Per comprendere a fondo la portata del risultato elettorale che ha travolto l’Italia in queste prime giornate di marzo è opportuno fare un passo indietro e andare a ripescare i dati delle ultime elezioni politiche nazionali, quelle del 24 e 25 febbraio 2013.
Allora il Partito Democratico, guidato da Pierluigi Bersani, conquistò il 25% delle preferenze, Sinistra e Libertà il 3%, il Popolo delle Libertà di Silvio Berlusconi il 21%, la Lega Nord di Roberto Maroni il 4%, il Movimento 5 Stelle, alla prima partecipazione su base nazionale, il 25%, Scelta Civica di Monti, insieme all’UdC di Casini, il 10%. Chiudevano il quadro Fratelli D’Italia e la Rivoluzione Civile dell’ex magistrato Antonio Ingroia, entrambi intorno al 2%, senza menzionare qui tutte le formazioni accreditate di percentuali sotto l’1%.
A quel voto seguirono delle infruttuose, oltre che umilianti, consultazioni fra Bersani e Grillo, nel tentativo di formare un governo PD – 5 Stelle a partire da una serie di misure preconcordate. Sancita l’impossibilità di mettere insieme un esecutivo a trazione progressista, si virò per un pastone da Prima Repubblica con tre governi a presidenza Democratica sostenuti dalla destra berlusconiana e guidati prima da Enrico Letta (aprile 2013 – febbraio 2014), poi da Matteo Renzi (febbraio 2014 – dicembre 2016) e infine da Paolo Gentiloni (dal dicembre 2016 ad oggi).
I risultati raggiunti da Lega e Movimento 5 Stelle in queste elezioni sono quindi, innanzitutto, il frutto molto chiaro di una bocciatura totale di quanto fatto negli ultimi cinque anni dai governi in carica. I due partiti usciti vincenti da queste elezioni sono infatti gli unici che, dal 2013 ad oggi, hanno portato avanti, a livello nazionale, un percorso di opposizione chiaro e costante al lavoro della grande coalizione Renzi-Berlusconi-Alfano.
La Lega Nord, accreditata del 18% delle preferenze, fa un balzo di addirittura 14 punti rispetto al 2013, pensionando, forse definitivamente, Silvio Berlusconi, e chiudendo il cerchio di un restyling strutturale attraverso cui Matteo Salvini, oggi fra i possibili candidati ad ottenere da Mattarella il mandato per provare a formare un nuovo governo, ha trasformato un partito sull’orlo dell’annientamento e a base regionale, in una formazione capace di raccogliere, ad esempio, l’11% delle preferenze a Cagliari, in Sardegna.
Il Movimento 5 Stelle, guidato dall’altro possibile presidente del consiglio in pectore, Luigi di Maio, ha migliorato di sette punti percentuali la sua performance nazionale e soprattutto, cosa ben più rilevante, è di gran lunga il primo partito in Italia, con l’80% di voti in più del Partito Democratico, che a poco meno del 19% ha la magra consolazione di rimanere comunque la seconda formazione, per numero di voti, dell’arco partitico.
L’analisi del tracollo del Partito Democratico (in cui si specchia, in parte, anche il calo di Forza Italia) e degli exploit dei due partiti anti-establishment, non può che partire da una constatazione che supera i confini nazionali e va ad inscriversi in un riassestamento politico di tutto il continente europeo, nel quale si stanno ridefinendo gli schieramenti a partire da una lenta disintegrazione dei partiti socialisti.
Si tratta di una disgregazione radicata in un percorso che ha visto i partiti di centro-sinistra in Europa andare a recepire, integrandola programmaticamente, tutta una serie di concetti chiave in arrivo dall’area socioeconomica storicamente opposta, quella capitalista.
Questo assorbimento ha pian piano svuotato le formazioni politiche dell’area progressista di quella base sociale su cui si fondava gran parte del loro consenso. Il tentativo di assimilazione da parte della sinistra di elementi neoliberisti si è quindi da una parte scontrato con difficoltà d’interpretazione della sinistra stessa, a disagio nell’applicazione di idee meglio sviluppate, inevitabilmente, dalla destra; dall’altra ha subito lo scollamento che questa tendenza ha provocato fra le formazioni politiche di base socialista e comunista e le fasce di popolazione più deboli, che non considerano più il centro-sinistra un interlocutore di riferimento rispetto a bisogni concreti che vengono invece soddisfatti, dal punto di vista mediatico e sociopolitico, da gruppi a matrice populista, come Lega e 5 Stelle.
Le periferie, le campagne, le aree industriali, hanno smesso di votare a sinistra, una sinistra che raccoglie i suoi consensi nei grandi centri e che non si è mai posta, nel corso degli ultimi dieci anni, il problema di una ridefinizione ideologica seria, che andasse a modulare in maniera più organica una piattaforma politica che ha la necessità (una necessità sancita da cambiamenti storici ed economici con i quali qualsiasi partito deve fare i conti) di aggiornarsi e ricalibrare il proprio baricentro, in termini di proposte concrete, di uomini e di prospettive programmatiche a lungo termine. Se i partiti di centro-sinistra mettevano prima insieme l’establishment culturale e la protesta di massa, se erano considerati un punto fermo dalla fetta di popolazione più disagiata del paese, oggi, stritolati da cambiamenti sociali che non sono stati in grado di governare, si ritrovano invece in uno stato di medietà in cui risulta difficilissimo persino andare a tratteggiare un identikit chiaro dell’elettore medio del Partito Democratico.
È a partire da ciò che risulta decisivo riflettere sul risultato di Lega e 5 Stelle, cercando di andare oltre l’analisi dei meccanismi di propaganda mediatica che hanno sì, certamente, giocato un ruolo determinante nel successo di queste due formazioni, ma che costituiscono solo una frazione di un fenomeno che ha invece nel radicamento territoriale, in quella che potremmo definire una “progettazione comunitaria del consenso”, un aspetto rispetto a cui si è posta ancora poca attenzione.
Quanto sia stato fondamentale, nel discorso di Salvini e Di Maio, andare a puntare, in termini di comunicazione, su temi che sono strutturalmente forti in questa fase storica in tutta Europa (migrazione, crisi economica, antieuropeismo, tasse, sicurezza) e che hanno scosso tutto il panorama partitico continentale, da AfD in Germania passando per l’Ukip nel Regno Unito, è ormai argomento così trattato, e così solare, da non necessitare nemmeno un ulteriore approfondimento: Lega e 5 Stelle hanno approfittato, con toni e metodi ben diversi, dell’ondata populista che ha travolto tutto il sistema politico europeo.
A fare la differenza, però, non è stato soltanto il megafono mediatico di grillini e leghisti. Di fatto, è opportuno riconoscere come la metà degli italiani abbia deciso di dirigere il proprio voto verso le due formazioni politiche che in questo momento, oltre a penetrare in maniera più chiara e profonda nell’elettorato attraverso il messaggio programmatico, sono maggiormente radicate sul territorio.
Va ammesso che il successo di Lega e Movimento 5 Stelle, a prescindere dalle simpatie personali rispetto ai progetti politici, nasce dalla capacità di questi due partiti di operare sul territorio in maniera capillare, facendo rete, portando avanti iniziative di comunità, andando insomma ad occupare quello spazio sociale lasciato libero dalle formazioni di governo, troppo occupate in infinite battaglie intestine e nel ciclico spartimento del bottino istituzionale.
La rappresentazione solare di quanto sia stato fondamentale il lavoro sul campo di Lega e 5 Stelle è data dai risultati ottenuti dai due gruppi in regioni come Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, dove i grillini sfondano, ovunque, quota 40% di preferenze, e in cui la Lega riesce a portare a casa percentuali comprese fra il 5 e il 10%, numeri impensabili per una formazione che sino ad appena tre anni fa faceva ancora del principio geografico un punto fondante della sua piattaforma.
I 5 Stelle sono riusciti a scardinare un meccanismo di voto clientelare che nel Mezzogiorno funzionava, ininterrottamente, dal Dopoguerra, e ci sono riusciti, che piaccia o meno la loro proposta, attraverso un’operazione di impegno comunitario portata avanti con una costanza ed una precipuità che portano oggi i loro frutti.
A titolo esemplificativo vale per tutto il quadro la lezione esemplare impartita da Grillo e Di Maio a Forza Italia in Sicilia. Nella regione in cui la Casa delle Libertà inflisse a L’Ulivo, nel 2001, uno storico cappotto, aggiudicandosi tutti e 61 i collegi uninominali siciliani, e su cui Berlusconi contava di costruire la sua vittoria elettorale anche in questa tornata, i 5 Stelle vincono in 14 delle 18 circoscrizioni, ribaltando una tradizione ultratrentennale di voto di scambio e condannando Forza Italia alla sconfitta nazionale.
Il partito dell’ex Cavaliere, convinto della forza feudale del suo plotone di professionisti meridionali, aveva infatti lasciato alla Lega, al momento di definire le candidature, numerosi collegi in Nord Italia, spianando di fatto la strada al 18% nazionale che oggi il gruppo di Salvini è riuscito ad incassare.
Questo risultato, meglio di qualsiasi altra spiegazione, ci riporta a quanto affermato poco sopra, rispetto all’incapacità, da parte del centro-sinistra, di parlare alle fasce più deboli, di stare sul territorio, di rimodulare la proposta progressista attraverso un percorso di attivismo le cui stimmate dovrebbe possedere geneticamente, ma che ha da lungo abbandonato durante il passaggio da formazione di massa a partito di elite.
Ciò detto, bisogna prendere atto di un contesto sociopolitico ormai cardinalmente mutato e accettare un risultato elettorale che obbliga tutto il paese a un profondo esame di coscienza.
Se il 50% degli italiani ha deciso di votare due formazioni politiche che, in maniere differenti e con toni mutevoli, propongono nei loro programmi misure antieuropeiste, xenofobe, razziste, economicamente impossibili, misure insomma che, se approntate, potrebbero mutare (sfregiare…) il volto dell’Italia, potenzialmente trascinandola nel baratro, è anche perché non è stata fornita, a livello di arco partitico, un’alternativa reale e perché il concetto del “cambiamento” è stato lasciato completamente nella disponibilità di Lega e Movimento 5 Stelle.
Immaginare un governo, di qualsiasi genere, è in questo momento esercizio molto fantasioso. Dando per scontato che il PD non accetterà in nessun caso alleanze di governo con Movimento 5 Stelle o con la coalizione di centro-destra che annienterebbero definitivamente anche l’ultimo barlume di seguito nel paese, le opzioni in campo sono un improbabile governo Salvini – Di Maio, un esecutivo di minoranza con a capo Lega o 5 Stelle o un governo tecnico con una coalizione ad ampio spettro per cambiare, nuovamente, la legge elettorale e tornare alle urne con una normativa che garantisca governabilità.
Di certo, al netto del timore (del terrore) provocato dall’ipotesi di un eventuale governo a guida leghista o grillina, la sensazione è che mai come in questo momento un periodo di opposizione potrebbe costituire l’unica ancora di salvezza, in prospettiva, per la ricostruzione non solo del centro-sinistra, ma di tutto un sistema partitico che ha bisogno di andare a sbattere con la realtà dei fatti, per ricominciare a fare politica in maniera seria e concreta.
Senza contare un ulteriore ed essenziale elemento di riflessione. In un’Europa che ha bisogno di un profondo cambio di marcia in termini di coordinamento istituzionale e che deve difendersi dall’avanzata di sentimenti nazionalisti, populisti, antieuropeisti, l’unico antidoto possibile potrebbe rivelarsi proprio quello più difficile da digerire: permettere a soggetti politici che hanno costruito sulla logica del dissenso urlato, dell’orgoglio anti-establishment, le loro fortune elettorali, di confrontarsi con l’esercizio di governo.
In questo modo gli ex grandi partiti di massa potrebbero riorganizzarsi e passare dall’altro lato della barricata, utilizzando il medesimo meccanismo del dissenso a prescindere, citato poco sopra, per riguadagnare entusiasmo elettorale.
Inoltre, e ben più decisivo, forse i cittadini riuscirebbero così a verificare come mandando a casa tutti i migranti in arrivo da zone di guerra e persecuzioni, non approvando la legge sullo ius soli, portando avanti i concetti di “prima gli italiani” e in generale tutta un’impronta sociopolitica di stampo nazionalpopulista, la disoccupazione resterebbe comunque all’11% (anzi forse crescerebbe), l’enorme debito pubblico continuerebbe a salire, gli stupri e le rapine e il contesto generale di sicurezza non registrerebbe particolari mutamenti, per citare alcuni punti a caso.
Almeno, allora, potremo andare avanti nella nostra infinita ricerca di soddisfazione, ed incolpare qualcun altro.
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