Inoltrandosi dietro ai monumentali palazzi che si affacciano sulla Karl-Marx-Allee, all’altezza della fermata della stazione della metropolitana berlinese di Schillingstrasse, si inizia ad avvertire un’insolita sensazione. Inizialmente non ce se ne rende conto, ma presto se ne percepisce l’effetto benefico. Mano a mano che ci si addentra fra gli anonimi giardini, sempre più lontano dalla strada, si capisce di che cosa si tratta: è il silenzio. Quello in cui è immerso il Lotos-Vihara-Meditationszentrum, uno dei numerosi centri buddhisti di Berlino. Si trova a poche centinaia di metri dall’affollatissima Alexanderplatz. I grattacieli intorno alla bassa costruzione schermano i rumori della città e creano un’oasi di pace nel cuore della metropoli. Avvicinandosi all’edificio, si ha l’impressione di entrare in un mondo fatto di quiete, pace, tranquillità. La grande corte interna, con i corridoi coperti da tettoie che ne circondano i quattro lati, costituisce la struttura centrale dell’istituto. Da ogni lato del quadrato partono dei piccoli sentieri, cosparsi di ghiaia meticolosamente spianata, che convergono verso lo Stupa, la tipica costruzione buddhista che rappresenta il Buddha stesso e la sua dottrina, il Dharma. Disposte lungo tutto il perimetro, si trovano piccole e grandi stanze per la meditazione, retreats, una biblioteca, gli uffici e un delizioso baretto in cui si può anche mangiare. Un signore dietro il banco mi invita a sedermi e mi offre un caffè, mentre lui, dice, si occuperà di trovare la persona giusta con cui parlare.
La persona giusta è il dottor Wilfried Reuter, un uomo di 64 anni dall’aspetto gentile e dallo sguardo intelligente. È il maestro e la guida spirituale del Centro Lotos-Vihara, che gestisce dall’anno della sua fondazione, il 2007. Nella sua attività fatta di conferenze, seminari e pubblicazioni di libri, integra la dottrina buddhista con le conoscenze della scienza occidentale, accumulate nella sua più che trentennale esperienza di medico ginecologo e ostetrico. Indossa una tunica color zafferano e marrone rossiccio, i colori tipici dei monaci buddhisti. I suoi occhi, da dietro un paio di occhiali tondi con la montatura di metallo, esprimono e trasmettono serenità e benevolenza, grande umanità. Ci riceve, in una mattina piovosa di luglio, nel suo studio, una stanza luminosa che si affaccia sul bellissimo e rigoglioso giardino che circonda il centro. Statue del Buddha, altari con offerte votive, tappeti colorati, fanno sembrare la stanza un vero e proprio tempio. Nella sua ricerca di un approdo spirituale, dopo essere stato vicino al Cristianesimo, all’Ebraismo e al Sufismo e aver praticato la meditazione Zen per oltre quindici anni, l’incontro decisivo per Wilfried Reuter è, agli inizi degli anni ’90, con Ayya Khema, la prima donna occidentale a diventare monaca buddhista della tradizione Theravāda. Da lei, Reuter venne incaricato nel 1997, di fondare a Berlino un centro che praticasse e insegnasse la meditazione: è il Lotos-Vihara Meditationszentrum.
“Se lei dà un’occhiata in giro a Berlino e va a visitare i diversi gruppi, si accorgerà che esiste una grande varietà di scuole e correnti buddhiste. Io vedo il Lotos-Vihara come un Centro che tenta di ricongiungere queste diverse correnti senza che ne venga fuori un ‘calderone’, ma proponendo qualcosa che possa essere utile alle persone. Non vogliamo proporre un’accozzaglia disordinata di pratiche diverse. Molte persone iniziano ad avere davvero grandi difficoltà a rapportarsi a se stesse con affetto. In loro si nasconde un profondo disorientamento, hanno una debole autostima, sono molto severe. Molti non riescono nemmeno più a percepirsi a livello di sensazioni corporee, e per sentire qualcosa ricorrono a emozioni forti, come una sessualità sfrenata. Ma hanno smarrito la dolcezza. Per prima cosa, noi dobbiamo riaprire queste porte. Quando visiterà altre scuole, e la maggior parte è di tradizione tibetana, allora conoscerà l’antico buddhismo tibetano, più o meno forte a seconda di quanto forte sarà il loro orientamento. E se andrà in un tempio Zen, allora troverà l’antico buddhismo giapponese, che è completamento diverso; loro, per esempio, non siedono come sediamo noi ora, ma in una forma diversa, molto più spartana, hanno altri metodi. Ma non si faccia confondere da tutto questo!”.
Le scuole del buddhismo
Tre sono le principali tradizioni in cui il buddhismo si è sviluppato nel corso dei secoli, espandendosi al di fuori dell’India nordorientale, 7 dove la religione vide la sua nascita tra il 6° e 5° secolo a. C., ad opera di Siddhārtha Gautama, detto il Buddha, il ‘risvegliato’. Le tre tradizioni sono il buddhismo Theravāda, il buddhismo Mahāyāna e il buddhismo Vajrayāna. Il Centro Lotos-Vihara è improntato alla tradizione Theravāda, anche se è aperto anche alle altre tradizioni. “Io credo che non dovremmo fissarci nelle etichette delle definizioni”, ci dice il dottor Reuter: “questo è Theravāda, quest’altro è Mahāyāna e questo Vajrayāna. Dovremmo andare un po’ oltre queste categorie e praticare e insegnare in occidente un buddhismo che si adatti alla nostra cultura occidentale”.
Al fine di provare a spiegare un po’ la molteplicità e la varietà delle differenti scuole e tradizioni buddhiste, anche di quelle presenti a Berlino, è opportuno dare primariamente delle brevi note introduttive e accennare alla distinzione importante fra il buddhismo Hīnayāna e il buddhismo Mahāyāna. La parola ‘Hīnayāna’ significa in sanscrito ‘piccolo veicolo’ (hina vuol dire piccolo e yāna sta per veicolo) e rappresenta la dottrina buddhista più antica. Il veicolo è ‘piccolo’ e per questo non è riservato a tutti ma ai pochi eletti, che per raggiungere il nirvāna, la cessazione della sofferenza e l’uscita dal ciclo delle rinascite (samsāra), devono condurre un’esistenza monastica di rinuncia al mondo. I seguaci del ‘piccolo veicolo’ si basano sulle scritture del canone pāli, ovvero la più antica raccolta dei discorsi del Buddha storico (Tripitaka, ovvero ‘tre canestri’, perché raccolti in tre ceste, è il nome sanscrito del canone pali del buddhismo). Si sentono legati alle sue parole, senza volerle interpretare. Il Buddha è visto come un maestro che indica la strada da percorrere, ma il fine ultimo è la personale salvezza. Delle 18 scuole hīnayāna originarie l’unica che è sopravvissuta fino ad oggi ed è ancora attiva è la scuola Theravāda, che letteralmente significa ‘dottrina degli anziani’. Poiché si afferma e si diffonde in Sri Lanka, Thailandia, Myanmar, Laos e Cambogia, paesi del Sud asiatico, il buddhismo hīnayāna è detto anche “buddhismo meridionale”.
I testi Mahāyāna riconoscono l’autorità delle antiche scritture canoniche, ma ritengono che la vera natura ‘dei’ buddha e la ‘perfezione della conoscenza’ siano contenute in altre tradizioni
Intorno al 2° secolo d. C. si sviluppa il ‘grande veicolo’ di salvezza, il buddhismo Mahāyāna (maha significa ‘grande’) che riteneva che Gautama Buddha avesse trasmesso, oltre agli insegnamenti contenuti nelle scritture per le comunità monastiche tradizionali, anche altre dottrine, più profonde, ma non ancora mature per l’uditorio del tempo. Sono le scritture, fra le quali il celebre Sutra del Loto, accolte oggi nei canoni buddhisti cinese e tibetano. I testi Mahāyāna riconoscono l’autorità delle antiche scritture canoniche, ma ritengono che la vera natura ‘dei’ buddha e la ‘perfezione della conoscenza’ siano contenute in altre tradizioni. È in questo periodo che sorge il termine ‘hīnayāna’, usato in senso dispregiativo dai ‘mahāyānisti’ per indicare i seguaci degli antichi insegnamenti come primitivi ed arretrati. In seguito alla sua diffusione in Cina, Nepal, Vietnam, Corea e Giappone è chiamato buddhismo settentrionale. La differenza principale fra le due tradizioni ce la spiega in modo semplice e chiaro ancora il dottor Reuter: “Nel buddhismo meridionale la meta è il risveglio e non tornare più, interrompere il ciclo delle rinascite. Tutti i semi negativi si sono dissolti, l’uomo entra nello stato di unità della coscienza e non compare più. Questo è lo scopo del buddhismo meridionale, si parla di araht (monaci che avevano raggiunto la perfezione), illuminazione e non comparire più. Nel buddhismo settentrionale, nei paesi Mahāyāna e Vajrayāna vicino all’Himalaya, Cina etc, il traguardo è invece l’illuminazione e poi rinascere come Bodhisattva; ovvero (…) entrare nel mondo come illuminato, ma non per soffrire, bensì per aiutare, con la propria perfetta comprensione, gli altri esseri umani ad alleviare il loro dolore”. I Bodhisattva sono coloro che conseguono l’illuminazione e che si prodigano nel mondo per diffondere la salvezza agli altri. Nel corso dei secoli, il buddhismo Mahāyāna riconosce l’esistenza di una molteplicità di buddha e bodhisattva, realmente esistiti ma anche mitici, residenti in mondi diversi, mentre l’Hīnayāna riconosce un unico Buddha come personalità storicamente esistita. Anche il nirvāna è diverso: nel buddhismo meridionale è una sorta di paradiso mentre nel Mahāyāna è śūnyatā, una vacuità senza tempo e senza spazio, in cui si esperisce l’unità con l’Assoluto. La vera realtà è riconoscere che il mondo esterno è un riflesso della nostra coscienza, che in questa vacuità nulla nasce e nulla svanisce.
“Il buddhismo Vajrayāna (una “terza via” che nasce dal grande ramo Mahāyāna e di cui parleremo) o buddhismo tibetano si è sviluppato, attraverso il corso di molti secoli, nella regione dell’Himalaya e si è fuso con le culture, i paesaggi e le usanze degli uomini”, racconta Wilfried Reuter. Che poi continua: ”Quindi, una pratica che voglia tradurre uno a uno quelle dottrine la ritengo come non particolarmente utile. Piuttosto, mi trovo d’accordo con il Dalai Lama, il quale ha detto che se mai il buddhismo in Occidente avrà una possibilità di affermarsi, allora avrà bisogno di un nuovo ramo da far sorgere proprio in Occidente. Perciò il mio compito è quello di insegnare un buddhismo che riesca a creare dei collegamenti con quelle che sono le conquiste della nostra civiltà, della psicologia, della filosofia, della medicina, delle neuroscienze e della sociologia; e quindi riesca ad assumere o creare ex novo i corrispondenti rituali ed usanze. Quindi, se mi chiede se sono Theravāda, la mia risposta è originariamente sì, le mie radici sono nel Theravāda, ma mi sento a casa anche nel buddhismo Mahāyāna e in quello Vajrayāna (…) Nel modo in cui io insegno la dottrina buddhista, sono presenti aspetti di tutt’e tre le tradizioni buddhiste. Quindi non mi lascerei ridurre ad una sola scuola”.
“A Berlino ci sono più di 50 templi buddhisti, considerando tempio anche le strutture abitative, più o meno grandi”, mi dice il signor Wulf, del centro Fo-Guan-Shan Tempel, legato alla tradizione cinese e taiwanese del buddhismo Mahāyāna. Il tempio, che dal 1993 ha sede a Wedding in Ackerstrasse 85, è gestito da monache ed è veramente impressionante per la grandezza e l’estetica che offre. “Il nostro tempio ha la sala più grande d’Europa”, mi conferma infatti il signor Wulf. Il numero di centri e associazioni buddhiste presenti nella capitale tedesca è difficile da identificare con esattezza. Nell’opuscolo informativo a cura del BUBB, Buddhistische Gruppen und Zentren in Berlin und Brandenburg, sono riportati gli indirizzi di oltre 60 centri e gruppi, che rappresentano le diverse scuole e tradizioni, ma che contemplano anche elementi diversi da queste, ‘adattandoli’ specificamente alla cultura occidentale. Vi è anche scritto che l’elenco non è completo. Secondo i dati ottenuti direttamente dalla Deutsche Buddhistische Union (DBU), la confederazione delle comunità buddhiste che si trovano in Germania e che rappresenta da diversi decenni le varie tradizioni, si ricava che, alla data di aprile 2016, vivono in Germania 130.000 buddhisti tedeschi e 120.000 buddhisti asiatici, in prevalenza vietnamiti e tailandesi. Considerando i simpatizzanti, il numero sale considerevolmente. La signora Bettina Hilpert, da Monaco di Baviera, dove ha sede la DBU, tiene a precisare che le cifre non sono ufficiali poiché i buddhisti non sono registrati formalmente e perché il buddhismo non è una “chiesa”. Fornisce comunque delle cifre che ci aiutano a comporre il puzzle: la DBU stessa, come confederazione, racchiude 64 Mitgliedgesellschaften (società) rappresentative di tutte le tradizioni: 29 membri della DBU appartengono alla tradizione tibetana, 19 a quella zen e 7 al buddhismo theravāda.
Prendendo in considerazione il numero dei membri che appartengono alle singole organizzazioni, si viene a sapere, ma la cifra anche qui è approssimativa, che aderiscono alla DBU 15.615 persone, ripartite più o meno nelle varie singole comunità nella maniera seguente: 47 gruppi con un numero di membri fra 10 e 100; 16 associazioni che hanno fra i 101 e 1000 iscritti; 3 grandi gruppi con un numero di membri che si colloca fra 1000 e 5000 (Diamantenweg, Rigpa e Buddhistische Gesellschaft). Ovviamente riuscire a fornire un numero dei buddhisti berlinesi è impossibile, poiché molte persone si avvicinano, frequentano i centri per un po’, ma non si registrano poi da nessuna parte. Christoph Gorgulla, della Buddhistische Gesellschaft di Berlino, con sede in un’elegante strada del quartiere di Steglitz, ci informa che possiamo, per analogia, ricavare comunque un numero, seppur approssimativo, dei buddhisti a Berlino. “Considerando”, ci dice, “che in Germania il numero dei buddhisti rappresenta lo 0,3% della popolazione e applicando in maniera generica questo dato a Berlino, si ha la cifra di circa 11.000 buddhisti che vivono nella Capitale tedesca”. L’associazione di cui fa parte Christoph può contare sul contributo di circa 50 soci sostenitori, oltre alle donazioni dei frequentatori. “Prima erano un po’ di più”, aggiunge.
Un dato interessante riguarda il numero di buddhisti che appartengono alla Soka Gakkai, un’organizzazione buddhista giapponese che si basa sugli insegnamenti del monaco giapponese Nichiren Daishonin (1222-1282). La Soka Gakkai International (SGI) conta nel mondo oltre 12 milioni di fedeli ed è presente in più di 190 paesi. In Italia gli aderenti alla Soka Gakkai sono circa 70.000, ovvero il 50%, approssimativamente, del numero totale dei buddhisti presenti nel nostro paese. Queste cifre rappresentano per la Soka Gakkai in Italia un vero e proprio boom. In Germania, invece, il numero di aderenti alla Soga Gakkai Deutschland si ferma a 7.000, che su un totale (sempre cifre approssimative) di circa 300.000 buddhisti sia europei che asiatici, rappresenta soltanto il 2-3 % rispetto al numero complessivo dei buddhisti in Germania. La ragione di questa diffusione così forte del buddhismo di Nichiren in Italia, in un Paese cioè a forte impronta religiosa, è da rintracciare, forse, nel fatto che fra le varie tradizioni buddhiste, quella della Soka Gakkai è una delle più schematizzate, con un complesso di cerimonie che nel buddhismo di Nichiren formano una lunga pratica liturgica.
Nella pubblicazione Jeder nach seiner Façon, del Berliner Forum der Religionen dell’anno 2015, si legge inoltre che il 90% dei buddhisti occidentali a Berlino non è nato in questa religione. Sono persone, dunque, che non seguono una tradizione familiare e che quindi si rivolgono alla scuola che ritengono si adatti meglio a loro. Diverso, invece, è il discorso per i buddhisti asiatici, che nascono in una tradizione e raramente la cambiano nel corso della vita. I grandi centri buddhisti asiatici a Berlino sono di origine vietnamita, tailandese o di Taiwan, come il Fo-Guan-Shan Tempel, ma ci sono anche piccoli gruppi di uomini e donne di origine coreana, cingalese, del Laos e dell’Indonesia. Molti di questi gruppi sono refrattari all’incontro con altre scuole e tradizioni; altri invece sono aperti, per esempio, a celebrare i giorni di festa insieme a gruppi con impronta più occidentale. La più grande festività della tradizione buddhista è il Vesak, la festa in cui si festeggiano contemporaneamente la nascita, il risveglio e la morte del Buddha. Si tiene di solito in maggio, durante la quinta luna piena dell’anno. Nel 2016 il luogo dove si sono tenuti i festeggiamenti è stato il Lotos Vihara Zentrum.
Al Lotos-Vihara Zentrum intanto la pioggia ha aumentato notevolmente la sua intensità ed è adesso diventata un temporale estivo. Si sente soltanto il rumore dell’acqua scrosciante che avvolge la quiete. Non ci sono sedie nella stanza di Wilfried Reuter. Una bella statua del Buddha seduto, poggiata su un altare con offerte votive e circondata da drappi con simboli e raffigurazioni, riempie lo spazio e lo riscalda. Sui tappeti che ricoprono il pavimento sono sistemati, uno di fronte all’altro, dei piccoli sgabelli di legno, simili a quelli che noi usiamo per poggiare i piedi. Vi sediamo, in uno dei modi tipici di sedere dei monaci buddhisti. Con voce calma e sicura, Wilfried Reuter ci spiega cosa accomuna tutti i buddhisti. “Come le varie correnti del cristianesimo, nelle loro diversità, credono tutte in Gesù Cristo, lo stesso è per il buddhismo. Tutte le scuole buddhiste si basano sulle ‘quattro nobili verità’, la prima dottrina trasmessa da Buddha. Sono l’elemento comune a tutte le scuole, gruppi, correnti buddhiste. Una scuola buddhista che non si fonda sulle ‘quattro nobili verità’ non è una scuola buddhista”. E poi spiega: “Nella prima delle ‘quattro nobili verità’ il Buddha proclama l’esistenza della sofferenza, dell’incompletezza (Unerfülltheit), della disunione (Trennung), della paura (Angst) che sono tutte espressioni sinonime (il temine originario è duḥkha, che indica più di ‘dolore’ o ‘sofferenza’: è l’insopprimibile insoddisfazione latente in ogni istante della vita umana). La prima nobile verità proclama l’inevitabilità di duḥkha. La seconda delle quattro nobili verità dichiara le cause della sofferenza (ovvero la necessaria presa di coscienza di come duḥkha sia un effetto di determinate cause). Nella terza, il Buddha afferma che se la Trennung, la separazione, cessa, cessa anche l’incompletezza; allora il risultato sarebbe l’Erleuchtung, l’illuminazione. Nella quarta verità ci dice che se vogliamo arrivare a questa conoscenza dobbiamo però darci un po’ da fare e dobbiamo formarci, esercitarci. E più precisamente, dobbiamo formarci sulla via del ‘nobile ottuplice sentiero’”. La via che porta alla cessazione della sofferenza, dunque, è il nobile ottuplice sentiero, che consiste in otto elementi che devono essere prima compresi e poi praticati.
Meditazione è oggi un termine generico, che viene usato in continuazione e nessuno tuttavia sa cosa voglia dire esattamente. Se qualcuno afferma ‘io faccio meditazione’
Quasi tutte le tradizioni buddhiste riconoscono che la strada per l’illuminazione deve passare attraverso l’ottuplice sentiero, che è diviso in tre parti, con relative pratiche: la saggezza (panna), la virtù (sila) e la meditazione (samathi). Il processo meditativo da solo non è dunque sufficiente, ma è un elemento centrale, insieme al comportamento e alla conoscenza, sulla strada che porta al nirvāna, all’Erleuchtung. Con la parola “meditazione” si ha la sensazione di trovarsi di nuovo davanti ad una concetto-trappola, cioè un’espressione che rimanda ad una molteplicità di significati e sensi. Ci spiega Wilfried Reuter: “Meditazione è oggi un termine generico, che viene usato in continuazione e nessuno tuttavia sa cosa voglia dire esattamente. Se qualcuno afferma ‘io faccio meditazione’, questo a me non dice assolutamente niente. È come se qualcuno mi dicesse ‘faccio sport’. La pesca è sport, ma anche un’attività ad alto contenuto agonistico è sport. Quindi, uno che mi dice che fa sport non mi dice niente, magari sta lì seduto con la canna da pesca. Simile è con la meditazione. Dobbiamo distinguere diversi tipi di esercizi meditativi. Comune a tutti i tipi di meditazione è l’obiettivo di rendere possibile la vicinanza a noi stessi, per essere in grado di lasciarci sempre meno dominare dai pensieri e dalle emozioni. Questo non significa che non avremo più emozioni. Certo che le avremo. Ma senza farci totalmente assorbire, monopolizzare da esse. Per questo, però, c’è bisogno di costruire una vicinanza verso noi stessi”. Da 35 anni, il dottor Reuter pratica quotidianamente la meditazione, al risveglio e alla sera.
A Berlino, oltre ai centri buddhisti di origine asiatica, cui abbiamo accennato sopra, esistono in prevalenza centri “occidentali” che possiamo suddividere in due grandi categorie: quelli che si rifanno ad una delle grandi tradizioni orientali e quelli che invece abbracciano nella loro prassi le varie scuole o che hanno un approccio umanista o più laico. Fra i centri che si nutrono trasversalmente di elementi di tutte le tradizioni, uno dei più importanti è la già citata Buddhistische Gesellschaft Berlin. “Dopo la seconda guerra mondiale c’erano tre gruppi buddhisti qui a Berlino e naturalmente si sono uniti per formare un solo gruppo: così è nata la Buddhistische Gesellschaft” ci racconta Christoph Gorgulla. Fondata il 3 giugno 1951 con il nome Berliner Gesellschaft für Buddhismus (Società berlinese per il buddhismo), poco più di un mese dopo, il 10 luglio, acquisisce l’attuale nome. Dal 1985 ha la sede al numero 6 di Wulffstraße, non lontano da Rathaus Steglitz. Una peculiarità che riguarda questa associazione buddhista è il fatto che dal 2003 collabora con le istituzioni berlinesi come soggetto formatore di insegnanti di religione buddhista, destinati a proporre nelle scuole, nelle ore di insegnamento della religione, la storia e i principi della dottrina del Buddha. “Berlino è il primo e unico Land in Germania in cui è possibile insegnare la religione buddhista nelle scuole pubbliche” ci racconta Christoph. “Finora c’è stata un’unica insegnante, ma proprio in questo periodo ci sono 6 persone che stanno facendo una formazione professionale di 3 anni, gestita dalla DBU (Deutsche Buddhistische Union) per poi avere accesso all’insegnamento del buddhismo nelle scuole”. Christoph Gorgulla è uno dei futuri insegnanti della dottrina buddhista: “Noi dobbiamo andare nelle scuole e proporci, trovare alunni che siano interessati al buddhismo”, conclude Christoph.
Il Buddhismo Mahāyāna: Akazienzendo a Schöneberg
Il Centro Akazienzendo si trova a Schöneberg, in Akazienstrasse, al quinto piano di uno stabile grandissimo, che ospita numerosi locali in cui hanno sede associazioni e gruppi dediti a pratiche orientali, che da molto tempo oramai si sono diffusesi nella nostra civiltà occidentale: una scuola di tai chi chuan, un centro Yoga, un centro massaggi hawaiano-ayurvedico, una palestra viet per la ginnastica posturale, un Tao healing center. Nel cortile interno, la Buddha Haus, ristorante con cucina thai, nepalese e tibetana, ha già qualche cliente ai tavoli in questa domenica mattina assolata, quando alle 10 mi presento al Centro Zendo, invitato da Bern Bender, un tedesco dall’aria dolce e mite che mi riceve vestito completamente di bianco pochi minuti prima che inizi la meditazione. Nella stanzetta antistante la grande sala della meditazione (che in giapponese si chiama Zendo) sette persone siedono in silenzio e salutano con un cenno della testa. Regolarmente, il martedì, mercoledì e giovedì di ogni settimana, il centro offre un’ora e mezzo di meditazione. Una volta al mese, di domenica, ci sono i Zen Tage, i giorni Zen, in cui si ha la possibilità di meditare, ma anche di partecipare a discussioni e conversazioni. Fra le innumerevoli pratiche meditative presenti nella millenaria tradizione del buddhismo, tutte volte a sviluppare concentrazione, consapevolezza, tranquillità e insight, quella che il maestro Bern Bender guida al centro Akazienzendo è la meditazione Zazen, tipica del buddhismo Zen giapponese. Zazen significa letteralmente ‘semplicemente seduti’. La meditazione avviene dunque in quella che è la tipica posizione del loto: a sedere, con le gambe piegate ed il busto eretto in una postura né troppo tesa né troppo rilassata. Mi accorgo che nessuno parla, nessuno dice qualcosa. Tutta la stanza è immersa nel silenzio. Klaus, uno dei pochi uomini presenti, ha in mano due bastoncini di legno. Li prende e li percuote uno contro l’altro. Una ad una le persone si alzano e ordinatamente entrano nello Zendo, la grande sala per la meditazione. Io li seguo e mi dispongo fra due donne vestite di nero, sistemando lo Zafu, il tradizionale cuscino rotondo, sul materassino quadrato giapponese, lo Zabuton. Assumiamo la tipica posizione zazen, rivolti verso il muro. Bender ci dice che è importante che le ginocchia siano in contatto col terreno affinché lo spirito si liberi e si espanda. La meditazione zazen prevede che si stia semplicemente a sedere, in silenzio, senza scopi ed aspettative, senza nulla volere e pensare. “Lo spirito si espande verso il futuro e verso il passato. Noi lo invitiamo a ritornare al qui ed ora, al corpo che è qui e ora”, dice Bernd Bender. Nell’ampia sala con le pareti bianche e il pavimento in parquet c’è solo un tavolo, sul quale sono disposti un vaso con una rosa, un bastoncino d’incenso che diffonde il suo profumo, una candela, una statua del Buddha e un portaritratti con una immagine di Shunryū Suzuki (1904-1971), il maestro zen giapponese fondatore del centro zen di San Francisco. Dobbiamo stare trenta minuti in quella posizione. Qualcuno ai piani inferiori deve avere aperto un rubinetto d’acqua perché si sente il rumore di una pompa autoclave che si aziona. Gli unici altri rumori che si sentono sono gli uccellini che cinguettano e le tende che sbattono a causa del vento. È difficile abbandonare i pensieri. La parola chiave è Achtsamkeit, attenzione, concentrazione. Provo a concentrarmi sul respiro, ma i pensieri passano e mi portano via dal corpo, dal respiro che è qui e ora. Per un po’ riesco a non lasciarmi trasportare dai pensieri. Solo un po’, ma sento che un poco è già tanto: uno spazio di assoluto silenzio, di calma, pace, profondo rilassamento.
Bernd Bender pratica la meditazione da trent’anni. Si è avvicinato al Buddhismo anche per ragioni ‘estetiche’. Racconta infatti che lavorava nel teatro e collaborava nientemeno che con Bob Wilson, il celebre drammaturgo statunitense: “Bob Wilson era influenzato fortemente dal teatro classico giapponese ed anche la cultura americana del suo tempo, gli anni ’50 e ’60, era plasmata dal buddhismo Zen e in particolare dall’opera di Daisetsu Teitarō Suzuki (1870-1966), l’autore di Essays in Zen buddhism, che insegnava alla Columbia University. Gente come John Cage e tutta la cultura alternativa americana del dopoguerra non è pensabile senza il buddhismo zen”. Bern Bender si getta nella lettura delle opere di Suzuki e decide infine di dedicarsi al buddhismo zen. Lo fa entrando nel centro Zen di San Francisco dove rimane a lungo, dal 1994 al 2012, e che gli conferisce il titolo di maestro Zen. “Lì abbiamo vissuto come monaci. Lo Zen era il centro della nostra vita. Tutte le mattine ci alzavamo nel cuore della notte e praticavamo la meditazione per tre ore”, ci racconta con la sua voce flebile, quasi impercettibile. Ora, quello che gli interessa non è più stare in un monastero, ma integrare la meditazione nella vita quotidiana. È il mio grande obiettivo”, ci dice: “Certo, einfach nur sitzen, stare semplicemente seduti, è una buona cosa che sviluppa nel nostro spirito cura, compassione e attenzione, ma non si integra nella vita quotidiana. Nel Sutra del Loto vi è un passaggio che dice che c’è bisogno di un Buddha, e poi di un altro, per scandagliare la profondità della realtà. Si tratta di relazioni”. La complessità della realtà si scopre solo in unione con gli altri: “l’idea classica è che solo il Buddha è il perfetto illuminato. Per me invece ogni uomo è Buddha, anche tu. Per me la saggezza emerge nella relazione, nel gruppo”. Le questioni politiche, sociali, ecologiche giocano inoltre un ruolo importante nelle attività del centro, come anche gli zen lab, i laboratori sperimentali zen in cui il passato teatrale di Bern Bender, insieme all’esperienza di una coppia di professionisti, contribuisce a creare delle sperimentazioni teatrali con temi zen e meditazione. Gli chiedo quante persone frequentano il centro, ma una risposta anche in questo caso risulta difficile perché molti vengono, stanno per un periodo e spariscono. “Agli incontri di studio e meditazione della domenica vengono fra le dieci e le cinquanta persone a volta. Oggi è una giornata estiva, ci sono oltre trenta gradi e non arriviamo alla decina di presenti.”
Il buddhismo Vajrayāna: il Rigpa Zentrum Dharma Mati di Charlottenburg
“Il principio fondamentale non è tanto che portiamo dentro di noi il seme del Buddha, bensì che noi siamo, davvero, nella nostra intima essenza, Buddha. Lo siamo sempre stati, solo che non lo vediamo. Abbiamo accumulato così tante proiezioni, per così lungo tempo nella nostra vita, emozioni negative, azioni. Tutto questo ci impedisce di vedere chi noi veramente siamo. E questo è il principio del buddhismo Vajrayāna”. A parlare è Jaborah Arnoul, una gentile signora tedesca, praticante buddhismo tibetano del Rigpa Zentrum Dharma Mati, in Soorstrasse 85, nel quartiere di Charlottenburg, nella parte occidentale di Berlino.
Questo principio “rivoluzionario” caratterizza il buddhismo Vajrayāna, che si diffonde in India settentrionale come corrente del Mahāyāna a partire dalla metà del 1° millennio d. C., assorbendo elementi magici e rituali del tantrismo, la corrente di pensiero indiana che ha influenzato tutti i sistemi religiosi dell’India, dall’induismo al giainismo. È chiamato per questo anche buddhismo tantrico.
il Vajrayāna è come volare con un aereo a reazione. Più veloce che andare con un’auto, ma si deve impiegare molto tempo ad imparare. Altrimenti non si riesce, anzi, si precipita.
Vajra è un termine sanscrito che significa ‘potente’, ‘duro’, ma è anche un oggetto rituale che simboleggia l’infrangibilità del diamante, l’indistruttibilità della folgore e la cristallina chiarezza del vuoto. Tra il buddhismo Mahāyāna e quello Vajrayāna la differenza non è tanto nella meta, che è sempre la buddhità, quanto nei modi in cui questa viene raggiunta. Il “veicolo della folgore” è la via più diretta al nirvāṇa, ma è anche la via più difficile. Prendendo in prestito un’analogia suggestiva, si può dire che il Vajrayāna è come volare con un aereo a reazione. Più veloce che andare con un’auto, ma si deve impiegare molto tempo ad imparare. Altrimenti non si riesce, anzi, si precipita.
Il cuore del Rigpa Zentrum è senza dubbio la grande sala del tempio con una imponente statua dorata del Buddha alta cinque metri, la cui funzione è quella di ispirare lo spirito di chi si appresta a meditare. È un’imitazione della rappresentazione più sacra e famosa che c’è in tutto il buddhismo, quella che si trova a Bodh Gaya, nell’India del Nord, dove più di 2500 anni fa il Buddha, seduto sotto l’albero della bodhi (illuminazione) ebbe la visione del cammino verso la liberazione. I 2400 metri quadrati del centro offrono spazio a sufficienza anche per due ulteriori piccole sale per la meditazione, una stanza per i bambini, locali per l’amministrazione e per le riunioni. Rigpa è uno dei centri buddhisti più grandi di Berlino e si trova in un elegante palazzo di Charlottenburg, immerso nel verde curato di un bel giardino, con alti alberi che fanno ombra ai tavolini della Lotus Lounge, che comprende un ristorante con cucina vegetariana, un caffè e una libreria. Non c’è nessuno fuori. All’interno della grande sala, che può contenere fino a 200 posti, hanno preso posto già una quarantina di persone: si preparano alla meditazione. Sulla parete laterale è appesa una voluminosa rappresentazione di una figura che sembra una divinità. Ha degli eccentrici baffetti e una mosca sotto le labbra. Delle sopracciglia rivolte all’insù gli danno un aspetto un po’ inquietante: “Si chiama Guru Rinpoche, che è un soprannome, o meglio un vezzeggiativo, di Padmasambhava. È uno dei maestri che hanno introdotto il buddhismo in Tibet”, mi dirà poi la signora Arnoul. Dai tibetani viene venerato come secondo Buddha. Sulla parete di fondo, vicino all’imponente soffitto, stanno nove grandi immagini fotografiche:“Quelli sono i nostri maestri, che rappresentano la tradizione che risale a Padmasambhava”. Introducendo il buddhismo Vajrayāna in Tibet, Guru Rinpoche è considerato il fondatore del buddhismo tibetano, che è chiamato anche Lamaismo, per via dell’appellativo “lama”, maestro, con cui sono chiamati i monaci in Tibet, in quanto maestri spirituali.
Rigpa è il nome dell’organizzazione buddhista internazionale di tradizione tibetana fondata da Sogyal Rinpoche nel 1979. È presente in più di trenta paesi del mondo con oltre 140 fra centri e gruppi. In Germania Rigpa esiste dal 1987, con oltre 17 centri. Sogyal Rinpoche è un maestro tibetano della tradizione Nyingma, una delle quattro linee del buddhismo tibetano. “Ho incontrato Sygal Rinpoche per la prima volta nel 1985”, ci racconta Jaborah Arnoul. “Avevo incontrato altri maestri ma qualcosa di lui, non so cosa di preciso, mi ha catturato ed affascinato”. La sua grande capacità è stata quella di saper integrare armoniosamente il buddhismo tibetano con lo stile di vita occidentale moderno. Il suo insegnamento è contenuto nel suo Libro tibetano della vita e della morte, pubblicato nel 1992 e stampato nel mondo in oltre 3 milioni di copie con traduzioni in 34 paesi. Anche se si pone nella linea della tradizione del buddhismo tibetano, Rigpa è aperta a tutte le correnti buddhiste. “La nostra guida spirituale e maestro, Sogyal Rinpoche, che è anche il direttore di tutta l’organizzazione Rigpa, nel suo insegnamento ama parlare dell’essenza della dottrina del Buddha. Ha insegnato per molti anni e afferma che si può riassumere la dottrina del Buddha in tre frasi”, ci spiega la signora Arnoul: “la prima è non commettere azioni nocive, cioè, non danneggiare nessuno. Qui vi è contenuto, sostanzialmente, il fondamento dell’Hīnayāna. Si definisce Zuflucht, prendere rifugio. Questo è il momento in cui si prende rifugio”. ‘Prendere rifugio’ è un concetto essenziale della dottrina buddhista, è la porta d’ingresso nella pratica buddhista. Prendere rifugio nel Buddha, nel Dharma, nella sua dottrina e nel Sangha, la comunità, significa sostanzialmente orientare la propria vita e la propria prassi su questi tre pilastri essenziali. È qualcosa di simile all’eucarestia nel Cristianesimo, ci aveva detto il dottor Reuter. “La seconda frase è sammle einen Schatz an Tugunden (coltiva un tesoro di virtù), e vi è racchiuso il buddhismo Mahāyāna: fai del bene, attraverso più profonda compassione, la bodhicità”. ‘Bodhicità indica l’amore assoluto verso tutti gli esseri e il desiderio di aiutarli nella liberazione dalla sofferenza delle rinascite. “Ed infine, diesen unseren Geist zu zähmen (addomesticare questo nostro spirito, o trasformarlo); si tratta veramente di lavorare con lo spirito, conoscerlo direttamente, come noi facciamo con la meditazione. Questa è l’essenza della dottrina del Buddha e in questo diesen unseren Geist zu zähmen sta la particolarità del metodo Vajrayāna”.
Kirsten Czeczor, la signora con gli occhiali che guida la meditazione è seduta quasi nel fondo della sala, con le spalle rivolte all’imponente statua del Buddha dorato che poggia su un’ampia piattaforma disposta su un bellissimo tappeto azzurro. Due grandi vasi ricchi di fiori le stanno di fianco. Su un altare di fronte alla statua sono poggiate nove coppe, candele, piccole icone, fiori, incensi. “Portare l’attenzione dolcemente, con amore, sul respiro”, annuncia la signora, mentre si inizia con la prima fase dei novanta minuti di meditazione, che ha luogo ogni lunedì alle 19 per membri e visitatori. L’esercizio dell’attenzione sul respiro è comune a tutte le dottrine buddhiste. Quella studiata da Sygol Rinpoche e descritta nel suo libro tibetano della vita e della morte è una pratica meditativa che unisce anche l’elemento della visualizzazione di immagini e la recitazione dei mantra. La visualizzazione è sulla statua del Buddha e sull’immagine di Guru Rinpoche. Non capiamo molto quello che dice la signora, perché sediamo lontani, per non disturbare la meditazione degli altri. Ci sembra però di capire che la visualizzazione di un’immagine abbia un nesso con il trasformare il piano corporeo. Eppure non capiamo lo stesso. “Nel Vajrayāna ci sono così tanti diversi buddha e divinità” ci dice Jaborah Arnoul. “Essi rappresentano aspetti particolari della saggezza e della compassione e questi aspetti vengono messi in gioco dentro di noi. Una volta un maestro ha detto che ce ne sono così tanti perché noi esseri umani siamo così diversi e dunque abbiamo semplicemente bisogno di approcci differenti alle proprie intrinseche saggezza e compassione”.
Mi rassicuro quando sento la signora con gli occhiali dire che queste pratiche possono lasciare inizialmente un po’ perplessi, perché è proprio come mi sento.
La cassetta degli attrezzi per “lavorare sul nostro spirito” e realizzare la “pura visione” della realtà, farlo giungere già in questa esistenza terrena al risveglio, è costituita da varie tecniche, momenti che oltre alla visualizzazione e alla meditazione sul respiro si giovano della recitazione di formule sacre, i mantra, che “creano una particolare atmosfera e favoriscono la trasformazione del nostro spirito in modo davvero veloce”, ci spiega la signora Arnoul. Oh Ah Hung Benza Guru Pema Siddhi Hung, c’è scritto su un foglietto di carta che viene distribuito prima che tutto cominci. È il mantra che siamo invitati a recitare, in Wort und Klang. Parte quasi all’improvviso dagli amplificatori della sala, registrato su uno smart-phone che la signora con gli occhiali tiene vicino a sé. Tre rintocchi della campana tibetana segnalano la fine del mantra e il convergere dell’attenzione di nuovo sul respiro: “Sono consapevole che sto espirando e sono consapevole che sto inspirando”, sussurra delicatamente. Mi rassicuro quando sento la signora con gli occhiali dire che queste pratiche possono lasciare inizialmente un po’ perplessi, perché è proprio come mi sento. D’altra parte, il fatto che gli insegnamenti possano essere trasmessi solo da maestri e guide spirituali (guru in sanscrito e lama in tibetano) e non si possano apprendere nei libri, conferisce al buddhismo Vajrayāna tratti esoterici.
Das Buddhistische Haus
“Una cosa vorrei dire sulla tradizione della dottrina buddhista. La dottrina buddhista si chiama Dharma e non ha nessuna tradizione. Perché no? Mi chiederà! La fisica è sempre contemporanea! 2000 anni fa il suono era suono e la luce era luce. 4000 anni prima, la luce era luce e il suono era suono. 5000 anni dopo il suono è suono e la luce è luce (…). La fisica, la chimica, sono solo nomi, convenzioni per indicare una realtà che non cambia (…). La dottrina buddhista non ha nessun nome. Il nome è venuto 150 anni dopo la morte del Buddha. Il Dharma non può essere nominato”.
A dire queste cose in tono vivace è Tissa Weeraratna, un simpatico signore cingalese sopra i sessant’anni, amministratore dall’anno 2000 della Buddhistisches Haus, il tempio buddhista più vecchio d’Europa. Tissa Weeraratna mi riceve affabilmente nella stanza-cucina della straordinaria costruzione che è considerata monumento di valore culturale nazionale. È situata in cima ad una collinetta verde immersa nel silenzio di un bosco di pini e altri alberi altissimi. Vi si arriva dalla stazione della S-Bahn di Frohnau, nel nord di Berlino, percorrendo 10 minuti a piedi un ampio viale fiancheggiato da ville in stile moderno e abitazioni più antiche, molto eleganti. . Dopo poco tempo si scorgono i 73 scalini che portano all’edificio e che simboleggiano il nobile ottuplice sentiero, il percorso di liberazione dalla sofferenza. Per salire si passa attraverso una massiccia porta ad arco in pietra, con degli elefanti in rilievo. Sulla trave superiore la scritta das buddhistische Haus, in giallo. La ‘Casa’ ha una struttura circolare ed ha molte stanze, dedicate a vari usi. Il tempio per la meditazione è sempre a disposizione per chi voglia venire e meditare di fronte ad una bella statua del buddha, protetta da un vetro. “Questa è un’associazione senza scopo di lucro. Veri e propri membri non ce ne sono. Qui chiunque può venire, sedere, bere un tè, fare due chiacchiere. È molto semplice”, mi racconta Tissa Weeraratna. Quando arrivo, nonostante questo sia un posto che accoglie oramai da molti anni almeno 40 visitatori al giorno, non riesco a vedere nessuno. Solo numerose statue, sparse nel grande parco retrostante, che sbucano dalla vegetazione. C’è una troupe che sta girando un video, ma non mi aiutano. Riesco infine a farmi trovare da Tissa Weeraratna. Non è molto alto ed indossa una camicia arancione e dei sandali rossi. I suoi capelli bianchi spiccano sulla sua pelle scura. Nella sala da pranzo Andreas, un ragazzo che frequenta il tempio, si sta scaldando qualcosa da mangiare su uno strano fornello a microonde. Mentre Tissa lo aiuta, mi dice una cosa che mi sorprende: “Buddha non ha fondato nessun buddhismo. Ma la gente continua a fare questo grande errore. Anche i monaci non sono stati intelligenti abbastanza da capire che il Dharma non può essere nominato. Non ha nome, è universale, è indipendente dalle culture e dalle regioni! eh…eehh.. Ha capito ora? Io sono l’unico che dice queste cose! Alcuni monaci dicono ‘sono theravāda’, altri invece ‘sono mahāyāna’. Sono due diversi tipi di buddhismo. Ma come fa Buddha a fare due tipi diversi di buddhismo?!”. Il signor Weeraratna mi dice queste cose con un tono energico, ma bonario, come quando si rispiega per l’ennesima volta a qualcuno un po’ disattento, ma cui si vuole bene, una cosa importante. I suoi numerosi eeh, aah, come a dire “non lo sapevi eh!”, rendono la conversazione vivace e simpatica.
La Buddhistische Haus fu costruita nel 1924 dal medico e scrittore tedesco, ‘pioniere’ del buddhismo europeo, Paul Dahlke. Il 29 febbraio 1928 Paul Dahlke muore e per trent’anni la casa rimane vuota, passando indenne gli anni del nazionalsocialismo: “perché Magda Goebbels, la moglie del ministro della propaganda nazista, era una wagneriana e Wagner aveva scritto Unwillkürlich bin ich ein Buddhist geworden (‘involontariamente sono diventato buddhista’)”, racconta Tissa. Solo nel 1952 lo zio paterno di Tissa, Asoka Weeraratna, da Colombo, la capitale dello Sri Lanka, arriva a Berlino e si compra dagli eredi di Dalhke l’edificio, fondando una società, la German Dharmaduta Society, con sede in Sri Lanka, che da allora gestisce la bellissima struttura. Al valore storico e culturale della costruzione – è Kulturgut e Denkmalschutz, bene culturale e artistico sotto tutela – bisogna aggiungere anche la rilevanza che la Buddhistische Haus ha avuto nella storia del buddhismo europeo. Qui infatti si è tenuto nel settembre del 1933 il primo congresso che ha visto a confronto i rappresentanti delle diverse scuole e tradizioni buddhiste, nel tentativo di ricercare punti di convergenza su temi importanti riguardanti la pratica spirituale e la sua integrazione nel quotidiano.
In qualche modo Tissa Weeraratna, con la sua simpatica retorica, tocca gli aspetti più profondi e affascinanti del buddhismo: “Non ci può essere uno che dice ‘sono buddhista’, perché il buddhismo non è una dottrina di fede, è una dottrina della realtà. Non si può dire per esempio ‘credo nella fisica’. Io posso credere in Dio, ma non si può credere nella fisica, se no la fisica non si capisce. È falso dire ‘credo in Buddha’. C’è una parola nel buddhismo, si chiama saddha e vuol dire ‘fiducia’. È qualcosa di diverso da ‘fede’”, ci spiega Tissa con passione. Spesso i fedeli delle religioni ‘tradizionali’, teistiche, considerano il buddhismo una religione atea o addirittura non la considerano affatto una religione. La considerano una filosofia, o una psicologia.
Se l’onda, invece, considera che la sua essenza è l’acqua che provvisoriamente ha assunto la forma di un’onda, di cosa dovrebbe avere paura?
Con un salto all’indietro, queste parole ci riportano al dottor Wilfried Reuter, del centro Lotos-Vihara: “Nel buddhismo si parte dal presupposto che nulla è diviso”, ci spiega il dottor Reuter del centro Lotos-VIhara, “bensì che tutto sia legato con tutto. Spirito e corpo non sono separabili l’uno dall’altro (…). Illuminazione significa riconoscere che la dualità è una faccia della medaglia e che l’unità è l’altra. Consideriamo il mare e l’onda. Se l’onda dimentica che la sua essenza è acqua, allora si vede come onda piccola che ha paura della spiaggia, perché la spiaggia è la morte dell’onda. Se l’onda, invece, considera che la sua essenza è l’acqua che provvisoriamente ha assunto la forma di un’onda, di cosa dovrebbe avere paura? Perché acqua rimane, o come onda nel mare o come pioggia nel cielo. Noi dobbiamo riconoscere, non solo col pensiero, ma col cuore, la nostra vera essenza, che, come l’acqua, assume sempre forme diverse, nel nostro caso una forma umana (…) Sul piano della forma noi siamo diversi, c’è la dualità, ma sul piano della sostanza non possiamo distinguerci l’uno dall’altro. Ecco, se noi riconosciamo questi due aspetti, allora, dal mio punto di vista, possiamo parlare di illuminazione. Di sguardo perfettamente chiaro. Buddha ha parlato di risveglio”.
Anche se oggi la filosofia contemporanea ha molte ragioni per non dichiararsi più dualista in merito alla relazione mente-corpo, molti filosofi del passato sono stati dualisti e ritenevano spirito e corpo come assolutamente separati. L’argomentazione più famosa è di Cartesio, con il suo celebre cogito ergo sum, che fa parte del nostro modo di pensare. Tendiamo a separare la salute fisica dalla salute mentale, per esempio.
Sono numerose le questioni che riguardano la nostra vita quotidiana e alle quali il buddhismo è in grado di fornire una risposta. Dalla sofferenza, sino al libero arbitrio. Dal tema della coscienza degli esseri viventi a quella che è la domanda cruciale, ovvero se esiste qualcosa che rimane dopo la morte. A queste domande il buddhismo fornisce una risposta, offre a milioni di uomini la possibilità di confrontarsi con i più profondi interrogativi dell’esistenza. L’impressione che abbiamo è che dietro il variegato panorama buddhista a Berlino (ma abbiamo ragione di pensare del buddismo nel mondo) si nasconda una serie di pratiche, di comportamenti, che riescono ad offrire tante diverse risposte ad esigenze di carattere spirituale, senza per questo frantumarsi fino a perdere l’identità. Un’identità composita, ma tuttavia fertile, capace di integrarsi con i nostri stili di vita occidentali, con il potere di liberare gli uomini dalle passioni negative, insegnando a tutti come coltivare le qualità positive della mente. “I buddhisti non si definiscono religiosi”, ci dice Jaborah Arnoul del Rigpa Zentrum. “Alcuni maestri affermano addirittura che i buddhisti non si presentano nemmeno come buddhisti. Si chiamano nangpa, ‘coloro che si guardano dentro’, coloro che cercano dentro se stessi l’essenza della realtà e conoscono la strada da percorrere, per arrivare alla vera natura dello spirito”.
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