Turchia, blocco 9 del carcere di massima sicurezza Silivri: in una cella d’isolamento è rinchiuso da due settimane Deniz Yücel, giornalista turco-tedesco e inviato del quotidiano Die Welt. Le accuse che le autorità turche e la stampa filogovernativa rivolgono al reporter sono tante: “terrorista” amico del PKK curdo, diffamatore dell’immagine della Turchia in Germania, fiancheggiatore del movimento gülenista, agente dei servizi segreti tedeschi, complice degli hacker anti-governativi.
La verità, però, è una: Yücel è prigioniero del governo di Recep Tayyip Erdoğan e dell’escalation strategica di un nuovo nazional-islamismo neo-ottomano. Deniz Yücel è stato incarcerato perché è un giornalista libero, dissacrante, indipendente.
La causa scatenante dell’arresto, da un punto di vista pratico, è l’uso da parte di Yücel di documenti diffusi da RedHack, un gruppo hacker che ha recentemente diffuso le email di Berat Albayrak, ministro turco dell’Energia e genero dello stesso Presidente Erdoğan. Nei mesi scorsi, Yücel ha scritto due articoli per Die Welt, in cui ha fatto riferimento ai contenuti di queste email. Gli articoli contestati dai giudici turchi, quindi, sono stati scritti in tedesco e per un giornale tedesco. Si tratta di un dettaglio cruciale: il giornalista, che ha il doppio passaporto, è stato arrestato in Turchia in quanto cittadino turco, ma per articoli scritti e pubblicati in Germania. Questo significa che, incarcerando Yücel, il governo turco ha voluto attaccare frontalmente la libertà di stampa in Germania.
Perché? Il motivo è molto semplice. Erdoğan è riuscito a mettere a tacere la stampa d’opposizione in patria, ma non è ancora riuscito a controllare l’accesso all’informazione delle diverse comunità turche in Europa. La più grande, come noto, è proprio in Germania, dove vivono 3 milioni di donne e uomini che hanno almeno un genitore di nazionalità turca. Tra queste, ci sono 1,4 milioni di persone con il doppio passaporto, tutte con il diritto di voto in Turchia. Cittadini della diaspora che, dalla Germania, voteranno per l’imminente referendum costituzionale del prossimo 16 aprile, in un quesito elettorale con cui Erdoğan spera di eliminare qualunque possibilità di contrasto al suo potere e a quello del suo partito, l’AKP.
Deniz Yücel era già stato arrestato una prima volta nel giugno 2015, dopo una conferenza stampa sul confine turco-siriano, dove lui e altri colleghi avevano posto delle domande scomode sui rapporti tra le autorità locali e l’Isis. Nel marzo 2016, poi, Die Welt aveva fatto rientrare in Germania il suo corrispondente, per questioni di sicurezza. Il reporter, però, era tornato in Turchia il mese successivo e aveva così continuato a scrivere fino allo scorso 14 febbraio, giorno del suo arresto.
Con l’hashtag #FreeDeniz si stanno ora moltiplicando le iniziative tedesche per la liberazione di Yücel: soprattutto a Berlino, città dove il giornalista ha studiato e lavora da anni. A mobilitarsi sono i suoi colleghi, gli amici, attivisti, i sindacati dei giornalisti, così come numerosi cittadini tedeschi, turchi, turco-tedeschi e della comunità curda.
Si chiede una soluzione politica, si chiede che il governo tedesco difenda un uomo arrestato per aver fatto il proprio lavoro. E se la reazione e la mobilitazione tedesca per Yücel è stata certamente preventivata – se non cercata – dal governo Erdoğan, non si può ugualmente tacere, anzi, si è subito deciso di allargare le proteste in sostegno dei più di 150 giornalisti attualmente imprigionati dal governo turco.
Il governo tedesco, da parte sua, ha deciso di muoversi per il corrispondente di Die Welt, ma le cose non sono semplici, visto che lo stesso Presidente turco ha più volte accusato il giornalista e ora ha annunciato un processo contro di lui, definendolo un “terrorista”.
Yücel viene utilizzato come una pedina in un gioco pericoloso e rovente: la Turchia sa di poter provocare e ricattare l’esecutivo Merkel, grazie all’ambiguo accordo sulla cosiddetta crisi dei migranti. Non solo: Erdoğan e i suoi sanno anche che la Germania, malgrado tutto, cercherà di essere cauta, visto che non può rompere troppo velocemente con uno degli eserciti più numerosi al mondo: sarebbe un enorme problema strategico, soprattutto ora che la Nato traballa.
Come tutti i populisti identitari, ovviamente, Erdoğan ha bisogno di un nemico perenne, da utilizzare come antagonista narrativo, così come gli serve un’ideologia per non smettere mai di agitare e controllare la maggioranza che lo sostiene.
Il governo turco, quindi, tira la corda, più che può, oltre il limite, ancora di più.
Questo gioco di provocazioni, però, è anche un segno di debolezza, di preoccupazione, di nervosismo. Secondo molti osservatori, Erdoğan non è più sicuro di vincere il suo referendum e, nonostante le continue epurazioni, non può avere la certezza di controllare completamente le forze armate del suo paese.
Non resta quindi che alzare il livello dello scontro contro i nemici esterni, inneggiare alla guerra santa e avvicinarsi sempre di più all’ultradestra xenofoba turca. Insomma, giocarsi il tutto per tutto. Erdoğan è di fronte a un bivio: fallire completamente o riuscire a fare un salto di qualità imponendosi oltre la democrazia formale, reintroducendo la pena di morte e puntando al sultanato tramite il presidenzialismo.
Le strategie del governo turco, quindi, non vengono solo utilizzate in vista del referendum costituzionale, ma si presentano come costituzionali nel loro complesso, vale a dire che sono pensate come strutturali per l’impostazione di una nuova Turchia totalmente autoritaria e sostanzialmente svincolata dai rapporti con il vecchio blocco atlantico.
Come tutti i populisti identitari, ovviamente, Erdoğan ha bisogno di un nemico perenne, da utilizzare come antagonista narrativo, così come gli serve un’ideologia per non smettere mai di agitare e controllare la maggioranza che lo sostiene. Il nemico perenne è stato trovato nell’Europa, mentre l’ideologia che viene propagandata è una specifica forma di nazional-islamismo.
Un nazional-islamismo anti-europeo e neo-ottomano, con cui Erdoğan non cerca solo di imporsi tra i turchi in patria e nella diaspora, ma spera di accreditarsi anche presso settori dell’islamismo politico sunnita in Medio-Oriente, in Nord-Africa e nella stessa Europa.
In questo scenario le autorità turche hanno deciso di arrestare e rinchiudere in galera Deniz Yücel e più di 150 giornalisti troppo indipendenti, che fanno troppe domande, che scrivono senza ubbidire. Il messaggio di queste ondate repressive è chiaro: il governo turco odia i giornalisti liberi. Perché ne ha una paura fottuta.
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