Spoiler: questo articolo è zeppo di luoghi comuni, esagerazioni e nomi di personaggi famosi
La Spiaggia di Levante, anche detta Spiaggia Attrezzata di Forte dei Marmi Sud, è gestita dal personale del Bagno Piero, una tra le strutture balneari fortemarmine più rinomate e antiche.
In questa giornata di luglio infrasettimanale gli avventori sono pochi. Soltanto una decina fra i quaranta ombrelloni disponibili sono occupati. Sono però quasi tutti prenotati per il week end.
Cercando parcheggio sul lungomare, mi viene in mente il dissing tra Roberto Santini, proprietario del Bagno Piero e Flavio Briatore, Conte di Twiga, freschissimo stabilimento con annessa discoteca di alto livello e musica brutta, situato giusto qualche decina di metri più avanti, ma oltre il confine, a Pietrasanta.
Una turista straniera è sul bagnasciuga, fa giocare la sua bambina con secchiello e paletta. Marco, il gestore degli ombrelloni, si avvicina. Indossa una maglietta bianca, sulle spalle una scritta in azzurro cielo: Crew.
Ricorda alla ragazza che non ha pagato l’ombrellone e che non può stare lì, sulla spiaggia, ad un metro dal mare che, a conti fatti e anche banalmente, è di tutti. Lei, in un inglese dalla chiara inflessione francese, risponde che non capisce l’italiano. Marco capisce poco l’inglese, invece.
“You pay now.”
La ragazza, a quelle parole s’indispettisce.
Chiede il motivo, dice che è sul bagnasciuga, che non vuole l’ombrellone. Marco risponde che non può stare lì. La discussione s’incendia. La ragazza dice che Marco dovrebbe essere più educato, lui capisce che lei gli sta dando del pazzo bipolare. Lui gesticola, indicando prima il mare poi lo stabilimento, allora lei gli dà del pazzo veramente. Marco sbraita e conclude che entro cinque minuti la vuole rivedere al bar, per pagare l’ombrellone.
Prima di andarsene si rivolge al bagnino, fino a quel momento rimasto in silenzio a osservare la scena, insieme ad alcuni bagnanti.
“Fra cinque minuti mandamela al bar, altrimenti m’incazzo.”
Mentre copre il centinaio di metri di spiaggia che lo dividono dal bagnasciuga alla sua postazione e al Libro Magico delle prenotazioni, l’anziano dell’ambito terzo ombrellone in quarta fila – prenotato a luglio 2016 per luglio 2017 – con accento del nord, domanda a Marco “È tedesca vero?”
“No, francese.”
“Tutti uguali.”
Marco mi spiega che la francese è stata ostile, che se avesse reagito in modo più educato, polite, probabilmente l’avrebbe anche fatta restare una mezz’oretta. Gli rispondo che forse alcuni stranieri non sanno o non concepiscono il fatto che una spiaggia vada pagata. A Marco scoppia una vena dell’occhio sinistro.
Nello stabilimento attrezzato di Forte dei Marmi, che è comunale, i prezzi sono più abbordabili rispetto agli stabilimenti privati. Ombrellone, due sdraio e un lettino vengono 25 euro al giorno. Se si prenota pacchetto settimana oppure mese il prezzo scende. Questo in bassa stagione. Agosto aumenta. Per i residenti i prezzi scendono ancora. È una buona cosa se si pensa che al Bagno Augustus, ex dimora estiva della famiglia Agnelli, il prezzo base giornaliero è tra i 100 e i 150 euro. Ciumbia che lusso, come direbbe quel tale che di spiagge versiliesi ne ha frequentate parecchie.
Io bazzico l’estate versiliana da quando ho memoria. Mio nonno materno, per tutta una serie di incastri parentali, possedeva una casa a Seravezza, cittadina di tredicimila anime, frazioni comprese, incastrata tra le Alpi Apuane. La mia famiglia, da parte di mamma, è compresa tra quella fascia di turismo milanese di proletari affezionati. Questo significa che abbiamo, da sempre, fatto a schiaffi con la nobil-borghesia di anno in anno sempre più incombente al Forte. Fino al declino, ma di questo ne parlerò fra giusto nove righe. Ad ogni modo ci siamo difesi bene. Noi si faceva le vacanze tutti insieme, ed eravamo molti. Acquistavamo numero due pacchetti ombrellone, lettino, sdraio (2) per un mese, quando si era in buona per l’intera stagione, dividendo le spese che a quel punto diventavano sostenibili, considerando che eravamo dai quindici ai diciotto – figli e cugini di primo, secondo e terzo grado esclusi – e ci si metteva sotto l’ombrellone a turno. Chi la mattina e chi il pomeriggio. Era come essere nella spiaggia libera di Rimini il quindici di agosto, ma pagando. Altra storia l’avvocato amico di mia zia Nives, anche lui milanese, che affittava, oltre al suo ombrellone, anche quello dietro e quello davanti, al fine di stare più tranquillo e non avere vicini. Crescendo ho concepito, nella sua, la più stupida forma di isolazionismo appurabile.
Quella degli anni ‘80 e ‘90 era una Forte dei Marmi diversa, come lo era quella di un ventennio e poi un decennio prima, dopotutto. Il fatto è che non so se si può parlare effettivamente di decadenza. Nell’effettivo non credo si sia mai verificato un regresso economico. Però i duemila hanno significato la fine degli anni d’oro de La Capannina, per fare un esempio su molti. La Capannina del duo stupefacente Jerry Calà e Umberto Smaila, che cito perché stimo come padri spirituali, senza contare tutti gli altri noti e notissimi che ci hanno transitato anche prima di loro e che hanno colorato quelle spiagge e quelle strade di un’eleganza con pochissimi precedenti nello stivale.
Massimo Moratti contro gli Agnelli, Mina contro Edith Piaf. Giuseppe Ungaretti contro Eugenio Montale.
Totò. Passo e chiudo.
Non che i VIP adesso non li si veda più in spiaggia, sia chiaro. Durante una passeggiata sul bagnasciuga, capita sovente il rischio di inciampare nei paparazzi, seppelliti nella sabbia per non essere scoperti. E nei polpacci di titanio dei calciatori sdraiati a prendere il sole. Manco fossero Iron Man in ricarica.
I VIP ci sono, ma è più facile trovarli oltre il confine con Pietrasanta, la nuova tendenza, lo status quo del momento. Per colpa dei russi, dicono, ma di questo ne parlerò fra giusto sessantatré righe.
Pietrasanta è più bella di Forte dei Marmi, diciamocelo. Non Marina di Pietrasanta, che è una serie di viuzze semi-deserte, un Tennis Club, sensi unici pensati da uno con la labirintite, zone a traffico limitato e parcheggi solo a pagamento. Pietrasanta, quella vera, è capace di stregare tutti e, in effetti, sono finiti quasi tutti lì. Quelli che contano quantomeno. E qui parte il dissing facebook della Velina.
Comunque puoi anche dare la colpa ai russi, di cui parlerò fra giusto cinquantanove righe, però il suo fascino ce l’ha. Per questo in centro paghi una spuma tre euro e cinquanta fino alle sei del pomeriggio e poi sette euro per l’aperitivo. Che io vorrei dirgli: ma voi l’avete capito cos’è una spuma? È tipo la bevanda della classe operaia. La spuma la beviamo solo io, gli ultrasettantenni reduci e i socialisti. Che il mio amico Francesco, da ragazzino, con la Spumador ci faceva colazione insieme al cornetto. Non potete farcela pagare tre euro e cinquanta.
Però Pietrasanta è bella. Anch’essa, come la cugina Forte, è un centro di lavorazione del Marmo di altissimo livello. E poi possiede la pineta de La Versiliana, vero gioiellino che accoglie, ogni estate, concerti internazionali e spettacoli di teatro. A Pietrasanta non ci sono i russi. Forse.
In un primo pomeriggio troppo afoso per portare mio figlio di un anno in spiaggia, andiamo al Parco Giochi Sabin di Forte dei Marmi. Inizialmente siamo io, lui e nessun altro, con a disposizione tutti i divertimenti solo per noi: altalene, scivoli, casette di legno, panchine per riposare. Poi il parco giochi si popola, lentamente. Di bambini, di nonni, ma soprattutto di filippine vestite come Gegia quando interpreta Caramella in “Professione Vacanze” di Vittorio De Sisti. Sono le babysitter dei figli dei ricchi. Ed io sono l’unico genitore. E l’unico che indossa infradito. Nonché l’unico che è entrato in città guidando una macchina con un numero di cavalli inferiore a 2000, ma questo nessuno di loro lo sa.
Succede questo: le babysitter arrivano con tutti i frugoletti al seguito, sciolgono il guinzaglio e si raccomandano di non sporcare di terra la Polo di Ralph Lauren bianca. Poi si mettono al telefono in chiamata internazionale e saluti a tutti. Sto enfatizzando la cosa, come farò altre volte durante questo articolo, solo perché mi sento perso e debole e povero, ma ciò che dico non si discosta molto dalla realtà.
Quando arriva mio padre, che indossa la maglia d’allenamento della stagione scorsa dell’Inter, sono tentato di dirgli di andarcene, ma l’amore che provo per mio figlio mi spinge a restare, mio figlio che in questo momento sta cercando di accarezzare un bambino di qualche mese più grande di lui, mentre questi gli chiede ripetutamente a che bagno alloggia, come fosse un lasciapassare per farsi toccare. Chiedo a mio padre di stare con Jonah mentre io esco dal parco giochi per fumare una sigaretta. Mi allontano non tanto perché all’interno non si possa fumare o perché ci sono dei bambini, ma perché fumo tabacco sfuso e chissà cosa potrebbero pensare di me questi nonni e queste babysitter vestite come Caramella che aspiro delle cose rollate mentre indosso le infradito.
Flashback: il giorno prima la mia compagna è al bar della spiaggia attrezzata insieme a nostro figlio che, seduto per terra, gioca con un camioncino di plastica e una palla di gomma. Tale Giovanni, figlio di quelli che stanno al primo ombrellone, quindi sicuramente amici o parenti di uno che conta, gente con i quattrini e le amicizie, come direbbe quella buonanima di mio nonno, si avvicina ed esordisce dicendo che i giuochi di nostro figlio sono brutti.
Allora la mia compagna domanda quali giuochi dovrebbe possedere il nostro primogenito affinché risultino belli.
“Allova, sicuvamente un camion, una pistola e una bici.”
“La pistola d’acqua?”
“No, veva.”
“E il camion?”
“Vevo.”
La mia compagna, che è un occhio di lince ed aveva, in precedenza, notato movimenti strani nel suo sguardo, domanda a Giovanni se la biciclettina tutta cromatina appena dietro di lui è di sua proprietà.
“Sì”
“È molto bella.”
“E vedi di non rubavmela.”
“Ci proverò Giovanni, ci proverò.”
Fine del flashback.
Mio padre indica due bambini che passeggiano su di un ponticello di legno che parte da una casetta di legno e che conduce ad uno scivolo di Swarovski, guardati a vista, incredibilmente, dai propri genitori. Due giovani toscani.
“Quelli sono russi.” mi dice.
“No, sono italiani, ho sentito parlare i genitori.”
“Non sono i genitori, sono i babysitter. I russi li prendono italiani, mica filippini.”
“E perché?”
“I figli devono imparare l’italiano durante le vacanze estive.”
“Ma non ne basta uno?”
“No, devono averne di più degli italiani.”
La prima volta che ho sentito accostare russi a Forte dei Marmi è stato nel libro Morte dei Marmi di Fabio Genovesi. Una piccola perla agrodolce scritta da un romantico capace di rendere romantico un posto che di romantico non ha nemmeno il molo, dato che loro esigono che lo si chiami pontile. E pontile non è una parola romantica.
Però io, onestamente, questa corazzata russa non l’ho mai vista. Ce ne sono, va bene, ma non mi sembra abbiano colonizzato la città. Addirittura l’intera Toscana. Ci sono anche tanti francesi, per dire. Può essere che mi sbagli, però questo mi porta a pensare, e torno a dirlo, che forse questa decadenza fortemarmina è dovuta alla coolness di Pietrasanta. Oppure, la coolness di Pietrasanta è dovuta alla coolness di Forte dei Marmi nell’immaginario dei russi.
Basta affacciarsi sul bagnasciuga nel confine esatto tra Marina di Pietrasanta e Forte dei Marmi e guardare, dando le spalle al mare, prima verso destra e poi verso sinistra. Lì, a destra, c’è Marina di Pietrasanta e la differenza si nota nella gente che fa il bagno o prende la tintarella, negli ombrelloni prenotati, nel benessere dell’individuo e dello stato sociale. Te lo dice anche il mare che, incredibilmente, quando è mosso e fa i cavalloni porta la merda solo dal lato del Forte. Di là, a destra, è cristallino.
Però la brava gente del posto dice che i russi si sono comprati tutte le villettine e villettone, si sono comprati anche il mare e se ne vanno in giro con gli Hummer. E io faccio un incubo in cui il lungomare di Forte dei Marmi è un’infinita colonna, ambo i lati, di Hummer. Solo Hummer. Ed io sono in mezzo a loro, incastrato dentro la mia auto piccola e senza vetri oscurati e senza aria condizionata. Che poi è di mio padre la macchina, perché io non ce l’ho.
Devo tenere per forza tutti i finestrini abbassati e so – dato che è un incubo e posso saperlo senza saperlo veramente – che dietro quei finestrini a specchio che riflettono solo il mio volto grondante sudore e la mia macchina di merda – hanno tutti il volto di Ivan Drago mentre dice Ti spiezzo in due. Centinaia di Ivan Draghi.
E nessuno si muove perché nessuno trova parcheggio e io non posso né fare marcia indietro e optare per fare il bagno nella piscina gonfiabile che i miei genitori hanno regalato a mio figlio per il suo primo anno di età, né suonare il clacson. Perché il mio clacson fa le pernacchie e il loro suona l’inno dell’Unione Sovietica.
E in fondo, chi sono io per immolarmi a giudice di questa causa balneare che, per citare nuovamente Fabio Genovesi, “Al Forte ci sono stati tutti, almeno una volta. Però d’estate, per le vacanze”.
Però noi abbiamo sempre la nostra ancora di salvezza: Seravezza. È lì da sempre, da quando la mia famiglia esiste, e sarà sempre lì, a prendersi la pioggia mentre al mare c’è il sole, a raccogliere artisti pazzi e bravissimi che nessuno conosce e a mangiarsi le montagne che ha intorno per farci la pasta per il dentifricio. A lasciarmi parte dei ricordi più belli e delle conversazioni migliori che ho sentito tra i miei parenti. Mio zio Stefano che all’alba prende su me e mio fratello, ci carica sulla Marbella rosso bordeaux e ci porta sul pontile del Forte per farci vedere come si pescano le anguille. Che poi le si cucina e non le mangia mai nessuno, perché l’anguilla non piace a nessuno in famiglia. Nemmeno a lui. L’annuale tombola di agosto, con mia nonna che compra quarantacinque cartelle e non fa manco un ambo. Mai. Io che ogni giorno, dall’infanzia alla preadolescenza, al ritorno da una giornata al mare, mi sdraio a terra sul sentiero che porta alla casa di nonno, perché è troppo ripido e troppo lungo e io non ci voglio camminare. Mio padre, carico di ombrelloni, borse frigo, sale marino e bestemmie che mi lascia lì da solo, dopo avermi lanciato un ultimo avvertimento: attento alle vipere. Ed io che mi alzo e corro a raggiungerlo, piangendo più di prima. I fiori di zucca fritti della mia bisnonna Laura, toscana doc, ventidue a testa. Le sue perle di saggezza, tipo “tromba di culo sanità di corpo, l’uomo che caga non è mai morto”. Mio zio Pino, che ha suonato con Toto Cotugno e poi ci ha litigato e ha intrapreso la carriera solista con il nome di Francesco Sale e alla fine è diventato un tassista, che mi insegna a suonare la tastiera sulla veranda di casa, con quei suoi enormi occhi azzurri e i capelli laccati all’indietro. Mia zia Nives che è stata ballerina alla RAI e poi commessa alla Standa. Le sue sono state le prime tette nude che ho visto dopo quelle di mia madre. Le camminate con mio fratello e mio padre sui sentieri delle Apuane, tra il Monte Altissimo e il Corchia, la vegetazione fitta e umida e lui, nostro papà, che spinge come uno stambecco senza dire una parola per ore.
Quella è la Seravezza che ci ha un po’ salvato da Forte dei Marmi, alla quale poi, volente o nolente, ci siamo anche affezionati, perché eravamo tra i pochi pesci fuor d’acqua che non sapevano di esserlo, soprattutto noi bambini, e ci godevamo le tipiche vacanze italiane, quelle vere.
Le vacanze di noi che ci perdiamo in spiaggia e ci vengono a cercare in trentacinque, compreso il bagnino, e poi ci trova sistematicamente uno sconosciuto, il quale ci scorta al bar della spiaggia in cui ci hanno trovato. Il bambino Mattia Grigolo si è perso, i genitori sono pregati di venirselo a prendere al Bagno Montecristo. Che io mi chiedo ancora oggi perché ci perdevamo in spiaggia. Cioè, dove cazzo andavamo?
Di me e mio fratello che passiamo decine di minuti, prima di essere prelevati da qualche parente, davanti ai topless mosci e abbrustoliti di signore attempate che sorridono finto imbarazzate, ma senza coprirsi.
Di noi che chiediamo insistentemente un bombolone quando passa quello che urla bomboloni! e che poi ci fanno fare il bagno dopo sei ore.
Delle pizzette di marmo (non a caso) di Valè, che se siete stati al Forte e non le avete mai assaggiate e non vi siete mai scheggiati un molare, non meritate di essere stati al Forte.
Ne avrei di storie da raccontare di questa Forte dei Marmi che forse non è più. Però penso a quanti l’hanno detto prima di me, nel correre dei decenni che ci hanno portato da Montale ai russi. Penso a quelli che lo dicono di ogni città, di ogni cosa che finisce la sua magia. Penso a quelli che dicono si stava meglio prima, oppure non è più come una volta, e hanno ragione loro, è tremendo, ma è la sacrosanta verità e, in fin dei conti, c’è di mezzo sempre lei, quella mascalzona che controlla ogni cosa perché ne è padrona: la vita. C’est la vie.
Che poi, probabilmente, a voi che leggete nemmeno vi interessa granché dei ricordi di chi sta scrivendo.
Neanche se vi dico che ho incontrato Briatore e abbiamo chiacchierato nonostante indossassi le infradito e non le scarpe da vela?
Ma di questo ne parlerò fra giusto _ righe.
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Immagine di copertina: Bagnasciuga del Bagno Levante © Mattia Grigolo
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