Cecilia
L’appuntamento è alle 19.30 a Wilmersdorf. Ho più di un’ora e mezzo di anticipo e decido quindi di scendere un paio di fermate prima per godermi a piedi le vie della città.
Wilmersdorf è un quartiere poco conosciuto dagli stranieri, poco amato dai berlinesi. Inizia più o meno a metà del Ku’damm, là dove le luci si spengono. Là dove i negozi di alta moda cominciano a diradare per lasciare il posto a botteghe di nail art e catene di ristoranti dalle insegne luminose e colorate, che lasciano intravedere al loro interno solo grandi sale buie. Lo Schaubühne si trova in un luogo nel quale non ti aspetteresti altro che un deserto. Poco dopo l’Adenauerplatz, il Ku’damm si allarga su un lato, formando la Lehniner Platz e, fra una palestra e una sala di giochi d’azzardo, appare la struttura circolare del teatro.
L’attesa per ritirare i biglietti al botteghino dura più di 20 minuti. Faccio appena in tempo a recuperarli quando tre suoni di campanella ci avvisano che è possibile entrare in sala. Serena non è ancora arrivata, per cui scrivo il suo nome sul suo biglietto e lo consegno alla signora addetta ai controlli, che mi rassicura, promettendomi che la farà entrare.
Serena
Sono davvero curiosa da quando ho scoperto che Falk Richter, col suo spettacolo, ha dato molto fastidio alle frange di estrema destra tedesche, tanto da rischiare la censura. Le accuse lanciategli si scagliano contro il diritto, proprio di un artista, di criticare politici e personaggi pubblici, attraverso l’ironia, l’umorismo e la satira. Alla fine la vittoria è andata a Falk, insieme ad uno dei palcoscenici indipendenti tedeschi più virtuosi, e alla libertà di espressione.
Siedo nella metro che mi porterà al teatro, insieme ad una discreta sensazione di ansia per aver fatto tardi. Mi assicuro di non perdere la stazione giusta e scendo ad Adenauerplatz. Vado a passo svelto, rallento solo alla vista della scritta illuminata a caratteri cubitali, SCHAUBÜHNE. Per fortuna esistono persone puntuali intorno a me: ho tutte le indicazioni per massimizzare i tempi. Entrando vado a sinistra, devo dare il mio nome alla porta, il biglietto attende fuori dalla sala A e, per quello che so, è intestato ad un’altra persona. Mi presento con un nome da uomo, la donna all’ingresso mi fissa per qualche istante e nel mentre sorride, poi mi consegna il biglietto senza chiedere altro. Il nome scritto sopra è il mio.
Procedo a passo lento, inserita in una fila rispettosa, e attraverso l’ultima tenda nera. Dentro, lo spazio appare un cubo scuro dalle lunghezze non del tutto simmetriche, do un’occhiata e mi sento immediatamente a mio agio. Sono in cerca di numeri che mi indichino il cammino, poi vedo Cecilia seduta da qualche parte nel mezzo e la raggiungo.
Cecilia e Serena
Nell’utero della sala il nero è predominante. Nere le pareti, nere le sedie, nero il pavimento, nera la struttura che regge le gradinate che discendono verso una scena senza palco. Non c’è alcuna divisione fra gli spettatori e gli attori, nemmeno una quinta o un sipario.
Guardo la stanza sopraelevata costruita sulla parte sinistra della pedana, le mura sono teli di plastica trasparente ben tesi, all’interno tracce di arredamento e individui in gesti consuetudinari. L’immagine mi attrae, ma mi abituo subito alla sua presenza. Non c’è il tempo per una conversazione, le luci si spengono e un ragazzo alto e magrissimo entra in scena e inizia a parlare.
I sottotitoli in inglese scorrono su un pannello collocato dalla parte opposta della sala rispetto a dove sta avvenendo l’azione. Decido di lasciarli perdere, di osservare cercando di capire quanto più possibile quel tedesco troppo spesso urlato, convulso, a tratti isterico. Non so se sia stata la scelta giusta metterli così, ma credo di dovermi fidare di chi se n’è occupato. Lo spettacolo è iniziato.
Ogni tanto le grosse spalle del signore di fronte a me si scuotono in una risata, accompagnata da metà del pubblico, mentre il resto degli spettatori rimane troppo impegnato a cercare di afferrare le battute. Tutti i miei sforzi sono tesi a cercare di comprendere le parole, per poter ridere anche io. Così esagero l’ilarità in uno sfoggio di integrazione, ogni volta che riesco a cogliere la comicità.
Dentro le parole sento Berlino, più di qualsiasi altro posto. Emergono stereotipi e contraddizioni di una città di cui non riesco mai a fidarmi fino in fondo. Ascoltiamo. Tutti sappiamo molto bene di cosa stiamo parlando. Siamo bravi a ridere di noi stessi, di quello che siamo. Quasi ci lusinga, sentirci parte del momento. Ma forse è solo la mia impressione.
Le scene si susseguono una dietro l’altra senza un vero filo logico, episodi di vita, non è dato sapere se veri o inventati, si alternano in un racconto spezzato a scene di isteria, feroci imitazioni politiche, danze contemporanee e canzoni suonate alla chitarra in un’improvvisa atmosfera idilliaca da lieto fine. Il ritmo scandisce il tempo, per cui mi ritrovo a immagazzinare pensieri ed immagini sapendo che nella loro natura di ricordo mi si riproporranno all’improvviso nella mente, nei giorni a seguire.
La paura della diversità, la non accettazione di identità discordanti, di sessualità indefinite. Il costante senso di minaccia che aggredisce da ogni parte. L’armonia sociale che viene infettata dal sentimento della paura. Fear, è il nome che usa il regista Falk Richter, “paura”, appunto. Un lavoro che si scaglia in particolare contro l’AfD, Alternative für Deutschland, il partito politico tedesco conservatore ed antieuropeista, che ha ormai infestato con la sua intransigenza l’intero paese. Secondo Falk la società tedesca è divisa in due: da un lato quella aperta, liberale, multiculturale. Accanto un nuovo movimento fascista. Come sarà possibile far coesistere in futuro queste due parti radicalmente opposte?
Xenofobia e accoglienza si affrontano per tutto lo spettacolo, in una lotta fra titani. Le sagome di cartone di Frauke Petry e di altri esponenti della nuova estrema destra tedesca vengono lanciate in aria e distrutte. Un’attrice, stretta in un abbagliante vestito di pailettes blu, imita quella che sembrerebbe essere una bionda soubrette di scarsa intelligenza, che non riesco a riconoscere. Un ballo di cicogne, più simili piuttosto ad avvoltoi gracchianti, parodizza la figura di Beatrix von Storch, altra esponente di AfD tristemente nota alle cronache per aver consigliato alla polizia di frontiera di sparare sui rifugiati che tentano di raggiungere illegalmente la Germania.
Solo ogni tanto, ad intervalli regolari, emergono le contraddizioni autentiche di un pensiero autonomo. Was ist Heimat? Was ist Deutschland? Chiede un attore fasciato in un assurdo completo rosa.
Unità narrative e sessioni di danza moderna simulano gli stati fisici ed emotivi della paura. Si mette in scena il populismo. Stiamo rendendo esplicito qualcosa di grande, una sensazione di cui le nostre coscienze erano già impregnate. Solo poco attente. La compagnia teatrale, eterogenea per cultura e razza, incarna bene l’accostamento delle molteplicità di questi tempi e questi luoghi. Si combina in modo naturale con il tutto. Gli attori sembrano essere a casa, a proprio agio, impegnati nelle prove generali dello spettacolo, mentre nessuno li sta guardando. Si ride e si piange insieme: la scena è ora il prolungamento naturale di ognuno di noi.
Serena
Berlino e la sua poliedrica umanità sono un resoconto efficace di quanto fa parte del quadro generale. La chiusura e la staticità, contro l’evoluzione e la scoperta. Verso la fine, quasi mi commuovo. Ad un tratto, mi sento parte di un qualcosa di più grande, un gruppo di prescelti chiamati in quella stanza per assistere ad una rivelazione. L’angosciante verità che ci accomuna e della quale, improvvisamente, diventiamo tutti consapevoli. Siamo in pericolo e quello che sta accadendo è inarrestabile. Siamo in silenzio e siamo tutti costretti a pensarci. Chissà questa volta per quanto tempo.
Cecilia
Mi accorgo che lo spettacolo si conclude più per gli applausi che per una vera e propria scena finale. Fuori dalla sala io e Serena ci salutiamo, ma io mi fermo a bere qualcosa al bar del teatro, attratta dall’insolita atmosfera che lo anima. I tavolini sono tutti occupati. Nonostante l’ora tarda di una giornata infrasettimanale, gli spettatori indugiano ancora in un bicchiere di vino o in un boccale di birra, prima di scivolare via nella notte. Una signora sola dissimula con nonchalance la ricerca di compagnia, leggendo un saggio sul teatro contemporaneo, tradita solamente dalle rapide occhiate che indirizza all’aitante ragazzo seduto di fronte; un signore dalla lunga barba bianca, in completo lucido di seta rossa, si aggira per il locale con due buste ricolme di spesa.
Il vino mi infonde la profonda consapevolezza del mio privilegio. Straniera non straniera, figlia dei conquistatori spagnoli, degli Illuministi, delle guerre di religione, delle conversioni forzate, di Beethoven e Mozart, degli immigrati fuggiti oltreoceano alla ricerca di una speranza, degli abitanti rimasti a difendere i confini, di un’Europa divisa fra populisti e liberali, figlia di questi ultimi, ma soprattutto di quella borghesia di studi che si masturba compiaciuta della propria vera, o presunta, multiculturalità.
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