Citando una famosissima frase, attribuita un po’ a chiunque, mi viene da dire che scrivere di cumbia è come parlare di architettura. È un’impresa inutile, è frustrante. Solo a volerne definire il significato del termine se ne esce sconfitti. “Cumbia” è un termine e una musica evasiva, sui generis, che cambia a seconda di dove ci si trova, del periodo storico, dell’occasione, del pubblico e dei musicisti che ci troviamo davanti. La cumbia, la storia narra, si sviluppa in Colombia più di due secoli fa come danza delle popolazioni africane, ma poi si sposta e prende forme e significati diversi per ogni paese dell’America Latina che visita. C’è la cumbia colombiana, la cumbia peruviana, quella messicana, quella argentina, quella ecuadoriana, le quali poi a loro volta si ramificano in altrettante cumbie di diverse origini e infinite sfumature culturali. Infatti, scrivono Federico Ochoa e Carlos Javier Pérez, la cumbia è difficilmente considerata un genere musicale specifico ma piuttosto un insieme di musiche che condividono sì delle determinate caratteristiche ma che finiscono poi per essere ognuna diversa e influenzata dal luogo e dal tempo in cui si sviluppano.
Se si prende in considerazione l’America Latina nel suo complesso però si scoprono delle caratteristiche più convenzionali e canoniche con le quali riuscire a identificare la cumbia ovunque capiti di ascoltarla. La cumbia è l’unione di tre culture e tradizioni musicali diverse: la tradizione indigena latinoamericana, la musica africana e quella europea portata dai conquistadores. Dalla tradizione indigena vengono i flauti e da quella africana i diversi tipi di percussioni, mentre le danze che accompagnano questi ritmi e i vari passi si devono sia agli africani che agli europei. La ricchezza di questa unione risiede dunque nella vastità degli strumenti e, in misura maggiore, nel loro utilizzo, poiché responsabili dell’immensità di intrecci tra ritmi, melodie e danze.
Ochoa e Pérez sono due ricercatori che hanno fatto di questa ricchezza culturale della cumbia un progetto di ricerca all’Università di Antioquia, pubblicando nel 2017 “El libro de las cumbias colombianas”. Soffermandosi esclusivamente sulla cumbia colombiana dalla metà del ventesimo secolo fino agli inizi del ventunesimo, i due autori hanno cercato di documentare e rappresentare, senza però seguire una determinata cronologia o filo logico, una parte della storia della cumbia attraverso novanta spartiti. Gli sparititi sono accompagnati da informazioni sulla storia del brano, sui compositori e sugli interpreti; vengono riportate poi le copertine e il retro, il numero di catalogo del disco, la data di pubblicazione e minuziosi appunti tecnici sulla musica stessa. Per fare chiarezza nella complessità, i novanta brani sono stati divisi in tre sezioni principali: “las cumbias de conjuntos de flauta de millo”, “las cumbias de acordeòn” e “las cumbias de orquestas y conjuntos”. Cioè, la cumbia che si caratterizza principalmente per l’uso del flauto de millo, della fisarmonica e la cumbia delle orchestre composte da un minimo di sei musicisti fino ai quindici.
Le prime due sezioni riguardano un tipo di cumbia più folkloristica, di carattere rurale e facente parte della tradizione contadina attraverso la quale tramandare oralmente i testi, le musiche e le storie associate ad ogni brano. Era dunque una cumbia destinata ad un pubblico ristretto e definito, che accompagnava feste ed eventi locali. Inoltre, entrambe le sezioni fanno uso di strumenti più tradizionali come il tamburo ‘alegre’, quello ‘llamador’ e il guache. Nell’ultima sezione invece troviamo la cumbia incisa su vari formati (dai desueti 78 rpm ai più comuni 33 e 45); un vero e proprio repertorio musicale ideato, registrato e distribuito per attirare l’attenzione di un pubblico più vasto.
Si inizia con las cumbias de flauta de millo. Il primo brano è “Cumbia Soledeña” composta da Antonio Lucía Pacheco, interpretata da La Cumbia Moderna de Soledad nel disco “La Clavada” e pubblicata nel 1983. Nel ’61 Pacheco muore e viene rimpiazzato da un certo “Ramayà” il quale sottolinea maggiormente il ruolo del flauto nel brano a discapito dell’interazione con i tamburi. L’interpretazione che viene riportata qui, ad ogni modo, è molto simile al brano originale di Pacheco. Continuando a sfogliare il testo si arriva alla cumbia de acordeòn. Il brano è “Cumbia Campesina” composta da Calixto Ochoa, interpretata dai Los Corraleros de Majagual nel disco “Cumbias y gaitas famosas de Colombia Vol. 2” e pubblicata nel 1964. Ochoa, fondatore dei Corraleros, è tra i più noti compositori colombiani, conosciuto principalmente per il suo stile misurato, eclettico ma anche giocoso. Infine, le orchestre. “Alumbra Luna” composta da José Barros, interpretata da Los Graduados nel disco “Los Graduados” e pubblicata nel 1969. È cantata da Gustavo Quintero, soprannominato “El loko” e una delle voci più famose dell’epoca tra i gruppi giovanili.
Nonostante le diversità, queste tre tipologie di cumbia sono in gran parte accomunate dalla sobrietà, dall’eleganza e dalla serietà dei testi. In una intervista in occasione dell’uscita del libro, gli autori fanno notare che la serietà della cumbia aiuta anche ad analizzare le costruzioni sociali di questa musica. Durante il carnevale di Barranquilla, ad esempio, si preferisce ascoltare e far ballare le giovani fanciulle della classe alta ai ritmi più tranquilli ed eleganti della cumbia de flauta de millo. Sobrietà ed eleganza infatti si contrappongono al carattere umoristico sia dei testi che dei titoli delle canzoni per i quali la cumbia è particolarmente nota. Sia nella cumbia destinata alle occasioni festive più ristrette che nella cumbia destinata ad un pubblico più vasto, i testi e i titoli presentano spesso giochi di parole e doppi sensi, con frequenti allusioni e riferimenti alla cumbia stessa, al divertimento e all’amore, che cercano di intrattenere e far sorridere il pubblico senza ambire a nessuna trascendenza artistica e nessun intellettualismo poetico. Non mancano insomma titoli con la parola ‘cumbia’ in primo piano, urla che gridano cuuuumbia nel bel mezzo della canzone e testi che divulgano amichevoli consigli su come ballare la cumbia e su come suonare i relativi strumenti.
Se ci si sofferma a riflettere sul libro di Ochoa e Pérez nel suo insieme viene da sé che il loro è un lavoro frutto di anni di ricerche, un’impresa di preservazione e documentazione che sebbene puramente descrittiva segue una metodologia accademica, e dunque rigorosa e sistematica. Ma se è vero che “El libro de las cumbias” è un libro per appassionati collezionisti e ricercatori (un po’ un prodotto di nicchia potremmo dire), altrettanto vero è che l’interesse che spinge i due autori va di pari passo con l’interesse, in crescita esponenziale, di musicisti e artisti che (ri)utilizzano la cumbia in modi nuovi e creativi. Musicisti da ogni parte del Sud America e non solo, si stanno cimentando sempre di più in esperimenti musicali che prevedono una perfetta unione della tradizione con l’avanguardia e l’innovazione. Una perfetta unione del vecchio con il nuovo senza barriere culturali o cronologiche, insomma dove il passato è presente e il presente è il presente. A tal proposito, nel mondo della critica musicale c’è chi considera questo recente interesse per ciò che è stato e questo vero e proprio movimento artistico di ripescaggio come una corrente nostalgica fine a sé stessa che si guarda indietro perché incapace di guardare avanti. In una parola: retromania. Inoltre, il critico statunitense Jace Clayton aka DJ Rupture considera questo crescente interesse per la cumbia in America Latina una sorta di moda ereditata dagli hipster europei e statunitensi. A Clayton ribatte Nicolas Cruz, DJ ecuadoriano. Si fa presto a etichettare come hipster qualsiasi cosa sia popolare e di tendenza ma la cumbia ha fatto e fa parte della cultura latinoamericana in grande misura da sempre. E poi quella che oggi viene definita come cumbia, aggiunge Cruz, è spesso un luogo comune di come dovrebbe suonare la musica latinoamericana: bastano un paio di conga per essere definiti cumbieros.
Nonostante venga spesso considerato come un genere musicale ancora in crescita e underground, la cumbia moderna è piuttosto diffusa e apprezzata un po’ ovunque. Dalla Colombia all’Argentina, dal Perù all’Ecuador, ma anche in Francia, in Italia, negli Stati Uniti e in Canada, musicisti da diversi contesti musicali e culturali giocano a mischiare, a creare e a influenzare vecchi e nuovi generi unendo i suoni e i motivi folklorici a moderni ritmi di musiche elettroniche, pop, hip hop e ambient. Gli strumenti tradizionali vengono accompagnati da chitarre e batterie elettriche, da sintetizzatori, da sample e remix. Si parla dunque della tecnocumbia, della cumbia digitale, della cumbia elettronica, della cumbia psichedelica e così via. Fare una lista dei musicisti e delle etichette richiederebbe un impegno degno di Ochoa e Pérez, ma tanto per fare qualche nome si potrebbero citare per prima cosa le due etichette portanti della cumbia latinoamericana: ZZK Records e Terror Negro Records. Tra i musicisti invece ci sono i Dengue Dengue Dengue, Deltatron e Chakruna dal Perù; i Frente Cumbiero, i Mitù e i più conosciuti Meridian Brothers dalla Colombia; Nicolas Cruz dall’Ecuador; Chancha via Circuito, El Remolon, King Coya e La Yegros dall’Argentina. E poi c’è l’inglese Quantic, l’italiano Populous e il newyorkese Uproot Andy.
Ad unire questi artisti è certamente il doppio sguardo, uno rivolto al passato e uno al presente, ma a dividerli è il fatto che ogni artista appartiene a un contesto culturale proprio e si rifà a dei suoni, ritmi e melodie così come a delle immagini, visioni e storie di tradizioni nazionali e locali che vengono non solo rievocate e filtrate attraverso un gigantesco imbuto digitale ma anche trasformate e utilizzate sulla base di complessi contesti politici, economici e sociali. Data la vastità e la ricchezza che caratterizza questa ampia lista, mi soffermo brevemente su tre artisti provenienti da tre paesi e contesti per raccontare una parte, seppur piccola, delle molteplici sfumature della cumbia ai giorni nostri. E per dimostrare, al di là del racconto, come sia doveroso considerare questo interesse verso la cumbia come l’inizio (o il continuo, che dir si voglia) di un movimento più vasto e sfaccettato e non come l’abisso di una semplice moda nostalgica o di un’ordinaria hipsteria.
Dietro le coloratissime maschere dei Dengue Dengue Dengue, ci sono due DJ, produttori e grafici di Lima: Felipe Salmon e Rafael Pereira. Qualche anno fa, Native Instruments ha prodotto “Tropical Frequencies”, una serie di documentari sulla scena dance contemporanea in America Latina. Tra questi la scena elettronica in Perù e, nello specifico, i nostri Dengue. In uno dei video dedicati al Perù i Dengue ripercorrono la storia della cumbia peruviana – tra le più ibride e conosciuta anche come chicha – rivelano le loro influenze e raccontano di come una città grande come Lima influisca sullo sviluppo del genere. La cumbia psichedelica è quella che più li ha influenzati dicono. Il tema principale del video però è il viaggio dei Dengue verso Iquitos, nell’Amazzonia, per incontrare uno dei gruppi più influenti della cumbia tradizionale peruviana: Los Wembler’s de Iquitos, formato nel 1968. Arrivati a Iquitos, tra aneddoti e racconti i due gruppi si conoscono e si inizia già da subito a suonare, con i Wembler’s sia alle chitarre che alla drum machine. I Dengue registrano tutto e successivamente, una volta tornati a Lima, riaggiustano e mixano le quattro tracce. Il risultato è “Poder Verde”, un EP del 2016 distribuito in copie limitate.
Nel mondo della cumbia contemporanea, largamente riservato a entusiasti gentiluomini, c’è Mariana Yegros, non a caso soprannominata “the first lady of digital cumbia” e “regina della cumbia”, ma meglio conosciuta come La Yegros. Nonostante la sua educazione classica al conservatorio di Buenos Aires, La Yegros cresce ascoltando generi della musica tradizionale argentina come appunto la cumbia e ancora il chamamé. La sua musica, Mariana afferma, è il risultato di una relazione tra le origini folk e popolari della musica argentina di ieri con i ritmi accessi ed energici delle piste da ballo di oggi. È un modo, continua, per far conoscere ciò che è stato alle nuove generazioni, le origini e la tradizione, e per far sì che queste vengano riviste, trasformate e riutilizzate. Grazie alla collaborazione con gli artisti dell’etichetta ZZK e in particolar modo con il DJ e produttore King Coya, La Yegros pubblica due album – “Viene de Mi” nel 2013 e “Magnetismo” nel 2016 – e si afferma sia in America Latina che in Europa, specialmente in Francia, paese dove oltretutto attualmente vive. “Pensi che sono fragile” canta La Yegros in “Fragil”, uno dei singoli tratti da “Magnetismo”. Il verso, così come il testo completo, vuole essere una sorta di invito diretto, o meglio quasi una sfida, a riconoscere le donne come una fonte di forza e non solo come esseri notoriamente sensibili, delicati e infatti fragili.
Dulcis in fundo: Andrea Mangia, in arte Populous. Il produttore e DJ nato e cresciuto nel Salento debutta nel 2002 con “Quipo”, un disco dove Populous getta le basi di un percorso caratterizzato da una coscienza musicale eclettica che prevede l’unione di ritmi pop, reggae e hip hop sostenuti da basi elettroniche, dance e ambient. Anni dopo si trasferisce a Lisbona, fortifica la sua passione per la cumbia, e nel 2017 esce “Azulejos”. Tracce di cumbia si percepivano già in “Night Safari” del 2014 – che vanta, tra l’altro, della collaborazione di artisti come Clap! Clap! e Dj Khalab – ma in “Azulejos” l’atmosfera cumbiera si intensifica in un disco più coerente e compatto, e Populous cura nei minimi dettagli sia la parte musicale che visiva. Ci sono campionamenti di flauti andini, percussioni suonate dallo stesso Populous con strumenti più tradizionali come le maracas e la guira, sample di musiche portoghesi e angolane, le voci di Ela Minus, colombiana, e Nina Miranda, inglese di origini brasiliane. Poi ci sono i video con linee tondeggianti e dai colori vivaci, illustrazioni sincronizzate a tempo di musica, c’è la statua del Cristo a Rio de Janeiro, immagini di palme e foreste. Ma quello di Populous è un ritorno alle origini che non (non) gli appartengono, un incontro con tradizioni e ritmi di paesi che rimangono lontani culturalmente e geograficamente. Eppure il disco viene apprezzato ed è un successo. È anche una buona scusa, dice lo stesso Populous, per portare un po’ di quei ritmi in Europa, e nello specifico in Italia, dove rimangono spesso ignorati. Ed è una buona scusa per far sì che tutta questa ricca e vasta e coerente confusione che è la cumbia continui a viaggiare e a crescere.
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