“Se fossi il Presidente di una Squadra, un Presidente di quelli con i soldi, io costruirei una squadra d’italiani e la completerei con gli uruguaiani”, mi disse una sera Henry, alla terza bottiglia di vino, durante una delle nostre cene trascorse a parlare di calcio fino a notte fonda. Devo molto a Dj Henry, lui è un maestro, un fratello maggiore, molto maggiore, profondo conoscitore della musica, del calcio, della storia, della vita e mio compagno d’avventura, da ormai sette anni, a C’era una volta O Rei.
Il ragionamento è lineare, semplice, inconfutabile: “Pensaci Tom, una Nazione così piccola, con così pochi abitanti, che ha la forza morale e caratteriale di vincere due Mondiali e quindici Copa América. Gente con gli attributi, gente che non si spaventa davanti a nulla”.
Gente che definisce il proprio Paese “el padre del Fùtbol porque todos saben que la madre es la Inglaterra”. Un Popolo rappresentato da undici eroi che, nell’estate del 1950, di fronte a duecentomila Brasiliani, nel catino del Maracanã, hanno sconfitto una Nazione, il Brasile, che di lì a pochi anni avrebbe definitivamente imposto, grazie all’ascesa di Pelé, la propria egemonia calcistica.
Obdulio “El Capitan” Varela, quel quindici di luglio, suonò la carica, poco prima della partita finale, stuzzicando il suo grande amico-nemico Pepe, per gli altri Juan Alberto Schiaffino.
“Se perderete con soli tre gol di scarto, saremo soddisfatti”. Queste furono le parole pronunciate da un dirigente, poco prima del calcio d’inizio, che, riportate dal Capitano all’interno dello spogliatoio, misero il fuoco nel cuore della Celeste e l’anima in ogni pallone toccato da Schiaffino, il suo grande regista, il migliore di sempre secondo Gianni Brera: “Forse non è mai esistito regista di tanto valore. Schiaffino pareva nascondere torce elettriche nei piedi. Illuminava e inventava gioco con la semplicità che è propria dei grandi. Aveva innato il senso geometrico, trovava la posizione quasi d’istinto”.
Esciafino -secondo la pronuncia rio-platense- in quella partita consacrò la propria enormità calcistica grazie a un carattere d’acciaio, che mai gli avrebbe permesso di accettare di essere secondo a qualcuno. Fu così che un suo gol e un suo assist a Ghiggia portarono l’Uruguay sul tetto del Mondo, per la seconda volta nella storia, traghettando Pepe, con un viaggio di sola andata, nell’Olimpo del calcio, proprio al fianco dei suoi rivali storici, Puskàs e Di Stefano, contro i quali perse le due grandi sfide sul campo, ma vinse lo scontro tra fuoriclasse.
Schiaffino -cognome battente bandiera genovese, ereditato dal nonno macellaio originario della riviera di Levante-, all’epoca, giocava, forse non a caso, per il Peñarol -squadra fondata dagli immigrati piemontesi di Pinerolo-, abbinando una classe cristallina a una personalità straripante. Furono queste qualità a convincere, durante il Mondiale del 1954, il neo Presidente del Milan, Andrea Rizzoli, a sceglierlo come suo primo acquisto, nonostante i trent’anni compiuti, nel tentativo di sostituire, con un altro fuoriclasse, l’amato Johan Gunnar Gren, trasferitosi a Firenze.
Il Maestro -questo fu il soprannome che si guadagnò appena sbarcato in Italia- non ebbe bisogno di molto tempo per adattarsi al calcio italiano e fu immediatamente scelto per guidare la squadra che, di lì a un anno, avrebbe vinto il campionato e si sarebbe iscritta d’ufficio tra le migliori formazioni della storia Casciavìt.
Leader carismatico, oltre che faro del gioco, fu molto amato in particolare dai suoi giovani compagni, che ne apprezzavano il rigore morale, i consigli, l’aspetto elegantemente retrò, denigrandone l’unico e noto difetto: l’ossessione per il risparmio.
Iscritta d’ufficio nel DNA dei Genovesi, la parsimonia è spunto di numerosi aneddoti sulla vita fuori dal campo di Schiaffino. Uno, in particolare, era spesso ricordato dal Barone, Niels Liedholm: “Un sabato pomeriggio di vigilia, prima di un Genoa-Milan, avevamo deciso di fare quattro passi distensivi lungo via XX Settembre. Tirava vento di tramontana, un freddo cane, così suggerì a Nordahl e Schiaffino di bere un caffè, i due approvarono, ma, una volta sull’uscio del bar, Pepe ci domandò chi avrebbe pagato e Nordahl rispose che ognuno avrebbe dato per il proprio. Ecco, l’uruguaiano più genovese dei genovesi, replicò solo: vi aspetto fuori, il caffé mi rende nervoso”.
Fu per quest’aspetto del suo carattere che Juan Alberto fu delegato dallo spogliatoio a trattare con il Presidente la delicata materia dei premi: di sicuro non avrebbe fatto sconti!
Schiaffino fu uno spartiacque per tecnica, storia e carisma. Segnò il confine tra il calcio che fu e quello che venne: di sangue misto, giocò per la nazionale uruguaiana prima che il calcio conoscesse Pelé, il suo padrone, e ben prima che il Brasile vestisse la maglia verdeoro vincendo tutto lo scibile. Pepe indossò, primo tra gli oriundi, la maglia dell’Italia che, per la prima volta nella storia, non si qualificò per il Mondiale. La seconda, purtroppo, la conosciamo bene.
Fu Leader di un Milan che, sotto Rizzoli e grazie al progetto di Gipo Viani, vincerà tre scudetti e vedrà nascere Milanello e il Milan del futuro. Impose, per primo, la presenza delle donne in ritiro. Fu il primo giocatore a effettuare un tackle in scivolata. Fu il primo calciatore a gestire gli ingaggi con criteri manageriali.
Le cronache raccontano che, ai tempi del Milan, fosse solito trascorrere i lunedì di riposo nella vicina Svizzera, per speculazioni finanziarie: comprava e rivendeva valuta e, secondo attendibili testimonianze, faceva fruttare i risparmi quasi del venti per cento, per poi reinvestirli in appartamenti e negozi. Certo, circolavano altre cifre: il Milan l’acquistò, nel 1954, per la cifra proibitiva di cinquantadue milioni di lire. Somma rispettabile, per carità, ma niente di paragonabile alla nostra realtà: gli indici di rivalutazione dimostrano che cinquantadue milioni del 1954 equivalgono a circa seicentomila euro di oggi, meno di un miliardo e duecento milioni delle vecchie lire. Somma risibile visto l’inestimabile valore tecnico di Schiaffino che, il primo anno al Milan, percepì stipendi per un totale di quindici milioni di lire, meno di duecentomila Euro correnti. Schiaffino, in rapporto, fu pagato decisamente meno di Frank Kessié e Lucas Biglia, percependo uno stipendio incredibilmente inferiore a quello di Riccardo Montolivo e del giovane Manuel Locatelli.
L’uomo che il Dio del Calcio ha scelto per traghettare il Fùtbol in una nuova era non poteva non tenere a battesimo il suo erede, colui che scriverà un nuovo capitolo della storia del Milan e del calcio: Gianni Rivera.
E’ il Campionato 1959-60 quando il Milan Campione d’Italia ospita un’Alessandria che si appresta a salutare la Serie A. Il risultato è scontato, ma nei Grigi milita un giovanotto seguito da Gipo Viani che, in lui, rivede le migliori qualità di Schiaffino, ormai trentaseienne e pronto ad accasarsi alla Roma: “Presidente, lo prenda anche se costa caro ed è un ragazzino! C’era nebbia, si distinguevano solo le sagome dei calciatori e a volte non capivo chi fosse lui e chi Schiaffino. Lo prenda Presidente, dia retta a me!”. Queste parole convinsero Rizzoli a prendere il giovane regista dell’Alessandria, che sarebbe diventato la bandiera del Milan per i vent’anni a venire.
Perché si convinse? Perché il nome di El Dios del Fùtbol -così appellarono Schiaffino gli Uruguaiani e Mimmo Carraro, il dirigente che completò la trattativa che lo aveva portato in Rossonero sei anni prima- non si poteva scomodare senza un vero motivo.
“Schiaffino, con le sue giocate magistrali, organizzava il gioco della squadra come se stesse osservando tutto il campo dalla più alta torre dello stadio”, così ne parla lo scrittore Eduardo Galeano nel suo libro Fútbol a sol y a sombra. La più alta torre dello stadio, quella che poi hanno occupato Rivera, appunto, poi Albertini e che, per dieci anni, ha custodito il valore di Andrea Pirlo, che forse è l’ultimo esponente di un ruolo che, non solo nel Milan ma in tutt’Italia, è senza padrone da qualche anno.
Tommaso Lavizzari è ex co-proprietario e fondatore del Sergeant Pepper’s di Milano. Giornalista pubblicista e autore radio/tv. Collabora con GQ Italia, Wired Italia, e altre varie realtà per cui si occupa di sport tra costume e società. Autore e conduttore di C’era una volta O Rei che, dalle frequenze di Radio Milan Inter, racconta il calcio nella sua accezione più pop. Laureato in Storia e critica del Cinema è autore del libro “Surfplay, il migliore è quello che si diverte di più” insieme a Francesco Aldo Fiorentino con cui sta lavorando a un libro sui 40 anni di Un mercoledì’ da leoni per Mondadori. Appassionato di cibo e vino si occupa di comunicazione per ristoranti e aziende nel campo del food & beverage.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin