La prima cosa che mi colpisce è il silenzio assoluto che mi circonda, nonostante siano solo le 2 di pomeriggio; le macchine si incrociano veloci ma il loro rumore sembra essere attutito, inglobato da questi enormi palazzi tetri. Le poche persone che si vedono in giro camminano spedite, nonostante l’impaccio dei numerosi strati di vestiti, come se stessero scappando da qualcosa o qualcuno, con lo sguardo basso e l’espressione arcigna. Qui ho la sensazione di essere minuscola.
Gli edifici sono alti 14 piani e tutti, al piano terra, sono occupati da commercianti che vendono ogni tipo di mercanzia: farmacie, ristoranti, negozi di abbigliamento, scarpe, gioielli, kebab. In alcuni luoghi, in alcuni locali, è come se il tempo si fosse fermato. Come ad esempio il vecchio Sybille, un bar antico e mai rimodernato, dove si incontravano i vertici della DDR per discutere di politica mentre bevevano un caffè.
Frankfurter Allee è una delle più antiche vie di comunicazione di Berlino, una strada lunga poco più di 3 chilometri inizialmente costruita per scopi militari e poi divenuta snodo della rotta fra Berlino e Francoforte. Rinominata nel 1949 Stalinallee in occasione del compleanno dell’allora Segretario Generale del partito comunista dell’Unione Sovietica, questo viale doveva rappresentare il simbolo dell’utopia socialista, incarnando la perfezione urbana: era il punto di partenza da cui estendere un modello architettonico verso tutta la DDR.
Oggi la strada si inserisce in una cornice decisamente più colorata: il quartiere di Friedrichshain, una delle aree più alla moda della città, pieno di bar, ristoranti, discoteche. Difficile immaginare fosse il cuore di Berlino Est. Al Volkspark Friedrichshain, il Parco del Popolo, situato al confine nord con il quartiere di Prenzlauer Berg, mi soffermo ad osservare i numerosi bambini che guardano con occhi sognanti le varie statue o che, noncuranti del freddo, giocano a rincorrersi. Il luogo è abbandonato, un po’ tetro, anche a causa dell’illuminazione filtrata dalla vegetazione fitta. Mi reimmergo sulla strada, nel modo più naturale possibile, mi avvicino ai palazzi. Anche al tatto questa parte di Berlino è dominata dai contrasti. Il cemento duro, ruvido, si alterna al liscio dell’acciaio e del vetro.
Questi alveari che affiancano gli enormi viali sono stati costruiti seguendo il canone del classicismo socialista: “solo il meglio per il lavoratore!”. Il meglio, a quei tempi, era rappresentato da riscaldamento e acqua corrente. Si parla di prefabbricazione pesante, di blocchi di cemento che gli stessi cittadini, di loro spontanea volontà, al termine della giornata lavorativa, hanno contribuito a costruire.
Frankfurter Allee era parte integrante del progetto di ricostruzione post-bellica del quartiere di Friedrichshain, secondo la visione di Hans Scharoun, esponente di spicco dell’architettura organica tradizionalista. Il progetto prevedeva che la strada collegasse Mitte, quartiere del centro, con Friedrichshain, spostato più a Est, e che servisse come tracciato principe per le parate militari. Nel 1950 arriva un cambio di rotta: Frankfurter Alle, come la consecutiva Karl-Marx Allee, deve rappresentare al meglio l’appena nata DDR e seguire i canoni di costruzione edilizia che arrivavano direttamente dal quartiere generale, cioè a dire Mosca. Lo stile architettonico utilizzato fino a quel momento viene ritenuto troppo moderno e messo in stand by, lasciato incompiuto, nascosto dai nuovi edifici che crescono intorno. A progettare è Hermann Henselmann, cui sono legate le maggiori opere architettoniche tedesche degli anni della DDR. Qui siamo lontani dai canoni urbanistici occidentali, non ci sono fronzoli, ma solo slarghi e piazze monumentali. L’imponenza dei palazzi regna sovrana.
Il lungo viale che parte da Karl Marx Allee e si estende attraverso e oltre tutta Frankfurter Alle è percorso dalla linea U5 della metropolitana. La fermata di Frankfurter Allee costituisce anche uno snodo di interscambio con la ferrovia urbana S-Bahn, la cui graziosa stazione fatta di mattoni rossi, ormai è totalmente coperta alla vista dall’imponenza della struttura del Ring-Center, un centro commerciale che sembra esserglisi avviluppato intorno. Uscendo dalla stazione mi ritrovo ferma al semaforo insieme ad altre cinque persone, è rosso, ma non ci sono macchine in arrivo da nessuno dei due sensi. Istintivamente mi porto in cima al gruppo e faccio per attraversare, a casa lo chiamo “attraversamento coatto”. Poi però, un attimo prima di posare la scarpa sull’asfalto giù dal marciapiede, percepisco i loro occhi, tutti su di me. Mi ritiro, immergo la faccia nella sciarpa e attendo che il semaforo diventi verde. L’attesa è interrotta dall’avviso sonoro per i non vedenti che precede il cambio di colore.
Le strade grandi, gli imponenti palazzi, mi mettono addosso una strisciante sensazione di claustrofobia. Chissà come ci si sente ad osservare il mondo attraverso una di quelle minuscole finestre: Berlino ha una vocazione innata al ricordo. Non un ricordo artistico, di fasti o popolazioni che hanno fatto la storia, quanto, piuttosto, un monito, per non dimenticare ciò che è stato.
Mi muovo ancora, e alla fine mi imbatto nel museo della Stasi.
Dall’aspetto cupo e opprimente questa costruzione dal di fuori sembra un ospedale decadente, e allora quasi non ti accorgi che sia lì ad attenderti. Stasi è l’acronimo di Ministerium für Staatssicherheit ovvero il Ministero della sicurezza di stato, nonché l’organizzazione di sicurezza e spionaggio su cui si basava il regime di terrore durante gli anni della DDR. Entrarci è come stare dentro il film di Florian Henckel von Donnersmarck, “Le vite degli altri” e da un momento all’altro ti aspetti che sbuchi fuori il capitano Gerd Weisler con le sue cuffie, pronto ad ascoltare ogni tua conversazione.
Mi lascio alle spalle la sensazione di oppressione che mi ha accompagnata durante la visita ed esco. Non mi ero resa conto di quanto caldo facesse lì dentro e faccio un respiro profondo. Mi accorgo di non aver prestato attenzione a molte cose durante la mia passeggiata. Ad esempio, non ho utilizzato l’olfatto. Non ho percepito nessun odore, semplicemente perché non ce ne sono. Nessuno che cucina e quindi nessuna ventata proveniente da qualche finestra per caso lasciata aperta, nessun odore proveniente dai baracchini di cibarie, niente vegetazione o profumo di erba tagliata, nessun odore nell’aria. Chiudo gli occhi e a testa in su prendo respiri il più possibile profondi. Niente. Riesco soltanto a gelarmi le vie respiratorie, avvicinandomi a un attacco di torcicollo fulminante.
Per il calore avrai tempo, mi dico, il chiasso non ti mancherà mai, mi ripeto. Tornata in metropolitana scopro il garbo di mezzo sorriso che uno sconosciuto mi regala nel vagone. È come se mi accogliesse qui, in questa grande città. E io scelgo di restarci, perché in fondo questo sedile non è ancora così scomodo e in fondo non fa poi troppo freddo.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin