John Frusciante - Remain main track
Metto giù il telefono, sono in bagno. Mi guardo allo specchio e ho due occhi gonfi che sembrano uova bollite, quando le cuoci troppo e prendono quel contorno nero e verdastro, malsano.
Era mia madre al telefono.
Mia madre ha il cancro. Ha questa cosa vile e fetente nelle ossa che la mangiucchia pezzettino per pezzettino, le dilania la base portante dell’esistenza, la priva della stabilità di quello che ha di più sicuro, il suo corpo, la scatola dove tiene tutte le sue cose preziose.
Mia madre ha il cancro, ma lei non lo sa.
Io l’ho saputo questa mattina.
Ritorno nella mia stanza e penso che non devo pensare, che per ora va bene, non pensare, che sarebbe assolutamente meglio, un’idea meravigliosa, straordinariamente meravigliosa, non pensare. Ma invece so che da lì a breve, con colpo maestro, sfracellerò la mia testa contro quello che mi tormenta, la sfracellerò e poi ancora la strofinerò per qualche secondo da una parte e dall’altra, perché solo così riesco a distruggere le cose lì dentro che la infestano, distruggendo per bene la mia testa insieme a loro.
Nell’urto, usciranno i ricordi, quelli ammassati laggiù, in quel posto che mi vieta di entrare, perché nasconde tutte le cose proibite e sconcertanti, quelle che fanno male. Usciranno, e io non avrò altra scelta se non farli accomodare, e mettermi a sedere insieme a loro.
Il primo ricordo è del giugno 2014, quando me ne andavo dall’Italia. C’erano tante ragioni dietro, ma una delle più importanti era che non avrei mai trovato me stessa se prima non avessi conosciuto la parte di me che cresceva, si alimentava, senza la mia famiglia.
Me ne andavo come un conato di vomito, causando sofferenza, forse un certo disgusto, e lasciando dietro di me dello sporco che gli altri avrebbero dovuto pulire. Ma quello con cui fatico a fare i conti è che, quello che aveva provocato quel conato di vomito, era un’indigestione di bontà. Di santa, beata e indiscussa bontà. Scansavo quelle mani tese verso di me in segno di aiuto, scalciavo via l’affetto non detto ma percepito che c’era nell’aria, scappavo dall’amore della mia famiglia come fosse una malattia. Come fosse un cancro.
È tremendo avere una famiglia che ti ama, non trovate?
Io lo ammetto a cuore aperto, mentre ci lancio dentro degli uncini.
Trovavo repellente avere una famiglia che mi amava.
E non sto parlando di quell’amore troppo amore, quello invadente e sospettosamente perfetto, che sembra falso, ché allora fuggire potrebbe sembrare una soluzione del tutto ragionevole se si vuole evitare di vivere in una puntata di Pleasentville. La mia non è quel tipo di famiglia dove tutto va sempre liscio, dove ci si abbraccia e ci si dice a pranzo, a cena e prima di andare a dormire quanto ci si vuole bene, cantandolo in coro. Affatto.
Io sono un fascio di piccoli traumi accumulati dall’esperienza di crescere in una ragnatela indistricabile di ansia e contraddizioni, protetta da un ambiente sottovuoto in cui parlare era vietato. Una regola tacita, ovviamente, che ogni tanto qualcuno, impavido, si azzardava a rompere, venendo intransigentemente punito da un ampio range di castighi a disposizione: la critica feroce, il dramma emotivo, lo sbeffeggiamento acido, o il mio preferito, il glaciale silenzio giudicante.
Ma c’è sempre stato affetto là, in mezzo alla rabbia e all’incomprensione, che sono inevitabili quando cinque persone dai caratteri spigolosi e testardi si trovano a convivere, cozzando l’uno contro l’altro. C’è sempre stato affetto e c’è sempre stato amore.
È il senso di colpa per l’appagamento che sento quando sono distante da chi mi ha amato e cresciuto, che mi aspetta e vuole che torni, e ogni volta che me ne vado lo accetta con garbo e ritegno, ma nel contempo con profonda, terribile e malcelata sofferenza.
Allora perché andare via? La verità, la mia verità, amara come la bile, come il sangue, come tutto quello che c’è di nascosto e sotterraneo, e che non si vuole vedere perché ripugna, fa schifo, ma intanto alimenta i nostri processi biologici vitali, la mia verità è che non importa quanto sia grande quell’amore, quanto ci avvolga e ci protegga, perché per sopravvivere come identità, ad un certo punto lo dobbiamo sacrificare. Dobbiamo essere egoisti ed infliggere a chi ci ha dato la vita la punizione peggiore, quella dell’abbandono. Se abbiamo quel desiderio palpitante in noi che non ci lascia pace, di rincorrere e mano a mano costruire chi siamo davvero, se abbiamo dentro quella cosa che ci lacera e che ci uccide e fa rinascere ad ogni espirazione, non abbiamo alcuna scelta a riguardo, dobbiamo recidere le fila, possibilmente con un colpo netto, brutale, impietoso.
Per l’abbandonato la tragedia è l’abbandono. Ma per chi abbandona, la vera tragedia aspetta ad arrivare, e colpisce inavvertitamente.
Colpisce, ad esempio, in una giornata di sole, mentre si sta camminando e ci si sente innocentemente bene.
Il secondo ricordo, quindi, è del giugno 2015, quando per la prima volta ho capito di essere felice lontano da casa e quando ho realizzato che quella felicità derivava proprio da quello, dall’essere lontana da casa.
È tremendo essere felici, non trovate?
È successo all’improvviso, di mattina, camminavo in un parco e mi sentivo bene. Non c’è da aggiungere altro, mi sentivo bene e basta. Mi sono seduta su una panchina, nel lettore mp3 stava andando Angry Days dei Lagwagon, e in quel momento i miei giorni arrabbiati mi sono sembrati così lontani che non sembravano veri. Sono tornata con la memoria a tutte le grida che sono rimbombate in casa, ho sentito di nuovo tutto il senso di inadeguatezza accumulato negli anni, ho contato le lacrime bollenti che mi sono scese sulla faccia e ho lasciato andare via tutto. L’ho accettato, e poi lasciato andare via.
E allora l’ho sentita, proprio nel momento di maggiore libertà, lei, la tragedia, che si formava nel bassoventre e, lacerando tutto quello che trovava davanti a sé, si arrampicava su per lo sterno afferrando le budella, masticando le pareti dello stomaco, azzannando le vene, graffiando le ossa. Come una bestia affamata mi ha sbranata, e come una bestia affamata mi ha fatta sentire in colpa, disgustosamente in colpa, per avere troppo e non giudicarlo ancora abbastanza.
La mia tragedia è il senso di colpa per dover rifiutare qualcosa di buono e puro, per non avere altra scelta se non quella di provare fastidio e rigetto quando ritorno in quel luogo che mi accoglie sempre, fremente di attesa. È il senso di colpa per l’appagamento che sento quando sono distante da chi mi ha amato e cresciuto, che mi aspetta e vuole che torni, e ogni volta che me ne vado lo accetta con garbo e ritegno, ma nel contempo con profonda, terribile e malcelata sofferenza.
Vivendo lontano, ho preso coscienza di molte abitudini tossiche apprese o in qualche modo ereditate dalla mia famiglia. Quando stavo in Italia, la prossimità non mi dava modo di prenderne atto. Ora, con una certa distanza, riesco ad isolarle, analizzarle e superarle, o almeno tenerle sotto controllo.
Vivendo lontano, posso sperimentare liberamente stili di vita e scegliere quello più mio, senza il peso dell’aspettativa o la paura di deludere gli altri. Posso cambiare quante volte voglio senza che qualcuno non mi riconosca più per quella che non sono, posso crescere e posso anche sbagliare quante volte mi pare. Senza compromesso. Senza chiedere il permesso.
Ma questa felicità è un’aguzzina, perché esiste sulle spalle di coloro a cui mai vorrei fare del male e mi condanna, invece, a perpetuare del dolore a loro spese, anche se di dolore ce n’è già abbastanza.
Ricorderò come da un’intuizione nata da un attimo di shock ero riuscita ad elaborare un compromesso per permettere a me di crescere e ai miei famigliari di avere qualcuno su cui contare.
La parola dolore scatena il terzo ricordo, che è piuttosto doloroso e piuttosto vicino, ed è di questa mattina.
Appena alzata ho preso il cellulare dalla borsa, C’erano tre chiamate da casa della sera prima, cosa che non mi sorprende perché mia madre, da quando me ne sono andata da casa, a 19 anni, mi chiama tutti i giorni alle 20 in punto. Non importa dove sia, non importa se io le rispondo solo la metà delle volte e poi parlo a monosillabi, non importa quante volte le dica che non serve che mi telefoni tutti i giorni, lei imperterrita alle 20 in punto chiama, anche due, tre o quattro volte, e se accetto la telefonata, sempre mi saluta come se non mi sentisse da mesi, con un ciao sospirato, e con un tono nella voce che io lo so che in quel momento sta sorridendo ed è felice. Pensare a tutte le chiamate che ho lasciato scorrere di proposito fino alla fine, buttandole in un limbo, mi strazia. Ma allo stesso tempo so che era mia necessità, in quel momento, affermare la mia separazione, anche solo con me stessa.
C’era anche un messaggio di mia sorella, un testo di Whatsapp che a scorrerlo non riuscivo più a trovarne l’inizio da quanto era lungo. La prima volta che l’ho letto ho immagazzinato solo pochi concetti. Ospedale, metastasi, chemioterapia. Di nuovo. Di nuovo perché l’abbiamo già fatto tutto questo, o meglio l’ha fatto per lo più mia sorella con mia madre, mentre io ero qui ed ero troppo occupata ad essere felice, a sentirmi in colpa e a trovare belle scuse per alimentare il circolo vizioso.
Non so come agisca la vostra mente quando siete sotto shock, ma la mia va in stand by per qualche tempo. Inizio a fare cose automaticamente, dall’esterno sembro normale, forse solo un po’ appannata, come in post sbornia, ma in verità dentro di me c’è il nulla assoluto, divento atarassica, robotica.
In quel tempo il mio subconscio lavora ad una soluzione e, quando mi riprendo e sono in balia delle emozioni, in realtà ho già elaborato una risposta che è là, è pronta, e io razionalmente non posso fare nulla per cambiarla, devo solo aspettare di calmarmi e poi farla diventare comprensibile a me stessa a parole.
Il quarto ricordo è quello che ha il seme in questa risposta ed è in divenire, perché è un ricordo del futuro. Si possono già conoscere i ricordi che si avranno nel futuro? Beh, se fosse possibile, questo sarebbe quello che tra qualche anno vorrei ricordare.
Fra qualche anno ricorderò la sera del primo febbraio 2017 e la ricorderò come il momento in cui ho rotto un circolo vizioso. Ricorderò come quella sera avevo iniziato a comprendere che la felicità che vivevo a quel tempo era egoista e per questo portava a quel senso di colpa opprimente di cui non mi riuscivo a liberare. Ricorderò come da un’intuizione nata da un attimo di shock ero riuscita ad elaborare un compromesso per permettere a me di crescere e ai miei famigliari di avere qualcuno su cui contare. Ricorderò di quel piano e di quella diversa attitudine mentale di cui in quel momento c’era solo il germe, ma che avrebbero portato ad una maturità sentimentale nuova, più altruista e responsabile.
C’è una parte dentro di me che è furibonda. È quella parte egoista che spinge allo stremo, scalpita e disprezza i compromessi. Ma ho imparato a tenerla sotto controllo. Una conquista recente, che ho ottenuto solo grazie al distacco dal luogo che mi ha cresciuta. Paradossalmente, l’allontanamento dalla mia famiglia sarà la ragione per cui sarò in grado di riavvicinarmi ad essa, ora, in un modo più grato e più equilibrato. In un modo migliore.
In copertina: scatto della famiglia allargata dell’autrice, anni 80 / © Margherita Seppi
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