vicendevolmente, forse si è più attratti dagli altri che non dalle opere esposte. Si spia quello che diventa un vero e proprio avversario in una sorta di battaglia tutti contro tutti: solo in rari casi si firma l’armistizio con un sorriso, tra quelli che sfiorandosi per errore o incrociando gli sguardi ritrovano l’empatia umana; ad altri resta il terrore del contagio e rizzano il pelo.
Forse capita perché l’arte contemporanea intimorisce, mette in crisi lo spettatore indipendentemente da quanto sia istruito. Tutta la libertà nella quale l’arte di oggi dice di sguazzare ritorna a chi la osserva con l’estremo imbarazzo dello spaesamento e la conseguente limitazione nel non sapere bene cosa bisogna sentire e come esprimerlo.
Probabilmente nei musei o nelle gallerie pubbliche, essendo luoghi educativi e attrezzati per la divulgazione dell’informazione storico artistica, grava di meno ammettere la propria ignoranza: sono posti dove si va per imparare. Ma nelle gallerie legate al mercato, che nascono con tutt’altro scopo, che presuppongono una conoscenza più ampia della materia, la vergogna è il sentimento che prevale, credo, anche in quelli che si muovono manifestando troppa sicurezza per non essere studiata.
Il Gallery Weekend berlinese, appena conclusa, è il fine settimana in cui i galleristi di Kreuzberg, Charlottenburg e Mitte, una volta all’anno, aprono le porte ad un pubblico più differenziato di quello che, solitamente, i prezzi dell’arte possono concedere. Avessi avuto una macchina fotografica con me, la maggior parte delle foto le avrei scattate ai piedi dei miei compagni di sopralluogo di queste gallerie berlinesi. C’erano tantissime scarpe, alcune davvero brutte, ma di una bruttezza che è quasi piacevole da osservare. Quelle che ricordo meglio assomigliavano a calzature alla Luigi XIV, ma nere e chiuse dietro da un laccetto, in modo da poter dare risalto al calzino squillante, all’altezza del tallone. Poi, certo, c’erano anche maglioncini rosa le cui maniche sconfinavano su braccia di identico colore; capelli neri e lucidi estremamente curati e abbinati a rossetti forti dai contorni impeccabili; c’erano giacche di velluto blu con bastoni da passeggio, e completi arancio arricchiti da cappelli stravaganti; ventenni dagli occhi celesti con raffinatissimi pantaloni grigi e camicie bianche, una mano in tasca e in bocca parole la cui provenienza mi rende perplessa. Non per la lingua, la lingua dell’arte è molto chiara: l’inglese. Il mercato dell’arte è internazionale, deve esserlo anche la sua lingua, che tutti parlano con grande spigliatezza. Ma che si dicono queste persone? Forse si raccontano dei vantaggiosi acquisti compiuti o di quanto il colore usato da quell’artista che chiamano per nome abbia influenzato indiscutibilmente quell’altro che fa storcere il naso. Chiacchierano fluentemente e ad alta voce, con grande conforto e allegria e mi sembra tutto molto eccentrico: siamo sicuri che io possa stare qui?
Le gallerie finalizzate alla vendita di opere d’arte sono circuiti solitamente chiusi, autoalimentati. Le manifestazioni come il Gallery Weekend fanno sì che un comune mortale in jeans e maglietta dei Metallica possa accedere a questi ambienti elitari senza essere tenuto d’occhio come un ladro o, peggio, come uno spiantato. Mi è capitato, fuori da eventi straordinari di questo genere, di entrare in una galleria e di essere sola in quello spazio con una signora a pesare col bilancino la quantità di ossigeno che stavo sottraendo ai polmoni di qualche cliente più facoltoso. Nell’incurvatura del suo sopracciglio beffardo si nascondeva un’affermazione molto precisa: tanto lo so che da te non ci ricavo nulla. Aveva ragione, si vedeva lontano un miglio che da me non avrebbe ottenuto i sedicimila euro che indicava il cartellino accanto alla gigantografia che mi piaceva moltissimo. Dal mio canto, il mio obiettivo non era possedere quell’opera, ma farne esperienza nel tempo necessario a farla sedimentare nella mia memoria. Gli angoli pendenti della bocca della gallerista non creavano però esattamente quella sensazione di conforto nella quale avrei voluto sentirmi libera di viaggiare insieme alle opere che lei esponeva e della cui fruizione si rendeva tramite; forse non si identificava in quel ruolo di mediatrice che io le avevo attribuito.
In questa tipologia di gallerie non vale la regola degli edifici statali per cui “ciò che è mio è tuo”. L’arte diventa più pesantemente legata ad una questione di possesso, e così, quando non si è compratori, ci si sente fuori contesto. Stabilita una confidenza per la quale si è accettati e al sicuro, condizione che eventi come il Gallery Weekend forniscono, creata cioè una zona di conforto che non inneschi la domanda “siamo sicuri che io possa stare qui?”, anche i luoghi del mercato dell’arte, come gallerie o fiere, possono diventare di contemplazione. Il qui ed ora di questa contemplazione non può che dipendere da un’infinità di varianti. Siamo influenzati dalla combinazione di luce naturale e artificiale, dal colore delle pareti, dalla quantità di persone nella stanza, dalla forma e dalle dimensioni dello spazio, dalla presenza o dall’assenza di rumori, dal profumo della gente che è con noi in quel momento e dall’odore della galleria stessa o da quello dei materiali delle opere. Di certo, come ho avuto modo di osservare in questo fine settimana, molto si subisce l’effetto della scelta espositiva: in una piccola stanza tutta intonacata di bianco, ad esempio, su quattro pareti disponibili, ne era stata scelta solo una che ospitasse un quadro dalle dimensioni per giunta minime, intorno ai venti per trenta centimetri. Rappresentava il braccio di un manichino blu. Potrei dare diversi dettagli di questo quadro, a partire dal suo gioco di articolazioni e fratture, e questo mi è possibile perché la concentrazione si focalizzava lì, difficilmente poteva soffermarsi altrettanto a lungo su una crepa o sul battiscopa, unici altri elementi di rilievo in quella stanza. Ma non posso fare le stesse attente considerazioni per l’esperienza ricavata da un’altra galleria che, intimorita dall’horror vacui, esponeva le stampe accostandole senza un preciso criterio, e senza dare particolare rilievo all’una o all’altra.
Certo è che le nostre personali variabili contribuiscono in modo decisivo a fornire una precisa direzione estetica. Qualcuno, sicuramente, potrebbe avere avuto reazioni opposte alle mie nelle due situazioni citate, e sentirsi più appagato dal miscuglio vivace di colori della seconda galleria che dal minimalismo della prima.
Più genericamente altre personali caratteristiche completano l’individualità dell’esperienza. Quelle fisiche, come l’altezza ad esempio, ci forniscono una prospettiva piuttosto che un’altra. Ci sono poi le interferenze del nostro vissuto, di ciò che riconosciamo come familiare e di ciò che ci è invece estraneo. Siamo in qualche modo vittime del nostro temperamento e del nostro umore, che indirizzano inevitabilmente il nostro sguardo, nello stesso modo in cui un cane fiuta la traccia che sta seguendo.
L’insieme di tutte queste caratteristiche è parte dell’esperienza estetica, per quanto possa rimanere la sensazione di aver creato una relazione con una determinata opera al di là del suo contesto.
In questi tre giorni, in cui mi sono a lungo chiesta cosa sperassi di trovare girando per queste gallerie (tante, troppe e troppo dislocate per completare la lista) non riuscivo a non essere fagocitata dall’ansia di dover vedere tutto, per fare esperienza di tutto, per non tralasciare qualcosa di importante. Finito il tempo che avevo a disposizione, mi sono resa conto che non importava il tutto, ma, di nuovo, il qui ed ora: guardavo un uomo, che guardava suo figlio di appena due anni, che a sua volta guardava una fiera imbalsamata dal muso aggressivo al centro di una sala.
Tutti eravamo interessati alle reazioni di qualcun altro in questa catena osservativa, e spontaneamente si era creato una sorta di happening, una nostra piccola forma d’arte, fisicamente all’interno della galleria, allo stesso tempo fuori da ogni contesto. La speranza è che l’arte pur dipendendo dalle istituzioni che la gestiscono o dalle strutture che ne stabiliscono un valore, riesca sempre, bene o male, a scavalcare questi confini, raggiungendo lo spettatore che ne faccia richiesta. Si può tentare un esperimento: entrare in una galleria di questo circuito ora che l’apertura straordinaria è terminata, e, senza troppo badare agli sguardi indiscreti di alcuni galleristi – non certo di tutti – vedere cosa succede.
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