Premessa
Le profezie: capitalismo, tecnologia, essere umano
Le profezie si stanno avverando? Internet, e soprattutto i social media, sono diventati un Grande Fratello da un lato e una distrazione compulsiva continua, l’intrattenimento senza via d’uscita di “Infinite Jest”, dall’altro. Perché chi è in anticipo sui tempi, per sensibilità privata e per la collettività, sconta sulla propria pelle le distorsioni del futuro. Wallace voleva scrivere un romanzo sull’infelicità, ma è la combinazione di queste due profezie che non era stata ancora preannunciata. È il risultato del capitalismo digitale che domina lo sviluppo tecnologico che, a sua volta, pervade interamente la vita delle persone.
I target: le categorie più deboli, adolescenti e millennials
Per chi si stanno avverando le profezie? Chi sono i target più facili? Le categorie più deboli e instabili. Gli adolescenti stanno attraversando una delle peggiori crisi mentali della loro storia, denunciano sempre più psicologi e educatori: escono poco di casa, vedono raramente gli amici, hanno sempre meno esperienze sessuali; in compenso crescono vertiginosamente i tassi di suicidio, ansia e depressione. Anche per i millennials, i giovani fino a 35 anni, le percentuali di ansia e depressione sono in continuo aumento, tanto che non si parla più di disturbi clinici, individuali e biografici, ma di patologie generazionali. Numerosi studi psicologici e medici stanno confermando la relazione tra disagio mentale, internet e in particolare i social media.
Il meccanismo: il “guadagno reciproco” del business digitale e dell’ansia dell’essere umano per il controllo
Come funziona il triangolo capitalismo-tecnologia-essere umano? Il meccanismo è questo: attratti dal richiamo di esperienze tanto innovative (tecnologia) quanto apparentemente personali (consumismo) ci consegniamo nelle mani di monopoli che ci controllano e ci inseriscono in un circuito di dipendenza, perché questa è la migliore garanzia di un “guadagno” reciproco. Da una parte c’è l’economia dell’attenzione del business digitale che basa il profitto sul tempo passato online dagli utenti, dall’altra un “sogno antropologico illusorio” dell’essere umano, il suo “mito del controllo” da esercitare sulla propria vita in maniera più estesa possibile. Questo consiste nella creazione di esperienze “soddisfacenti” ma autoreferenziali e disincarnate, ovvero senza un confronto reale con il mondo esterno, senza un vero limite. Ci si illude di poter fare esperienze appaganti mantenendo il desiderio-sotto-controllo, ovvero espellendo le dimensioni che possono portare ad una frustrazione.
Introduzione I
Perché un long-form sui social media: dal sovraccarico informativo ad una reale consapevolezza?
Tutte le informazioni che leggiamo online ci lasciano per lo più indifferenti. Scorriamo le notizie per intrattenerci, non per capire qualcosa. Possiamo ancora leggere qualcosa su internet che inneschi una riflessione? Possiamo immedesimarci in una storia digitale? Il destino vira verso un’indifferenza generale rimescolando tutti i contenuti, dai video di animali divertenti a quelli delle esplosioni su Gaza, dalla denuncia che equipara i social media alle slot machine alle foto delle wags dei calciatori, nel grande calderone di un unico indifferenziato intrattenimento sempre uguale a se stesso.
Si sostiene da tempo che i social media starebbero compromettendo un’intera generazione, quella degli adolescenti, e provocando un’epidemia di ansia e depressione anche fra i millennials. Leggiamo articoli sugli effetti dannosi della connessione a Facebook, Instagram, Snapchat, Youtube, il cui utilizzo viene equiparato ad una dipendenza da stupefacenti. Tutto questo però non sembra riguardarci.
Dietro il paravento della fruizione di contenuti digitali, la realtà è infatti soprattutto quella di comportamenti compulsivi di distrazione, di riempimento di ogni spazio libero, che rende anche la maggior parte delle esperienze informative online pseudo-esperienze, perché, fin da subito, non è il significato specifico di un video, di una notizia, di un post, a interessarci, ma la sua funzione di distrazione. I media digitali spacciano una nuova droga, eventi sospensivi dei momenti di vuoto e dei propri stati emotivi. I social media spacciano la stessa droga e lo fanno con meccanismi più attraenti e aggressivi.
Sui media digitali il lettore non si può immedesimare in quello che legge, a causa della brevità e della ripetitività delle news, che avviliscono i contenuti: non riesce neanche più a capire che si sta parlando di lui e del mondo che lo circonda. La maggior parte delle notizie rappresentano l’ennesima iniezione di una dipendenza da sovraccarico informativo, una delle dipendenze principali della vita online. I media digitali non offrono reali chance di approfondimento perché propongono notizie non differenziabili da una testata all’altra. Tutti i siti online dei maggiori quotidiani nazionali, ma anche molte riviste, stanno di fatto contribuendo, consapevolmente o meno, a far diminuire l’interesse dei lettori per i temi dell’attualità, alimentando la passività e l’assenza di partecipazione alle criticità del proprio contesto sociale, ovvero la crisi dell’individuo-spettatore della nostra età globale.
Ho trentadue anni e come la maggior parte dei miei amici avevo una dipendenza dai social media, che contribuiva a episodi di ansia, comportamenti impulsivi, stati depressivi e insonnia. Ma in realtà quasi nessuno dei millennials ammette di avere una dipendenza, e i pochi che lo confessano non credono si possa fare molto per cambiare la propria situazione, figurarsi quella di altre persone. Lo scenario predominante rimane quello di un consumismo digitale apatico.
Per quanto mi riguarda, ho provato a capire più a fondo il perché della mia dipendenza e del mio malessere tanto online quanto al momento della disconnessione; avevo vere crisi d’astinenza e controllavo compulsivamente il pc lo smartphone con la speranza di ricevere delle notifiche. Ho pensato: davvero ci siamo ridotti a tanto? A riporre il desiderio di felicità nell’arrivo di un tag, un invito, o commento? A sentirci infelici per l’assenza di spie rosse, blu o verdi? A scambiare l’assenza di notifiche per isolamento sociale?
Il risultato è stato il formarsi di un’idea complessiva del funzionamento dei social network, che mi ha portato alla consapevolezza che il prodotto ero diventato io, che la loro capitalizzazione dipendeva dal tempo e dall’attenzione che gli dedicavo e che l’innesco di comportamenti automatici e la sensazione illusoria di gratificazione erano l’indice tanto di un mio malessere, quanto del fatto che la loro strategia di vendita (o manipolazione) su di me aveva vinto avendomi trasformato in un consumatore ideale: questo ha di fatto interrotto il circolo della dipendenza. Evidentemente i miei accessi online si basavano anche sulla mia disinformazione e non soltanto sulle mie vulnerabilità. Questo può essere un primo passo.
Per questo vi presento una riflessione complessiva sui social media che potrebbe intercettare il bisogno di andare in cerca di like, tag, inviti e news feed scroll, come risposta a sensazioni negative o momenti di vuoto durante la giornata. Per quanto mi riguarda, le ragioni che vi elenco stanno producendo l’effetto veramente avversario del profitto del business digitale: una riflessione in grado di fermare l’impulso a connettersi alle loro piattaforme.
La questione essenziale sarà quella di riuscire a ripristinare un uso consapevole e attivo della tecnologia, ovvero capovolgere la situazione che troppi utenti ormai subiscono: cessare di essere uno strumento nelle loro mani, ovvero smettere prima di tutto di pensare che la responsabilità sia individuale e che non ci sia alternativa a come passiamo il tempo online.
Introduzione II
I social media tra adolescenti e millennials: distruzione di un’intera generazione e crisi psicologica globale?
Numerosi studiosi affermano di non aver mai assistito ad una generazione che ha fatto un cambiamento così radicale come quella degli adolescenti di oggi. La professoressa Jean M. Twenge della San Diego State University studia i trend generazionali da venticinque anni e ritiene il 2012 un anno di svolta: la crisi economica che aveva colpito tutto l’occidente era appena finita, ma la gente ne stava ancora soffrendo le conseguenze, ma, soprattutto, è stato l’anno in cui il numero degli americani in possesso di uno smartphone ha superato il 50 per cento (in Europa siamo arrivati alla stessa percentuale qualche anno dopo). In quegli anni, gli adolescenti hanno iniziato a mostrare caratteristiche completamente nuove.
Quella della Twenge è qualcosa di diverso dalla preoccupazione di chi si lamenta che gli adolescenti passino tutto il giorno attaccati al telefonino. È uno studio basato su anni di indagini sperimentali. Le statistiche che testimoniano i cambiamenti di comportamento degli adolescenti, a partire dall’avvento su scala di massa degli smartphone, sono impressionanti: sempre minore tempo dedicato a uscire con gli amici, alle ore di sonno, agli appuntamenti sentimentali e alle esperienze sessuali, sempre maggiore la sensazione soggettiva di solitudine.
La professoressa Twenge si interroga sulla possibilità che gli smartphone abbiano distrutto l’intera generazione dei post-millennials. La questione riguarda l’incidenza di patologie psichiatriche: i dati sulla depressione e sui suicidi sono aumentati in modo vertiginoso dal 2011. I teenager sembrano sempre più soli, depressi e tendenti al suicidio, di fatto sull’orlo della peggiore crisi di salute mentale degli ultimi decenni.
Il punto è che numerose ricerche dimostrano che la felicità dei ragazzi diminuisce in maniera proporzionale al tempo trascorso davanti allo schermo di uno smartphone o di un tablet. Più tempo si passa a guardare gli schermi più aumentano i sintomi di depressione. Chi usa i social media per un tempo elevato vede un aumento del rischio di depressione del 27%, rispetto a chi è impegnato maggiormente in altre attività, per esempio fare sport o studiare. Gli adolescenti che passano tre ore al giorno o di più su tecnologie elettroniche hanno il 35% di possibilità in più di avere fattori di rischio per il suicidio. Una percentuale molto più alta di quella, per esempio, prodotta dalla tv.
In Italia alcune ricerche sugli adolescenti evidenziano come circa la metà degli studenti della scuola o universitari passi su internet almeno 5-6 ore al giorno. Si stima che l’utente medio controlli tra le 10 e le 20 volte all’ora lo schermo del proprio dispositivo, in pratica fino a un check ogni 3 minuti, per vedere se gli sono arrivate – sullo smartphone o sul computer – nuove notifiche. Il 21% è afflitto da vamping ovvero si sveglia durante la notte per controllare i messaggi sul cellulare. La paura comune e incontrollata è quella di rimanere sconnessi dal contatto con la rete.
Ma l’epidemia di patologie e malesseri psichici non riguarda soltanto gli adolescenti. La depressione e l’ansia sono le psicopatologie collettive della nostra generazione, in particolar modo degli under 35. Faccio fatica a trovare un amico che non soffra o abbia sofferto di episodi di ansia e depressione, insonnia e che non stia alle prese con qualche faticoso processo terapeutico. Il tasso di depressione sta aumentando vertiginosamente tanto tra gli adolescenti quanto fra i millennials – tra il 2013 e il 2016 negli Stati Uniti le diagnosi sono aumentate del 63% tra gli adolescenti (12-17 anni) e del 47% tra i millennials (18-34 anni). Anche in Europa le cifre sono in continuo aumento: al momento quattro europei su dieci sono stati coinvolti in disturbi psicologici, alla stregua di ansia, depressione, attacchi di panico, stress e simili. Nel complesso il 14% dei cittadini europei soffrirebbe d’ansia, mentre il 7% di insonnia o depressione. Per quanto riguarda l’Italia risultano ben 17 milioni di persone con patologie legate alla salute mentale, di cui 8 milioni per stati d’ansia, 4 milioni per insonnia e altri 4 milioni per depressione.
I ricercatori hanno elaborato varie teorie sul motivo per il quale l’ansia e la depressione sono in vertiginoso aumento e i social media sono indicati come uno dei fattori decisivi.
La relazione tra adolescenti e millennials rispetto all’utilizzo delle tecnologie digitali deve essere tenuta a mente, perché illumina il reale significato della dipendenza dai social media e dei suoi effetti, anche nei casi in cui il tempo passato online è minore, come nel caso dei millennials. Inoltre permette di formulare delle ipotesi sulle tendenze future del rapporto tra tecnologia e utenti.
Otto ragioni principali
Cosa determina quella che appare come la più grande epidemia di dipendenza della storia, portatrice di conseguenze psicopatologiche globali?
Perché una crescente letteratura critica su Facebook, Instagram, Youtube, Snapchat, ampiamente divulgata dai mass media, non sembra determinare un desiderio reale di cambiamento negli utenti?
Provo a riassumere i motivi principali di questa scalata irrefrenabile al successo:
Incertezze globali e social media: generare un peggioramento funzionale al proprio profitto
Alcune delle motivazioni sopra citate si inseriscono perfettamente nel contesto delle insicurezze dell’era globale. I social media sfruttano il disagio psichico collettivo per la perdita di riferimenti del nostro tempo e ne generano un peggioramento funzionale al proprio profitto. Dalla crisi sociale ed economica esplosa nel 2007, alla perdita di futuro annunciata in maniera drammatica e quotidiana dai media di tutto il pianeta perché la tragedia fa più audience, le incertezze del mondo esterno riverberano inevitabilmente su quello interno, determinando l’esplosione di paure e ansie che spingono l’individuo ad una sorta di autoconservazione e di rifiuto di tutte le dimensioni di potenziale complessità interiore ed esteriore, nella forma tanto edonistica quanto larvale del circolo coattivo della dipendenza da contenitori di distrazioni/pseudo-esperienze, di cui i social media sono i principali promulgatori.
A risultare troppo rischiosa è l’assunzione stessa della propria identità. La sospensione continua da tutto ciò che può rappresentare un attrito, una complessità, una relazione reale e critica con il mondo, un incontro emotivo con le altre persone, ma anche con se stessi, appare sempre più come l’unica via esistenziale percorribile, non rendendosi conto che si tratta di una via di fuga, un’auto-consumazione della propria personalità.
Nonostante tutti gli ostacoli, dalla crisi socio-economica ai difetti dell’informazione digitale, che si aggiungono alle strategie apparentemente imbattibili di legittimazione dei social media, è ancora possibile opporre una strategia di resistenza individuale e collettiva?
Prima parte – Gli effetti per la salute: i social sono una vera droga. Dalla dipendenza dalle scariche di dopamina, a depressione, ansia e modificazione della personalità.
“E se invece di vederci marcire i denti, stesse marcendo il nostro stato d’animo?”
Che cos’è una dipendenza: dopamina, comportamenti compulsivi e crisi d’astinenza
Una dipendenza, in se stessa, è una ricerca compulsiva di piacere senza che l’individuo sia in grado di esercitare una forma di autocontrollo e riconoscere l’illusorietà della gratificazione data dalla sostanza. Si tratta di un’alterazione del comportamento che, in alcuni casi, da semplice o comune abitudine diventa una ricerca patologica di un prodotto, riguardo a quale si è creata assuefazione e la cui mancanza provoca uno stato depressivo, di malessere e angoscia. Le forme più gravi comportano dipendenza fisica e psichica con comportamenti compulsivi, cioè con il bisogno di una assunzione ripetuta della sostanza da cui si dipende per sperimentare in continuazione l’effetto psichico ed evitare la sindrome di astinenza. L’individuo dipendente tende a perdere la capacità di un controllo sull’abitudine.
Gli atti compulsivi si associano al bisogno di assumere la droga, o in genere la sostanza o praticare il comportamento stimolante la dopamina, in dosi sempre maggiori, perché si crea assuefazione con un innalzamento della soglia di tolleranza e nello stesso tempo desensibilizzazione: per avere lo stesso piacere nei recettori servono quantità maggiori di dopamina. La dipendenza si presenta non solo con un eccesso di questa sostanza, ma anche di un suo deficit. Non sempre si è dipendenti da droghe, alcol, farmaci o sostanze stupefacenti, ma lo si può essere anche da oggetti di uso comune come computer, ecc., o attività quotidiane, questo tipo di dipendenza viene chiamata “dipendenza psicologica”.
I social media possono diventare realmente una dipendenza?
Vediamo alcuni report di studi medici. “Le dipendenze connesse alla tecnologia – si legge in uno studio pubblicato su Psychological Reports: Disability and Trauma – hanno delle caratteristiche simili a quelle relative alle droghe e al gioco d’azzardo”. L’analisi dell’attività cerebrale effettuata dai ricercatori ha rivelato che le immagini relative a Facebook attivavano in alcuni studenti l’amigdala e lo striato, due regioni del cervello coinvolte nei disturbi compulsivi e dei deficit di autocontrollo, provocando un comportamento simile a quello delle persone dipendenti da cocaina.
Anche per la psicologa Mandy Saligari “dare ai vostri figli uno smartphone è come dargli un grammo di cocaina”. La dottoressa Saligari è a capo di una clinica di riabilitazione e afferma che negli dieci anni il numero di adolescenti assistiti dalla struttura è cresciuto in maniera esponenziale.
“Perché prestiamo meno attenzione a queste cose rispetto che alle droghe o all’alcol?” prosegue Saligari.
Per l’antropologa Natasha Schüll i social network stessi sono diventati abili nel creare per gli utenti un effetto “dipendenza” basato su quello del gioco d’azzardo e delle droghe. Si tratta della creazione di “loop ludici”, dei circoli viziosi che inibiscono le capacità di autocontrollo e di discriminazione di una gratifica reale da una illusoria, fatti di ricompense da guadagnare e livelli da scalare. “Dobbiamo cominciare a renderci conto del tempo perso sui social media”, ammonisce la studiosa. “Non si tratta solo di un gioco, ma di un fatto che ha implicazioni finanziare, psicologiche ed emotive”.
Gli effetti della dipendenza. Ansia da social: la FoMo, la costante paura di perderci esperienze, opportunità, connessioni
I social network producono un disturbo d’ansia specifico: è la “FoMO”, “Fear of missing out”, termine diventato popolare grazie ad un saggio del 2013. Cofirmato da psicologi di varie università e definita da Andrew Przybylski come “la costante apprensione che altri stiano facendo esperienze positive dalle quali ci si sente esclusi, caratterizzata dal desiderio di stare continuamente connessi e informati su cosa stanno facendo gli altri”.
Con tre diversi studi su scala internazionale, Przybylski ha dimostrato che la FoMo colpisce soprattutto persone insoddisfatte e con bassa autostima, che cercano conferme e contatti umani online: i social alimentano il bisogno irrazionale e compulsivo di confrontare la propria con la vita degli altri e questo peggiora le vulnerabilità iniziali, creando una distorsione virtuale del confronto e della relazione sociale. Non si realizza che quello che si vede è spesso frutto di esternazioni fatte ad arte per risultare superiori e farsi vanto di successi sporadici. La vita dell’altro, nell’illusione dorata delle news feed, appare sempre più interessante della propria e questo produce effetti ansiogeni, come la paura di non riuscire a cogliere determinate opportunità nel futuro, e depressivi, come il senso di colpa per le scelte fatte.
Depressione: “time wasting” e disistima di sé
Nel 2016 la scuola di medicina dell’università di Pittsburgh ha condotto un primo rappresentativo studio negli Stati Uniti per esaminare l’associazione tra social media e depressione. I risultati mostrano che c’è una relazione diretta e significativa. L’esposizione a rappresentazioni altamente idealizzate degli utenti dei social media genera sentimenti di invidia e la convinzione distorta che gli altri abbiano vite più felici e con più successo; utilizzare il proprio tempo in attività di poco significato sui social media può dare una sensazione di “tempo sprecato” che influenza negativamente lo stato d’animo; i social media possono rappresentare una delle componenti della dipendenza da internet, una condizione psichiatrica sotto osservazione, associata direttamente con la trascorrere più tempo sui social media può aumentare il rischio di esposizione a cyber-bullismo o altre simili interazioni negative, che possono causare sentimenti depressivi.
Cambiamento della personalità: comportamenti impulsivi sul lavoro e nella vita sociale
Una delle caratteristiche dell’uso dei social network è l’impulsività, ovvero un comportamento costituito da azioni o scelte compiute sotto la spinta di un desiderio impellente e contraddistinto da una mancata capacità di autocontrollo. Mentre tutte le dipendenze sono caratterizzate da comportamenti compulsivi, nella ripetizione di una ricerca di piacere illusoria, alcune, soprattutto quelle da internet, si contraddistinguono anche per l’impulsività. La maggior parte delle volte che entriamo sui social media non si tratta di una scelta cosciente, quanto di una reazione meccanica. Un’azione compiuta impulsivamente può determinare rimorso, autoriprovazione, o senso di colpa.
Nel 2015 è stato pubblicato uno studio che dimostra che la dipendenza dalla rete può modificare la personalità, facendo diventare più impulsivi e meno capaci di pianificare: questo rischia di avere un impatto negativo sulla scuola e al lavoro, aumentando perfino la probabilità di cadere vittime del gioco d’azzardo. Non solo, l’impulsività è un fenomeno che si associa spesso a quello dell’ansia, per esempio nella difficoltà a mantenere relazioni sentimentali o impieghi lavorativi.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Computers in Human Behavior dallo psicologo Roberto Truzoli dell’Università di Milano in collaborazione con i britannici della Swansea University e dell’Abertawe. I risultati dimostrano che, subito dopo la navigazione in Rete, i partecipanti più esposti a internet fanno molte più scelte impulsive, con una riduzione delle scelte che implicano autocontrollo. “Sono i primi dati che evidenziano sperimentalmente i cambiamenti del comportamento di scelta come risultato dell’esposizione a Internet”, afferma Philip Reed della Swansea University. Lo psicologo Roberto Truzoli aggiunge che le ricerche precedenti hanno evidenziato come le persone con dipendenza da internet dopo l’esposizione al web diventino più depresse: “sarà quindi interessante approfondire la relazione tra internet-addiction, depressione e impulsività, in modo da produrre un quadro globale”.
Stress e astinenza. Scambiare una crisi d’astinenza per solitudine sociale
Prendersi una pausa da Facebook non solo fa bene alla tutela dei dati personali, ma abbassa anche l’ormone dello stress. Lo ha scoperto uno studio australiano pubblicato dal Journal of Social Psychology, secondo cui però al calo dell’indicatore fisiologico non corrisponde una sensazione di maggiore benessere.
I ricercatori dell’università del Queensland hanno reclutato 138 partecipanti, tutti utilizzatori abituali di Facebook. Metà dei soggetti, tra 18 e 40 anni, hanno dovuto rinunciare al social per cinque giorni, mentre gli altri hanno fatto da gruppo di controllo continuando normalmente. Nel primo gruppo al termine del periodo si è visto un calo dei livelli di cortisolo, ormone associato allo stress, che invece è rimasto invariato negli altri. “Anche se i partecipanti allo studio hanno mostrato un miglioramento nello stress fisiologico – spiega però Eric Vanman, l’autore principale – hanno anche riferito un minore senso di benessere, dichiarando di non vedere l’ora di tornare a usare il social network, perché si sentivano separati dai propri amici”.
In questo caso è qualcosa di più della già nota “fear of missing out”, il timore di perdersi aggiornamenti e dinamiche del mondo che ci gira intorno. Si tratta infatti di quella che appare come una vera e propria crisi d’astinenza: un senso di malessere e angoscia al momento della disconnessione. In realtà non si sta sperimentando un allontanamento dalle relazioni sociali, ma un’assenza di somministrazione di dopamina relativa a like, messaggi e notifiche. L’equivoco, che inibisce di nuovo l’attivazione di un sistema di autocontrollo, è dare un significato personale e sociale alla crisi d’astinenza.
Dipendenza da internet e dipendenza dai social media: gli effetti dannosi presenti anche in un utilizzo standard
Gli studi medici che si sono interessati della questione mostrano come gli effetti della dipendenza non siano relativi ad un utilizzo dei social media fuori dalla norma, come si potrebbe pensare facendo riferimento alle dipendenze da internet cyber-sessuali o di net gaming: gli stati ansiosi e depressivi si verificano in persone che utilizzano le piattaforme social per una quantità di tempo quotidiana che di solito non viene considerata sospetta o preoccupante.
Un aspetto sul quale si deve riflettere, come suggeriscono sempre più psicologi e direttori di centri di riabilitazione psichiatrica, è allora perché si attribuiscono connotati di dipendenza ad un utilizzo eccessivo di internet, ma senza un riferimento a quello patologico dei social media, che ha caratteristiche specifiche.
Nel 2013 è stata inserita nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il DSM-5, la proposta di diagnosi di “Internet Gaming Disorder”. La specificità dei social media non permettono però ancora di rintracciare le somiglianze con le dipendenze da internet cyber-sessuale, cyber-relazionale, dal net gaming, da sovraccarico cognitivo.
Per fortuna, un numero crescente di studi medici spinge nella direzione di una ridefinizione più ampia del concetto di abitudine patologica online. Per essere dipendenti non occorre chiudersi in casa e non andare a lavoro per stare su internet: bastano alcune ore al giorno per andare incontro agli effetti di una vera dipendenza.
Ansia, depressione e impulsività generalizzate nella società contemporanea
Nella società contemporanea sono in forte diminuzione le patologie di frammentazione dell’Io, come la schizofrenia, e in aumento invece quelle legate a stati d’animo tendenti alla bipolarità, all’apatia, all’ansia e alla depressione, alle difficoltà di stringere legami, all’insonnia e all’abuso di sostanze.
Il significato di psicopatologia sociale è che questi fenomeni non sono più casi clinici, isolati o individuali, ma coinvolgono percentuali considerevoli della popolazione. I risultati delle indagini dicono che risulta sempre più comune soffrire di quello che si può definire come un malessere psicologico latente a carattere depressivo e ansioso. Si parla di psicopatologie generazionali.
Una conseguenza di questi studi, ma sulla quale risulta difficile spostare l’attenzione, è che, di fronte ad un’epidemia collettiva, le ragioni di un malessere, devono essere, almeno in parte, questioni globali, sociali e economiche. I motivi di questa difficoltà interpretativa sono molti, fra cui un modello classico di benessere e terapia psicologica che mette al centro l’individuo e non la società e l’assenza di strumenti per indagare l’eziologia dei disturbi sociali, la penuria di modelli di terapia collettiva e la difficoltà sostanziale a porre in questione le evoluzioni sistemiche globali, tecnologiche ed economiche.
Sostanzialmente il malessere psicologico viene considerato una questione privata, che ha a che fare con la propria storia personale. Quante persone ritengono infatti che i loro disturbi depressivi e d’ansia abbiamo a che fare con ragioni collettive?
È necessario sviluppare una nuova consapevolezza: le diverse dipendenze da internet appaiono oggi come fattori significativi o decisivi dei malesseri psichici, determinando un peggioramento di vulnerabilità già presenti, relative tanto a fattori personali quanto a quelli sociali, per esempio a causa della crisi economica.
Non può per questo risultare sorprendente la difficoltà di un’intera generazione, che soffre psicologicamente e si barcamena tra terapie di ogni genere, ma che non riesce a riconoscere una delle cause del proprio malessere collettivo.
Per fare un esempio forte: una persona ansiosa e depressa non mette in questione, rispetto a se stesso, e neanche in terapia, la propria dipendenza dalle slot machine, o dalla cocaina, perché non vengono ancora identificati, dalla persona e dalla società, come comportamenti patologici.
Quali risultati ci possiamo aspettare da un percorso terapeutico?
Seconda parte. Invisibilità del business digitale. Quando non siamo in grado di identificare una dipendenza e le sue conseguenze
L’adattamento ad una nuova fase tecnologica?
La maggior parte dei miei amici, che hanno circa 30 anni, ammette di passare un tempo considerevole sui social media (Facebook, Instagram, Youtube, Snapchat, ecc.), ma non lo ritiene un problema. Nei casi in cui qualcuno ammette di avere una dipendenza, la si intende come innocua, come un vizio qualunque, come si ammettesse di esserlo dalla caffeina: si sottintende che le conseguenze non sono quelle di una vera dipendenza.
Quando, più raramente, un amico parla invece in maniera più critica o preoccupata del tempo che ci dedica, si tende comunque e pensare che il problema sia l’incapacità personale di farne un buon uso, per esempio per un tempo effettivamente consono dei propri bisogni. La critica non coinvolge Facebook o Instagram, ma le persone stesse.
Il modo di usare i social media è sostanzialmente considerato il modo di adattarsi, spesso accolto anche con entusiasmo, ad una nuova fase tecnologica. In questo senso, nonostante la crescita continua del tempo speso online, queste piattaforme sembrano strumenti nelle mani delle persone: sono loro che scelgono il modo migliore di utilizzarli per stare al passo con le necessità – relazioni, lavoro, aggiornamenti e news, ecc. – Si ritiene insomma che il tempo trascorso sui social media sia tanto inevitabile quanto causa di pochi effetti sulla vita quotidiana.
Ma è davvero così?
Invisibilità del business digitale
In realtà la ragione principale per la quale non si riesce a pensare ad una dipendenza, sono le inedite caratteristiche di questa dipendenza, la presunta assenza di “consistenza” del nostro stare online e delle sue conseguenze.
Come sostengono molti insider “pentiti” della Silicon Valley, le difficoltà nel riconoscere e nel denunciare la dipendenza del business digitale è riconducibile, in gran parte, all’invisibilità, alla liquidità, della loro economia.
È possibile riassumere, in breve, alcune caratteristiche dei comportamenti che consideriamo generalmente dipendenze, per evidenziare la peculiare “invisibilità” dei business digitale legato ai social media:
Moneta d’acquisto / spesa di denaro
Generalmente si associa una dipendenza all’idea di una considerevole e continua spesa di denaro. “Facebook è gratis e sempre lo sarà”: ma i social media sono davvero gratis? Se lo fossero, perché Zuckerberg a 34 anni è il quinto uomo più ricco del mondo? La moneta con cui si paga sono i dati personali e il tempo passato sui social: è questo che viene poi rivenduto alle aziende pubblicitarie. Il prodotto, semplicemente, sono le persone.
Le sigarette invece costano molto. Si è sicuri che il tempo e i dati personali valgono un prezzo inferiore, per quanto non tangibile, delle altre sostanze? Come vengono influenzate le capacità di concentrazione, lavorative e le qualità della vita psicologica?
Alcuni hanno proposto che i social inizino a pagare le persone, non sarebbe equo?
Tipologia di sostanza
Come per la questione del costo, si ritiene che le dipendenze abbiano a che fare con una sostanza, un oggetto o un luogo visibile e ben identificabile – nelle dipendenze comportamentali. Nel caso dei social media qual è la sostanza, l’oggetto o il luogo di consumo? Non ci sono. Ma se non c’è la sostanza o un luogo, come si può parlare di una dipendenza?
Oltre alla portabilità spaziale e temporale, la possibilità di un continuo accesso aumenta il rischio di pervasività, già molto superiore alle altre sostanze, di una dipendenza. Di solito non si fuma una sigaretta dopo l’altra, o non si consumano un hamburger dopo l’altro. Ci si sente pieni, si pensa al costo, o agli effetti per la salute. Con i social non c’è mai nessun effetto simile, anzi la luce dello schermo tiene svegli e non si pone il problema né del costo né della salute. È una sostanza priva di deterrenti.
La tentazione, e la realtà, è quella allora di un’iniezione della sostanza senza soluzione di continuità.
Effetti della sostanza
Al contrario di tutte le altre sostanze è di fatto possibile un’assunzione continua senza incorrere in effetti immediati e evidenti. Sigarette, alcol e fast food hanno effetti più macroscopici e alteranti lo stato fisico, sia subito dopo l’assunzione che a lungo termine. Gli effetti dei social sono invece più psichici che fisici. Questo li fa paragonare, come si sta iniziando a fare, agli effetti di vere e proprie droghe. A differenza però di, per esempio, cocaina o eroina, si tratta di un’alta quantità di somministrazioni, ma a bassa intensità di piacere e con nessuna crisi d’astinenza (macroscopica): questo è un aspetto che sembra decisivo in generale, così come avviene per alcol e tabacco, nel quadro di una legittimazione sociale.
Quindi: nessuna alterazione o effetto negativo evidenti per la salute fisica, sia al momento dell’assunzione, che a lungo termine, al contrario delle dipendenze socialmente accettate da sigarette, alcol e fast food.
Semplicemente, usare i social non sembra avere conseguenze negative per la salute psichica e fisica.
Luogo
Non occorre neanche andare nei fast food, dal tabaccaio, o nei centri scommesse. Si può accedere dovunque. Non c’è, di fatto, nessun luogo dove non si può essere raggiunti dalle notifiche o dove non si può controllare la news feed. Non c’è bisogno della stanza fumatori.
Tempo
Non esiste limite o condizionamento esterno. Si possono usare Instagram o Youtube mentre si è immersi in qualsiasi altra azione o compito. A differenza della maggior parte delle altre sostanze, i social non sono attività da fare in maniera esclusiva. Non si può giocare alle slot machine a lavoro. Si può accedere ogni minuto, quando si desidera: i centri scommesse invece chiudono.
Tecnica e neutralità
Un ultimo aspetto che riguarda l’invisibilità di questa dipendenza è legato al tema della tecnologia e della sua presunta “neutralità”. È un appello che si sente spesso e che pone giustamente gli strumenti tecnologici in una prospettiva diversa rispetto per esempio al tabacco e all’alcol, oltre che ovviamente rispetto alle sostanze illegali.
Il fatto però è che nessun oggetto in sé stesso è essenzialmente buono o cattivo. In base a cosa allora giudicare un prodotto? In base all’uso che le persone ne fanno.
Per fare un esempio sulla presunta neutralità dei prodotti, negli Stati Uniti il 40% degli adulti è obeso. La responsabilità è degli americani o dell’industria alimentare statunitense? Nel momento in cui una grande quantità di persone non riesce a fare buon uso di un prodotto significa che questo non è assolutamente più neutrale. Negli Stati Uniti infatti sia le campagne pubblicitarie che gli stessi prodotti dell’industria alimentare rientrano in un preciso disegno di marketing che ha lo scopo di creare nel consumatore una dipendenza a scopo di lucro, attraverso la gratificazione illusoria data da cibi ricchi di grassi e zuccheri. Per come si configura l’oggetto di consumo, considerate le pubblicità ingannevoli sulla sua funzione e la composizione interna alterata, non si può più parlare di oggetto neutrale.
I social media seguono esattamente la stessa regola di mercato. Si tratta della creazione di una dipendenza a scopo di lucro, attraverso pubblicità ingannevole e gratificazione illusoria data da una struttura del prodotto coscientemente manipolata. Si promettono connessioni e legami attraverso un prodotto basato sulla gratificazione illusoria dalle scariche di dopamina relative a like, tag, news feed, inviti, richieste di amicizia, messaggi, ecc.
Pensare ai social media come uno spazio di relazioni sociali e di conseguente benessere psicologico equivale ad andare nei fast food nei momenti di noia, tristezza o depressione.
Riusciremo a non diventare tutti obesi digitali?
Terza parte – Come ci rendono dipendenti: manipolazione di vulnerabilità psicologiche relative a dopamina e autocontrollo
I social media sono un rimedio per l’isolamento sociale quanto le slot machine lo sono per la povertà.
Un difetto di volontà dell’utente o uno sfruttamento aggressivo di vulnerabilità individuali e sociali?
Una delle domande più ricorrenti nelle discussioni sui social media è la seguente: sono le app a essere state sviluppate per creare appositamente una dipendenza o le persone ad essere pigre e incapaci di resistere alle tentazioni per un difetto della loro volontà? La risposta degli utenti tende verso la seconda opzione, verso un’assunzione di responsabilità che scagiona la tecnologia.
Un crescente numero di articoli denuncia però che il funzionamento dei social media sia stato progettato per riprodurre quello delle slot machine. La creazione di una dipendenza viene raggiunta utilizzando una delle sostanze rilasciate dal nostro cervello, l’ormai celebre dopamina, e sfruttando gli stessi trucchi che sono alla base del gioco d’azzardo. Alla domanda iniziale dobbiamo allora rispondere in maniera diversa? Non è vero che quando si riescono a sfruttare dei bisogni e delle vulnerabilità profonde del nostro cervello, diventa molto difficile, se non impossibile, resistere alla tentazione?
Se il parallelismo con le slot machine permette di evidenziare le vulnerabilità da un punto di vista individuale e “tecnico-psicologico”, è possibile delineare anche una prospettiva più ampia, che tenga conto delle vulnerabilità sfruttate dai social media, anche da un punto di vista di una psicologia non più individuale, ma che analizzi i processi di legittimazione culturale. La domanda allora diventa: qual è il significato che gli utenti danno ai social media?
Le critiche mosse ai social/slot machine possono rappresentare uno dei movimenti di indagine che deve essere però accompagnato da una riflessione più estesa, che affronti anche il processo di legittimazione culturale. L’aspetto centrale di questo sviluppo è quello relativo alla funzione “identitaria” e “sociale” di Facebook, Instagram, Snapchat, ecc. Senza fare riferimento al messaggio pubblicitario incentrato su una “connessione continua e/o globale” e alle infinite opportunità di “azioni” virtuali, che toccano il nervo scoperto di un senso di inedia, isolamento e influenza sociale epidemici non si può spiegare appieno il successo di queste app. I social media fanno affidamento su vulnerabilità psicologiche che non sono solo quelle relative alle scariche di dopamina, ovvero al bisogno di cancellare i propri stati emotivi negativi come nel caso della dipendenza dalle slot machine, ma anche sulla capacità di rivestire queste pseudo-esperienze di gratificazione con un’ideologia dell’identità e della socialità a cui risulta quasi impossibile resistere nel contesto attuale di una pervasiva sensazione di passività e di isolamento. Nel circolo di sospensione delle vere potenziali esperienze di gratificazione le azioni virtuali sostituiscono sempre di più quelle reali perché il mondo reale pone un attrito crescente, troppo resistente e complesso, ai nostri desideri.
Come le slot machine. Le “ricompense variabili intermittenti” e l’autocontrollo come nemico
In che cosa si assomigliano i social media e il gioco d’azzardo? Il fenomeno è stato chiarito, tra i tanti, da Tristan Harris, tra i più autorevoli portavoce della necessità di intervenire sulle modalità di business del capitalismo digitale: l’ex designer di Google ha posto l’attenzione sul meccanismo basato sul concetto psicologico di “ricompense variabili intermittenti”, ricordando come sia oggetto dei corsi di studio all’interno dei “Persuasive Tecnology Lab” delle migliori università americane.
L’aspetto decisivo è che ogni piattaforma di gioco deve offrire più ricompense possibili, ma le deve offrire con un alto grado di imprevedibilità e variabilità. L’imprevedibilità genera uno stato di confusione nel cervello che riduce le aree associate al giudizio e alla ragione, mentre stimola quelle associate alla brama e al desiderio. L’autocontrollo e l’autoconsapevolezza sono i nemici principali. Nel gioco d’azzardo questo principio è il motore della dipendenza: ogni volta che vinciamo, il nostro cervello produce una sensazione di piacere legata alla dopamina, ogni volta che perdiamo facciamo fatica a resistere alla tentazione di giocare di nuovo, a causa del corto circuito generato dal numero di ricompense possibili che sopprime la consapevolezza delle reali chance di vincita. La legittima tendenza psicologica di ricerca di una ricompensa, di una sensazione di piacere, si trasforma in un comportamento tanto ripetitivo e controproducente, quanto maggiore garante del profitto economico per il business del gioco.
Senza lo sfruttamento del bisogno di cancellare emozioni negative provando sensazioni positive (legate alla dopamina) e di vulnerabilità psicologiche (l’incapacità di resistere alla tentazione, pur sapendo che non si vincerà) chi giocherebbe ancora alle slot machine?
Ma quali sono le specifiche caratteristiche di Facebook, Instagram e Snapchat che riproducono il funzionamento del gioco d’azzardo?
I social media creano lo stato psichico responsabile della perdita di autocontrollo sull’impulso di ricerca di piacere prima di tutto attraverso l’alto grado di variabilità e imprevedibilità delle notifiche: messaggi, like, tag, inviti a eventi, news feed (indirettamente), ecc.
Il cavallo di battaglia di questo sviluppo di cicli di feedback a breve termine, guidati dalla dopamina, è il “mi piace” che rappresenta una fonte inesauribile di feedback sociali. Ogni volta che pubblichiamo qualcosa su Facebook, non resistiamo alla tentazione di osservare quanti “mi piace” il nostro post o la nostra foto ottengono. Quando compare un “like”, il nostro cervello produce una scarica di dopamina, che ci fa provare una brevissima sensazione di piacere e ci porta a ricontrollare ancora e ancora, in maniera tanto compulsiva (incapacità di comprendere le reali possibilità di una vincita di sensazione positiva, sia in termini di numero che di qualità) quanto impulsiva (azione automatica), nella speranza inconscia di provare nuovamente quella sensazione di piacere. Questo avviene per il like, ma si tratta evidentemente di una dipendenza dalle notifiche più in generale, fino al paradosso della gratificazione per aver ricevuto un’email. Il colore rosso non è un caso, è stato studiato ed è quello che attiva di più il desiderio.
I social network sfruttano, allora, la capacità del nostro cervello di produrre all’improvviso delle scariche di piacere, nate per aiutarci nella lotta per la sopravvivenza, per farci passare quanto più tempo possibile sulle applicazioni, in quella che viene chiamata “economia dell’attenzione”. Oltre alle imprevedibilità e variabilità del sistema delle notifiche ci sono altri metodi per determinare i nostri accessi e catturare il nostro tempo, come per esempio quello basato sul concetto psicologico di “reciprocità sociale”.
Due delle regole per diminuire il rischio di diventare dipendente dal gioco d’azzardo, pagina del SERT:
“non giocare quando stai vivendo una situazione di stress emotivo”
“gioca solo una certa somma di denaro precedentemente prestabilita e per un certo tempo prestabilito”
I paradossi della reciprocità sociale online
È per sfruttare questo bisogno che WhatsApp utilizza le spunte blu che avvisano quando qualcuno ha letto un messaggio, perché la “reciprocità sociale” ci spingerà a rispondere più rapidamente, e poi a controllare in continuazione per vedere se il nostro interlocutore ha visto il messaggio e sta rispondendo. Lo stesso discorso si può fare per quanto riguarda i punti in movimento, quando una persona sta rispondendo ad un messaggio, che ci tengono inchiodati in attesa della ricezione.
Tutto ciò ha anche delle conseguenze paradossali, come l’introduzione di strumenti che hanno il solo scopo di creare dipendenza e non si propongono nemmeno come (presunto) miglioramento della nostra esperienza online. È il caso delle Snapstreak di Snapchat, che mostrano da quanti giorni consecutivamente stiamo interagendo con una persona, motivandoci ad allungare sempre di più la striscia (streak). Nei licei gli streak stanno diventando una specie di barometro dell’integrazione sociale e ogni mattina gli adolescenti passano del tempo considerevole ad alimentare la fiamma. Potremmo pensare che gli adolescenti di oggi usano Snapchat come noi parlavamo al telefono. Ma al nostro tempo non c’erano schiere di sviluppatori al lavoro dietro gli schermi, a studiare la psicologia e le vulnerabilità, facendo di tutto per creare una dipendenza dall’applicazione.
Le reazioni dei giovanissimi ad un’interruzione di questa funzione senza nessuna utilità apparente, se non virtuale, sono in alcuni casi di vera e propria isteria. Gli streak sembrano essere una delle incarnazioni del passaggio ad una logica sempre più esplicita della sostituzione di esperienze reali con quelle virtuali e non è un caso il successo che hanno tra i giovanissimi.
Altre funzionalità pensate esplicitamente per creare una dipendenza sono lo scroll, l’autoplay e le finte notifiche che ci portano inevitabilmente a usufruire impulsivamente di nuovi contenuti/distrattori.
I mea culpa degli ex-dipendenti
Per concludere, si possono citare le dichiarazioni e i mea culpa, sempre più numerosi, di alcuni insider della Silicon Valley, che evidenziano quanto lo sfruttamento di vulnerabilità per creare dipendenze sia stato uno sviluppo dei prodotti consapevole. Secondo Palihapitiya, ex vice di Facebook, “I cicli di feedback a breve termine che abbiamo creato, guidati dalla dopamina, stanno distruggendo il modo in cui la società funziona”, riferendosi al sistema di interazioni online basato su “cuori, like e pollici”.
Per Sean Parker i social media “approfittano delle vulnerabilità della psicologia umana” con un meccanismo che crea dipendenza come una droga. Parker racconta: “Ci siamo chiesti, come possiamo occupare quanto più tempo e attenzione possibile? Questo ha significato farvi arrivare un po’ di dopamina ogni tanto, quando qualcuno ha messo Mi Piace, o ha commentato una foto, o qualsiasi altra cosa. E questo vi indurrà a contribuire con più contenuti in modo da avere più mi piace e commenti”.
I social sfruttano la vulnerabilità nella psicologia umana. “Gli inventori e creatori – io, Zuckerberg, Systrom, nel caso di Instragram e tutte queste persone – hanno compreso coscientemente tutto questo. E l’abbiamo fatto comunque”.
Quarta parte – Perché ci rendono dipendenti: il nostro tempo e la nostra attenzione sono il loro profitto
L’economia dell’attenzione: la dipendenza dell’utente come garanzia del maggior profitto
I digital media dipendono dalla pubblicità e devono fare di tutto per spingerci a guardarli. Questo è valido per il giornalismo sensazionalistico, per i discorsi che generano scandalo o i software che creano dipendenza. Nell’ultima parte del 2017 un calo medio di attenzione di due minuti (su cinquanta spesi di media) per ogni iscritto su Facebook è bastato per minacciare un calo della pubblicità del 5% e causare un equivalente diminuzione nel valore delle azioni.
Le aziende digitali come Facebook lottano in maniera sempre più aggressiva per la nostra attenzione. Il tempo che passiamo sulle piattaforme online rappresenta quindi il loro bene maggiore.
L’obiettivo finale delle aziende: la risposta automatica ad uno stato emotivo
Quando il loro bene maggiore è il tuo tempo e la tua attenzione, cosa ti aspettavi da loro? Che programmassero i social in modo da favorire la concorrenza?
Come se le slot machine fossero pensate per far guadagnare soldi. Per lo stesso motivo non puoi vincere niente su Facebook e Snapchat. O meglio: puoi vincere, ma non più di quanto perdi. Non puoi vincere soprattutto quando l’obiettivo finale condiviso dalle aziende e dell’individuo coincide nella creazione di uno spazio temporale tanto monetizzabile per le aziende quanto efficace per chi che vuole sospendere la propria identità. L’innesco è ormai interno: la risposta ad una emozione negativa, che sono le più potenti (le sensazioni di noia, solitudine, frustrazione, confusione, indecisione) va automaticamente nella direzione di un comportamento compulsivo, l’accesso online.
L’obiettivo finale condiviso è la creazione di una zona di isolamento dal mondo umano, che protegge da una realtà interna e esterna precaria: un processo ripetitivo e meccanico che consente di sospendere i propri problemi, assieme alla stessa percezione, nei termini di tempo e spazio, di un mondo là fuori.
Il problema quindi è che le piattaforme digitali massimizzano il loro profitto quando l’utente entra nel circolo: sensazione negativa – ricerca di gratificazione – gratificazione illusoria – sensazione negativa aumentata – ricerca maggiore di gratificazione.
Una dipendenza, ovvero una ricerca compulsiva di gratificazione, allontanando sempre dalle vere esigenze di soddisfazione porta necessariamente alla creazione di un disagio psicologico che rappresenta a sua volta la garanzia del fatto che l’utente non sarà appagato e continuerà a cercare gratificazioni, sempre più incapace di selezionare quelle reali.
Come nel caso del circolo illusorio della gratificazione alla base della dipendenza, si entra in un altro schema: vulnerabilità psicologica – dipendenza – maggiore vulnerabilità – maggiore dipendenza.
Accedere ai social media in maniera compulsiva, per cancellare uno stress emotivo e in cerca di gratificazioni sociali, e/o impulsiva, con un comportamento di “deviazione” automatica, è tanto il segno di una dipendenza quanto la migliore garanzia di profitto per le aziende digitali. L’individuo ha introiettato l’innesco, per cui, senza bisogno di pubblicità o stimoli esterni, acquista il prodotto, ovvero accede sui social, meccanicamente e senza soluzione di continuità.
Riepilogo in forma schematica:
Quinta parte – Legittimazione culturale dei social media: ipocrisia della gratuità, dell’identità e della socialità
È gratis e sempre lo sarà
Un altro degli aspetti cruciali per il successo dei social media è la propaganda pubblicitaria e la difficoltà a evidenziarne l’ipocrisia. Se penso ad un lugubre locale di videopoker con scritte luminose sulle vetrine “è gratis e sempre lo sarà”, o “connettiti con tutto il mondo”, viene da sorridere, ma la realtà delle cose non poi così lontana.
Il fatto che non sia gratis, e che quindi non potrà rimanere gratis per sempre, viene chiarito dal fatto che Zuckerberg e gli altri proprietari dei social network siano diventati fra gli uomini più ricchi del pianeta. Con l’avvento dell’era digitale il meccanismo di acquisto di un prodotto diventa un po’ più complicato, nel senso che i social vendono spazi pubblicitari (quando va bene. Quando va peggio sono i nostri dati, ma è tutto un unico business) alle aziende pubblicitarie. Il prezzo varia in misura proporzionale al tempo passato online dagli utenti. Questo significa che è l’attenzione a essere diventata un nuovo modo di pagamento del prodotto. Il consumismo digitale si basa infatti su questo principio: il prodotto è lo stesso utente, nel senso del suo tempo e della sua attenzione.
Il tempo vale meno dei contanti? No. I social quindi non sono gratis. Lo sarebbero soltanto se il patrimonio di Zuckerberg venisse distribuito nuovamente fra gli utenti di Facebook e Instagram. Il resto è ipocrisia che sfrutta la lentezza del senso comune e dell’opinione pubblica a sviluppare griglie concettuali adeguate alle evoluzioni tecnologiche.
Che cosa speriamo di vincere con i social media: ipocrisia dell’identità e della socialità
Si accede ai social media soprattutto come via di fuga dai nostri momenti di vuoto o stress emotivi. Su questo punto i social sono davvero indistinguibili dalle slot machine. Ma passiamo così tanto tempo online soltanto per dimenticarci di noi stessi? Se con le slot machine la speranza di vincita economica è il paravento dietro cui nascondere il bisogno di sospendere i problemi, qual è il paravento che spinge a utilizzare i social media? Uno dei desideri principali è quello di vincere “valore” per la propria identità e per le proprie relazioni sociali. Si entra con bagaglio di monete (l’identità e le relazioni sociali al momento) e si spera di uscirne avendone aumentano il valore.
Ma come nel gioco d’azzardo si esce con meno soldi di quanto si è entrati, così sui social media la speranza di disconnettersi con un’identità e delle relazioni sociali rafforzate naufraga puntualmente. Il ritorno al mondo reale, nella maggioranza dei casi, è accompagnato da un senso di solitudine più marcato. Questo perché le vincite sono minori delle perdite: l’investimento di tempo e desideri è maggiore dei feedback che si ottengono. Ma anche perché, nei casi di effettivo full, il “valore” dell’identità sui social si basa per lo più su pseudo-esperienze all’insegna del narcisismo, di un circolo di autoreferenzialità che, in quanto tale, non può mai veramente gratificare: per quanto illuda in termini di like, non può produrre un effetto positivo e duraturo per il senso d’identità nella vita reale. Il valore delle proprie relazioni digitali risente del difetto originario di fondarsi su contatti disincarnati, ricadendo nella categoria della triste popolarità social – mediatica che, di nuovo, viene sostenuta più dalla dipendenza dalle scariche di dopamina piuttosto che da un contatto reale con i propri desideri.
L’equivoco di partenza è quello di non rendersi conto che usiamo i social non come un mezzo per ottenere dei risultati, per fare qualcosa, ma soprattutto come un fine in se stesso, come una distrazione compulsiva che prescinde dai contenuti e dalle nostre azioni. Di fatto, non abbiamo scopi online. Come per slot machine la vincita potenziale è il pretesto per sospendere compulsivamente le insicurezze, così nei social media l’affermazione dell’identità e lo sviluppo delle relazioni sociali rappresenta un uguale pretesto.
La questione non è quella di spiegare all’utente che le sue attività sono all’apparenza dotate di poco significato, si pensi per esempio alle Snapstreak, ma capire che per lo stesso utente non fa nessuna differenza. In questo senso, così come nel caso dei media digitali che trasformano l’informazione in intrattenimento indifferenziato, si sta andando verso la sostituzione di esperienze reali, come quelle incarnate, con pseudo-esperienze il cui contenuto non interessa mai realmente.
I social come soluzione alla crisi dell’identità e del senso di comunità
In che senso Facebook, Instagram, Snapchat sono “sociali” e contribuiscono a migliorare le nostre connessioni del mondo quando si basano per lo più consapevolmente sullo sfruttamento dei nostri bisogni “di legame sociale” attraverso l’induzione di esperienze pseudo-relazionali con l’obiettivo di creare una dipendenza?
L’opportunità di una “connettività globale” sembrerebbe in realtà come una delle risposte migliori alle insicurezze prodotte dall’età contemporanea, che verrebbe vista anche in una luce positiva, emancipatrice, in quanto generatrice della possibilità di avere contatti sociali senza precedenti, con tutto il mondo, grazie proprio alla globalizzazione tecnologica.
Il tasto delle relazioni sociali, insomma, è estremamente delicato nel nostro tempo e i social network, non a caso, hanno deciso di puntarci. La questione infatti del legame sociale, nella forma di relazioni al di fuori della propria cerchia familiare e di amicizie è, senza ombra di dubbio, una delle questioni decisive del nostro tempo. Si può infatti affermare che la crisi del senso di appartenenza ad una comunità sia una della causa principali dei malesseri collettivi contemporanei. L’epidemia di forme di ansia e depressione deriva per buona parte dal senso di atomizzazione e isolamento sociale che l’individuo sperimenta quotidianamente. La conseguenza più tangibile della crisi della socialità è infatti l’erosione di una percezione fondamentale per la propria identità: la capacità di agire concretamente nel mondo, di avere un’influenza sulla vita, di riuscire ad essere un “attore protagonista” dell’esistenza, perché “da soli”, ovvero nell’incapacità di pensare e agire se non individualmente, ci si sente per lo più schiacciati, a ragione, dalle sfide sistemiche poste dall’era globale: dalla crisi economica al cambiamento climatico, dell’escalation di violenze pubblicate quotidianamente sui media, all’ipotesi di guerre e terrorismi globali, si arriva a mettere in questione la stessa sopravvivenza dell’umanità. Questa erosione del senso di “influenza” sul mondo, inestricabilmente privato e pubblico, non può che generare stati di ansia (perdita di presente e futuro) e depressione (passività e inefficacia di ogni azione).
Senza il processo di legittimazione culturale operato da Facebook, Instagram e Snapchat non si può davvero spiegare come mai il numero crescente di denunce e critiche continui ad avere poco effetto, tanto sull’individuo che sull’opinione pubblica. I social media fanno affidamento su vulnerabilità psicologiche che non sono solo quelle relative alle scariche di dopamina, ovvero al bisogno di cancellare i propri stati emotivi negativi, come nel caso delle slot machine, ma anche alla capacità di rivestire queste pseudo-esperienze di gratificazione con un’ideologia dell’identità e della socialità a cui risulta quasi impossibile resistere nello scenario di crisi contemporaneo.
In un circolo di sospensione delle chance di soddisfazione i desideri virtuali sostituiscono sempre di più quelli reali perché il mondo pone un attrito crescente e troppo complesso per le proprie aspettative. Una pseudo-esperienza di identità e di socialità corrisponde ad un’esperienza del desiderio-sotto-controllo, un desiderio da cui è stato cancellato il rischio di frustrazione.
Sesta e ultima parte: Epilogo – La vita online è un’anoressia del desiderio
Il controllo sulla fame dell’Altro: una pratica disciplinare contro il rischio di frustrazione
Che cosa rappresenta il desiderio-sotto-controllo che esperiamo online? In che cosa consiste l’ansia di autosufficienza, ovvero un’esperienza del desiderio (per esempio di identità o di socialità) da cui viene espulso il rischio di una frustrazione? Per spiegare il significato del desiderio online come desiderio-sotto-controllo possiamo provare a fare un parallelismo con una patologia psicologica che ha come tema centrale il controllo sul desiderio: l’anoressia. Nell’anoressia si vede come l’Altro, inteso come l’altra persona in carne ed ossa, venga trasformato simbolicamente da oggetto della delusione al proprio corpo e come questo vada in contro ad una progressiva devitalizzazione, come soluzione finale al problema del rischio di frustrazione. Il progetto anoressico viene assorbito in un circuito chiuso che, attorno all’oggetto-cibo (ridotto a oggetto-indifferenziato, a oggetto-niente), costruisce una pratica disciplinare che eleva il controllo a modalità esistenziale.
Il progetto della disciplina online è equivalente nella forma in cui l’oggetto del desiderio viene ridotto a oggetto-indifferenziato, a oggetto-sotto-controllo, alle pseudo-gratificazioni della vita online. Tutto ciò che riguarda la vita connessa deve essere pianificato in nome di un governo di sé che deve escludere la possibilità di un’esperienza di frustrazione. Nella vita online la tecnologia serve ad esercitare un controllo equivalente sulle emozioni e sul desiderio (che sono l’equivalente del corpo per chi soffre di anoressia), che porta ad una progressiva illusoria autosufficienza.
Una delle frequenti circostanze relazionali che accompagnano l’inizio della disciplina anoressica riguarda infatti la fine di una relazione sentimentale, dove il soggetto sperimenta appunto, la mancanza di autosufficienza. L’anoressia sembra promettere il raggiungimento di una condizione dove si può vivere senza l’Altro. Nell’anoressia però il rifiuto dell’Altro si trasforma ben presto nel controllo del corpo, che diventa esso stesso un Altro su cui rifarsi.
Come il paziente anoressico dice: “non ho fame”, così l’utente dice: “il virtuale è il reale”. Come nel progetto anoressico ci “si nutre”, ci si riempie del controllo sul desiderio di cibo, così il consumatore online si nutre del controllo sul desiderio, altrettanto naturale, di identità e socialità.
La tecnologia è lo strumento di controllo sulla fame dell’Altro, sul desiderio del corpo che, in quanto esperienza di alterità interna ed esterna, evoca potenzialmente una delusione, espone ad un rischio. Per Altro si possono intendere tutte le dimensioni che rimandando ad un rischio, ad un’esperienza non prevedibile o negativa rispetto a se stessi e ai proprio desideri: l’Altro quindi sono il corpo e le sue emozioni (che ci rendono “passivi”, che sono imprevedibili), ma anche l’incontro intersoggettivo (per esempio l’altra persona all’interno di una relazione sentimentale) e con il mondo (per esempio un’esperienza lavorativa): tutto ciò che può opporre una resistenza, una negazione al proprio controllo.
La tecnologia digitale offre un rivestimento al sogno illusorio del controllo, legittima il “non ho fame”, potenzialmente autodistruttivo e mortifero per l’utente così come per la persona anoressica, attraverso scariche di soddisfazioni fittizie e una generalizzazione a tutta la società della patologia, che viene così normalizzata.
Dal corpo all’identità e alla socialità sotto controllo, senza rischi: la pulizia continua del profilo e l’autoreferenzialità delle bacheche
I social network sono il parco giochi per la nostra ansia di controllo. Precisamente, come la persona anoressica esercita il controllo sul proprio corpo, così noi online esercitiamo la nostra ansia di controllo sull’identità e sulla socialità. Bisogno ossessivo di igiene, come con le pulizie di casa. Controlliamo spasmodicamente i nostri profili e post, ma non solo. L’altro elemento fondamentale è il controllo sulle eventuali esperienze negative, di frustrazione: per questo è importante che i social siano in realtà spazi dell’autoreferenzialità, lindi e risplendenti. Ci vengono mostrati allora soltanto i contenuti della nostra cerchia di conoscenze e soprattutto prevalgono nettamente i feedback positivi dei like e delle emoticon sorridenti (continuare ad illudere gli utenti sulla presenza di una dialettica possibile: inserire nuove emoticon, ma soltanto positive). I commenti critici prendono di solito troppo tempo rispetto ad un like, ma soprattutto sui social, semplicemente, ci si va per stare bene e sentirsi apprezzati, non per criticare o ricevere dislike. Sono un mondo dorato fittizio: tutti si vogliono bene e tutti hanno vite molto interessanti, e ovviamente tutti sono dotati di un talento “artistico” che non esitano a mostrare: “arte” e auto-celebrazione sono la via di fuga principale nella loro illusione di essere, un fare concreto, dalle brutture del mondo vero, quello là fuori.
L’oggetto del desiderio è indifferente: online non esistono scopi personali
Quante volte utilizziamo uno strumento tecnologico, soprattutto digitale, per uno scopo concreto e personale? Quante volte invece ci facciamo distrarre dalle funzioni o dalle possibilità dello strumento? Quanto ci piace questa distrazione? Quando ci facciamo coinvolgere da questo intrattenimento continuo, da questo “Infinite Jest”? Di fatto il desiderio di stare online è diventato per lo più il desiderio di non desiderare, ovvero il desiderio di controllo sulla fame di cibo della persona che soffre di anoressia. Il cibo corrisponde alla vita reale per gli utenti: l’equivalente di un’identità e una socialità non virtuali, e quindi evocanti un rischio. Desiderare online equivale a desiderare la sostanza di una dipendenza da una soddisfazione, anche apparente, ma che “sappiamo” che ci risparmierà il rischio di frustrazione. La persona anoressica e l’utente online si nutrono di uno stesso controllo. Lo ricercano, ne discutono, lo curano.
Si veda l’esempio della Snapstreak di Snapchat per gli adolescenti, per i quali risulta ormai sempre più difficile distinguere tra reale e virtuale. Lo scopo primario, che era comunicare, viene sostituito da un’esperienza digitale ripetitiva, vuota e fine a se stessa, che sostituisce l’originale e ridefinisce cosa significa comunicare o essere amici. Il tutto, la progressiva de-corporeizzazione delle relazioni e la riformulazione dei concetti che le definiscono, è funzionale al profitto del business digitale.
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