È morto da poco
Mi avvicino in punta di piedi, ma non mi tolgo le scarpe
Resto sulla soglia, incerto se entrare
Osservo. Ascolto
Oggi ho capito cosa devo fare nella vita: il preveggente. Regalatemi una palla di vetro per il prossimo compleanno. Li riconosco da come scendono dal vagone della metro e posso dirlo con certezza: quei tre vengono a teatro. Sono con la mia compagna, scommettiamo. Vinco. Non so perché, ma mi era chiaro. Stanotte poi ho fatto un sogno in cui avevo in mano una penna che mi si muoveva da sola tra le dita, e prevedeva agli altri il futuro: uno strano sogno.
Sarà che il biglietto costa fino a 33 euro per uno spettacolo, e questo spettacolo è una trilogia che prevede il pagamento di tre biglietti uno dopo l’altro = 99 euro, che fa sì meno colpo d’occhio di 100, ma sicuramente non è un teatro per le masse o per i giovani squattrinati. Sarà anche che allo Schaubühne, nel bell’edificio modernista di Erich Meldensohn, c’è il FFFIIINNNDDD Festival Internationale Neue Dramatik dal sinistroide e sinistro titolo “Demokratie und Tragödie”. O saranno forse le borse di tela, a fare così tanto radical. Sarà che sono prevenuto, o preveggente.
Trilogia o meglio maratona, perché i tre spettacoli si possono vedere di fila, uno dopo l’altro: dalle 14 per un paio d’ore, poi dalle 16.45 per un altro paio d’ore, poi dalle 20.30 per le ultime due ore. Il titolo. The Gabriels: Election Year in the Life of one Family. Part 1, 2 & 3. Part 1: Hungry »Like most other humans, I am hungry« M.F.K. Fisher; Part 2: What did you expect? »You cease to suffer, you cease to hope« Harley Granville Barker; Part 3: Women of a Certain Age »… and something went – wiggle-wiggle« Anton Chekhov
Appena arrivo un’orda di ragazzetti con cartellino al collo si riversa fuori dal teatro: c’era evidentemente una conferenza all’interno del festival. Li guardo, così giovani, giovanissimi, poi li osservo meglio: parlano di temi rilevanti in modo irrilevante, con passione, sarcasmo, perseveranza, e mi accorgo che sono studenti universitari proprio come eravamo noi. Mi sento improvvisamente immensamente vecchio. Alla biglietteria una ragazza disperata chiede a ogni signora che passa se può rivenderle dei biglietti, ne ha presi 6 e i suoi amici non sono venuti. Cinque biglietti, cinquecento euro; ops, no, è vero: 495. Disperata i suoi occhi mi guardano in cerca di conforto, mentre fuma una sigaretta dopo l’altra.
Mi avvicino in punta di piedi, ma non mi tolgo le scarpe
È stata una cerimonia molto bella, una cosa semplice
Non mi sento di troppo, posso restare
Tra poco si preparerà la cena, chiedo di dare una mano
Si tagliano verdure, si chiacchiera come in famiglia
Inizio a togliermi le scarpe
La platea è stata ricavata sul palco del teatro: circonda la scena su tre lati. Mobilio domestico, tutto in legno eccetto i vecchi elettrodomestici (fornelli, forno e frigorifero: oggetti datati e ingialliti dal tempo). Morbido, caldo. Solo un i-pod con le sue casse poggiato sul tavolo dello studio ci fa capire che siamo qui, oggi. Una leggera musichetta pop americana di cui ci si chiede il perché (le canzoni, dei Lucius, sono Wildewoman, Don’t Just Sit There, Until We Get There) ci accoglie e tiene compagnia finché non entrano gli attori, prima una, poi gli altri, portando gli oggetti di scena e sistemandoli. Si tirano giù le sedie dal tavolo, si mettono le foto sul frigo, i piatti nel lavello, i libri al loro posto. La casa prende vita e le sue parti acquistano spessore, una loro storia. Si spengono le luci e come un film, si è già dentro la conversazione. Il gioco più difficile: fingere le pareti. Tutto si svolge attorno ad un tavolo di cucina, dove l’umanità si fa culturale e cultuale. I sapori, the way it was, e il succo sta nelle piccole cose: attorno ad un capello ritrovato in una borsa ruota tutto il significato di una relazione, dei trascorsi, delle intimità. Semplice.
Incredibile ce lo debbano far assaporare così, in un gran teatro, a 99 euro. Inaudito che tutto questo poetico inafferrabile delle semplici cose di tutti i giorni, quelle che rendono l’uomo ciò che è, con le risate e i riti e le storie, debba essere venduto alle dame impellicciate e ingioiellate del pubblico, come fosse qualcosa da ritrovare qui, al buio di quattro mura; come non si potesse più vivere, ma solo ricordare. Il modo di tagliare le verdure, di cucinarle, di leggere un libro, di sedersi. La sedia preferita, come pulisco i funghi, su quello stesso tavolo, in quella stessa cucina e casa dove mi ricordo quando da piccolo noi.. Tutto.
Una cittadina a nord di NY, dove chi viene dalla città non riconosce e non capisce. Una bibbia, un libro sacro di famiglia, snocciolato attraverso le tradizioni, gli usi, gli odori e i vissuti assieme, riversato in un libro di cucina, dove c’è molto più delle ricette.
E dopo un paio d’ore vorresti abbracciarli tutti
Con le loro sofferenze, debolezze e con i loro bei coraggi
Che a vivere nel mondo d’oggi, ad essere persone normali
Belle persone, con cui è un piacere parlare
Bisogna avere i peli sullo stomaco
Cinque attrici e un attore; i volti americani; una famiglia americana. E’ appena stato il funerale di uno dei fratelli, drammaturgo, affetto d’Alzheimer (sulle note di certe canzoni però, ad esempio dei Lucius, riusciva a camminare bene). In scena, nella loro cucina, la moglie, l’ex moglie, un fratello con sua moglie, una sorella e, verso la fine della prima parte, la madre. La casa in cui sono cresciuti. Da un’altra stanza arriva il suono di un pianoforte: quello su cui tutti in quella famiglia hanno imparato a suonare. I legami, i nascosti, il rispolverare tra i libri e le carte di tutti quei ricordi comuni di due mogli e una famiglia. Le telefonate o non telefonate dei figli. Il contatto fisico di chi ti conosce da sempre per quello che sei. E ci si mette in pantofole.
Nelle pause tra uno spettacolo e l’altro andiamo a smangiucchiare qualcosa (ci siamo portati la schiscetta da casa, da bravi maratoneti teatrali). Sarà che siamo in Germania, sarà che io e la mia compagna siamo italiani e molto rumorosi nel giocare, nello scherzare, nell’usare i nostri corpi per scambiarci affetto e ballare e farci il solletico, anche in platea. Sarà, e forse hanno ragione ad indignarsi o guardarci storto, ma non è proprio quello che stiamo guardando? M’impressiono, di nuovo, per la scissione netta, alienata e lobotomizzata, tra l’applaudire un contatto e un’umanità in scena, ed essere tutt’altro, misurati ed esteriori, nella vita. Io sono per strada come a casa: in ciabatte, vero e aperto, come in famiglia. Guardo le persone negli occhi, a volte mi rispondono, a volte con piacere. Una signora seduta davanti a noi si gira più volte, ci sorride, poi si volta verso il marito, seduto due file più dietro: ha un posto libero accanto, vorrebbe che lui si spostasse vicino a lei, magari avere una mano attorno ai fianchi. Sarà che sono tedeschi, sarà che sono sposati da troppo. Il marito resta dov’è.
All’inizio del terzo spettacolo, dopo neanche dieci minuti, qualcuno lascia la sala interrompendo con un “buona notte e dormite bene”: forse non era stato qui per il primo e poi il secondo spettacolo, o almeno non tanto da poter entrare nella vita dei Gabriels, diventarne parte a sufficienza, da interessarsi a ogni minimo inutile racconto di famiglia. Eppure, se forse, preso da solo, uno dei secondi due spettacoli non basta, resta questa sensazione intima, di tempi normali, come fosse un reality a teatro. Restano le coccole che ci fanno le cose di un tempo: i fazzoletti di stoffa ricamati a mano, le foto ingiallite di vecchie città o di persone d’altre età a fare cose quotidiane, come ramazzare a terra con una scopa, o scrivere una lettera, o leggere un libro. Quelle storie semplici, di vite vere, che fanno piangere perché ci si ritrova di colpo, tramite il diverso, dentro il proprio vissuto, e ci si vede da fuori.
Si dice che nelle vecchie case americane si tirassero tende nere sui ritratti e sui paesaggi, così che i morti non venissero distratti dall’andare via. Altrove si mangia e balla ai funerali, talvolta si ride e si scherza ricordando il morto. In un anno di tempo, se un anno basta, i Gabriels accompagnano il morto, rendono merito alla dipartita, compiono quel gesto di scambio che permette di accettare la morte. E quello che ne vien fuori è un canto alla vita.
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