11 settembre 1973. Su Santiago del Cile volano gli elicotteri dell’aviazione militare. La Moneda, sede del governo cileno, è circondata da centinaia di soldati e dai carri blindati dell’esercito: le Forze Armate chiedono ufficialmente a Salvador Allende, presidente democraticamente eletto della Repubblica del Cile, di rinunciare al suo incarico.
Sono le 8 e 30 del mattino della giornata più lunga nella storia cilena.
[…]pagherò con la mia vita la lealtà del popolo. E ho la certezza che il seme che pianteremo nelle coscienze di migliaia e migliaia di cileni non potrà mai essere estirpato definitivamente.
[…]Ho fiducia nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio ed amaro, nel quale il tradimento pretende d’imporsi.
Continuate voi, sapendo che molto presto, di nuovo, sorgeranno alberi in mezzo ai quali potranno passare gli uomini liberi, per costruire una società migliore.
Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!
Sono queste le ultime parole del presidente Allende, pronunciate a Radio Magallanes intorno alle 9 di quell’11 settembre.
Di lì a poco il suo corpo verrà ritrovato senza vita in uno dei saloni del palazzo.
In meno di un giorno la Giunta Militare di Augusto Pinochet prenderà il controllo di tutto il paese.
Per 17 lunghissimi anni.
Al ricordo indelebile di quella stagione il governo cileno di Michelle Bachelet ha voluto dedicare un museo, uno spazio, inaugurato nel gennaio del 2010, nel quale raccogliere le testimonianze, i frammenti, le memorie del periodo della dittatura.
Un atto coraggioso, in un paese nel quale il passaggio alla democrazia non è ancora del tutto compiuto. A quasi 30 anni dalla caduta della dittatura la costituzione approvata dalla Junta Militar è ancora oggi vigente, seppur sia stata emendata numerose volte.
Il Cile è un paese che stenta a fare i conti col proprio passato e allora, per impedire che insieme con il tempo svaniscano nel nulla tutte le centinaia di testimonianze, i materiali, i documenti, i manifesti di protesta, le registrazioni radio e tv dell’epoca, si è scelto di imporre il ricordo, anche a quella parte di Cile che avrebbe preferito una continuità silenziosa, come non fosse mai successo niente.
Il Museo de la Memoria y los Derechos Humanos è oggi un simbolo che va molto oltre i confini nazionali cileni, un luogo nel quale ricostruire il percorso di una dittatura, quella di Pinochet, che è in qualche misura il simbolo di tutte le dittature latinoamericane che hanno profondamente tormentato il continente per oltre mezzo secolo.
Realizzato dagli architetti brasiliani Figueroa, Fehr e Dias, vincitori di un concorso internazionale per il progetto, il Museo, costato 19 milioni di dollari, si estende sui 5.600 metri quadrati una volta occupati dalla stazione metropolitana di Quinta Normal, nel cuore di Santiago, e raccoglie oltre 40.000 pezzi, distribuiti lungo un cammino degli orrori che ricostruisce passo dopo passo tutte le fasi della dittatura.
Nel viavai di gente che ogni giorno affolla i saloni dell’installazione permanente si notano i volti del Cile di oggi e di ieri.
Davanti ai monitor che passano all’infinito le immagini dell’assedio al palazzo presidenziale, non è difficile scorgere uomini e donne in lacrime. Anche i più giovani piangono, perché è un’emozione straziante trovarsi davanti alle brande sulle quali per ore venivano tempestati di scariche elettriche gli oppositori del regime, scrutrare timidamente i disegni dei bambini che si chiedevano “dov’è il mio papà?”.
Sono centinaia i documenti, le informazioni, raccolti nel museo.
Le rielaborazioni dei faldoni prodotti dalla Comisiòn Nacional de Verdad y Reconciliacion nel 1991, dalla Corporacion Nacional de Reparacion y Reconciliacion nel 1996 e dalla Comision Nacional sobre Prensa Politica y Tortura nel 2004 riempiono una vetrina al piano terra.
Dalle ricostruzioni di questi fascicoli è stato possibile accertare l’esecuzione politica e la sparizione di almeno 3.800 persone durante i primissimi anni della dittatura. Secondo il lavoro della Commissione sulla tortura furono complessivamente 28.459 le vittime delle sevizie del regime: 1244 di loro all’epoca avevano meno di 18 anni.
“Mi sono emozionata profondamente il giorno dell’apertura del museo. Per tutto il tempo precedente all’inaugurazione ho ascoltato le storie della gente che veniva qui da me a donare foto, lettere, oggetti di familiari scomparsi o uccisi. E’stato molto doloroso, molte volte mi sono sentita scossa, però vedere oggi la passione di tutte questa gente che viene ogni giorno a visitare il museo mi ripaga di tutto. Bisogna riconoscere a Michelle Bachelet il grande coraggio avuto nel decidere di portare avanti questo progetto. Avrebbe potuto lasciare le cose come stavano, ed invece ha affrontato il tema decidendo di non mettersi il passato alle spalle, di non cancellare quello che è successo nel nostro paese. Questo museo, l’enorme fiumana di gente che lo visita ogni giorno, costituiscono una smentita tremenda nei confronti della destra cilena, che insiste nel dire che il paese non vuole ricordare. Forse qualcuno crede sarebbe più semplice se ci si dimenticasse, ed invece non bisogna smettere di ripetere che in Cile v’è stata una stagione storica nella quale era sottratta l’identità a giovani appassionati al destino del proprio paese, giovani che venivano incarcerati e poi fatti sparire dopo mesi di atroci torture. Per lungo tempo, nessun mezzo di comunicazione del nostro paese ha informato su queste cose, su quello che stava accadendo; questo museo mette tutto allo scoperto, mostra ciò che per anni si è deciso di rendere invisibile”.
Marcia Scantlebury, giornalista, per diversi anni direttrice della Fondazione Museo della Memoria, fu torturata dalla dittatura per più di sette mesi e poi a lungo esiliata in Italia. La sua riflessione su quella drammatica esperienza è oggi una grande lezione di civiltà per tutto il popolo cileno, alla ricerca di un difficile punto di equilibrio fra passato e presente.
Percorrendo il corridoio laterale del salone al primo piano ci si imbatte nel decreto legge numero 5, promulgato il 12 settembre 1973. Fra le righe si legge della “necessità di reprimere nella forma più drastica possibile le azioni che si stanno commettendo contro le forze armate, i carabinieri e la popolazione in generale”, in un “paese che deve considerarsi in stato di guerra e nel quale, per effetto di ciò, verrà dunque applicato il codice di giustizia militare”, secondo cui “qualora la sicurezza di chi venisse attaccato lo
esigesse potranno essere assassinati, immediatamente, i colpevoli”.
Fra le testimonianze più illuminanti vi è poi quella del bando numero 679 del 1974, dedicato al cinema.
La dittatura di Pinochet si poneva l’obiettivo di “proibire la distribuzione di quelle pellicole che fomentano o diffondono dottrine contrarie alle basi fondamentali della patria ed alla nazionalità cilena, come ad esempio il marxismo ed altre; che offendano Stati con i quali il Cile mantiene relazioni internazionali; che siano contrarie all’ordine pubblico, alla morale, ai buoni costumi […]”.
Sulla cultura il regime di Pinochet si mostrò sempre molto rigido. I roghi di testi ritenuti fuorvianti per la popolazione erano frequenti, così come i divieti di pubblicazione e distribuzione delle opere di artisti quali Julio Cortazar e Pablo Neruda, o per i registi cinematografici Scorsese e Almodovar.
Anche la musica conobbe la i metodi della repressione.
Nel 1981 a Joan Baez non fu permesso di esibirsi pubblicamente, se non in piccoli villaggi dell’entroterra nazionale. Più volte negli anni’80 la grande cantante argentina Mercedes Sosa vide le autorità cilene rifiutarle il visto d’ingresso nel Paese.
Di tutto questo il Museo della Memoria dà contezza, in modo appassionato e coraggioso.
Sono molti i luoghi dell’orrore che i cileni hanno preferito dimenticare.
Fra questi, ad esempio, vi è il vecchio Estadio Chile, oggi intitolato a Victor Jara, in memoria del grande cantautore popolare arrestato ed ucciso fra le mura del complesso sportivo nel 1973, a pochi passi dalla stazione centrale di Santiago.
Siamo cinquemila, in questa piccola parte di città, cinquemila. Quanti saremo in totale, nelle città, in tutto il paese? […] Portano avanti i loro piani con precisione astuta. Non gliene importa niente. Per loro il sangue è come una medaglia. L’uccidere è un atto d’eroismo. E’questo il mondo che hai creato, mio Dio? Per tutto ciò i tuoi sette giorni di sorpresa e fatica? […] Quanti siamo in tutta la Patria? Il sangue del compagno Presidente colpisce più forte di bombe e proiettili, così come colpirà nuovamente il nostro pugno.
Queste parole le scrisse proprio Victor Jara poco prima di essere giustiziato all’interno dello stadio. Oggi la struttura di calle Godoy è un polo multifunzionale per volley, basket, calcetto e boxe. Fra il 1973 ed il 1978 vi passarono oltre 5.000 prigionieri politici. Insieme all’Estadio Nacional, l’ex Estadio Chile era considerato il centro di detenzione e tortura più importante della capitale.
Del suo passato non rimane quasi niente. Solo una targa all’entrata, omaggio all’amatissimo Jara, ed una poltroncina, in tribuna, dipinta di bianco: vi era seduto il cantante poco prima che i militari lo fucilassero.
Le stanze nelle quali veniva praticato l’elettroshock sono state quasi tutte tinteggiate, cancellato ogni segno del passato, per sempre. Manuel, il custode, spiega che da poco la struttura è stata classificata come Patrimonio Nazionale, e che per questo verrà riportata al suo stato originale. Si spinge passo dopo passo fra i corridoi ed i saloni della morte. “Quaggiù venivano ammassati i cadaveri”, dice, mentre visitiamo una palestra sotterranea occupata da alcuni giovani boxeur.
Ci mostra i segni lasciati dalle macchine elettrificate sul pavimento, ancora intatti, ed un deposito, quasi uno stanzino, che ad oggi è l’unico di tutto la struttura a non aver mai subito alcun ritocco dal 1973.
La storia di questo luogo, come di tanti altri luoghi, volti, ricordi, risalenti al periodo della dittatura, è stata cancellata: è il blanqueo, come l’ha definito Luis Sepulveda, la mano di bianco passata silenziosamente a ripulire le coscienze dei cileni.
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