‘Con questa luce ci giri a manetta.’
Cit.
Siamo a casa sua a Sambuceto, anche se Gianluca Palma vive a Roma da diversi anni ormai.
Mi ha preparato il caffè, entrambi lo prendiamo senza zucchero, ma lui lo gira comunque con il cucchiaino. Gli chiedo perché e lui mi chiede se sarò io poi a lavare i piatti. Mi giro verso la cucina dietro di me e vedo che non c’è la lavastoviglie.
“Beh, no,” gli dico.
“Beh, allora fatti i cazzi tuoi,” mi dice, ma sta ridendo.
C’è una pila di libri di fotografia di fianco a lui, li fisso, ma stavolta non chiedo niente. Quando mi nota guardarli mi dice che non è abituato a parlare del suo lavoro, di solito lo mostra, che quelli gli potrebbero fungere da supporto. Mentre parla si tormenta un callo sul palmo della mano.
Gianluca fa il direttore della fotografia ed è l’occhio dietro agli acclamati video di Liberato, Calcutta, Motta, Giorgio Poi, Giovanni Truppi e quasi tutti i cantatori italiani di successo degli ultimi anni.
Tiro fuori il quaderno, metto il telefono sul tavolo con il microfono rivolto verso di lui, mi schiarisco la voce, ma prima che inizi a parlare mi chiede se sto già registrando. Annuisco, al che lui copre il telefono e mi fa: “In questo caso prima di iniziare, te la voglio fare io una domanda: perché mi vuoi intervistare?”
Adesso sono io a giocare con le mani, mi sfilo e rinfilo gli anelli sul medio mentre gli spiego che mi affascinano le persone dietro le quinte, gli artefici invisibili, i disconosciuti dal grande pubblico. I lavoratori silenziosi che creano e producono, ma non sono mai in primo piano.
Il direttore della fotografia è, infatti, come il batterista delle band, quello di cui nessuno si ricorda la faccia, — o in questo caso il nome. Almeno per i profani come me.
Roger Deakins, Robbie Ryan, Rodrigo Prieto, Emmanuel Lubetzki, Adam Arkapaw, Bradford Young. Sono queste le celebrità del settore che Gianluca elenca — e che non ho mai sentito nominare — quando risponde alla prima domanda. Passa ai nomi storici, Tonino Delli Colli, Nestor Almendros, Sven Nykvist, Conrad Hall. Niente, non suona nessun campanello. Eppure sono i mostri sacri del settore, i grandi da cui Palma si lascia inspirare.
È chiaro che in questo caso bisogna partire dalle fondamenta. “Sono il responsabile dell’impatto visivo delle immagini sullo spettatore,” mi spiega. Al che mi sorge un dubbio ingombrante. Mi sarei sentita piuttosto in imbarazzo a mostrare la mia assoluta ignoranza, se non fosse che Palma è un tipo che riesce a metterti a tuo agio. Sarà per quel modo un po’ canzonatorio, ma estremamente gentile con cui si rivolge agli altri. In seguito mi ha svelato infatti che una qualità vantaggiosa per un DOP è quella di andare d’accordo e di far andare d’accordo tra loro le persone con cui lavora. “Nel mio mestiere c’è molta mediazione, è fondamentale che ci sia armonia tra i membri della troupe, perché siamo tanti ed ognuno è indispensabile.” Gli chiedo allora cosa faccia esattamente il regista e lui mi fa capire la distinzione tra i due ruoli attraverso la figura dell’operatore di macchina. Siamo seduti vicino ad una finestra, lui gli dà le spalle perpendicolarmente, io ce l’ho alla mia sinistra, parallelamente. “L’operatore più vicino alla fotografia è quello che si andrà a cercare sempre la luce migliore,” mi dice e mentre parla ha l’ indice e il pollice delle mani che formano due ‘L’. “Se deve scegliere se mettersi qui,” e inquadra la mia faccia tra le dita posizionandole in basso spostate verso sinistra, “ o qui” sposta le ‘L’ in alto davanti al mio mento, “sceglierà la prima opzione perché dietro hai uno sfondo di luce orange, hai un taglio migliore sul viso, stai più in ombra rispetto alla luce frontale. L’operatore con più velleità registiche invece sceglierà la seconda opzione perché vuole che il tuo sguardo sia più vicino alla macchina così da risultare più intenso.” Muove lo schermo immaginario dall’alto in basso, da davanti a me alla mia sinistra e aggiunge, “sembra una cazzata, ma la fotografia si fa con i centimetri.”
Prende un libro dalla pila e mi rispiega il concetto prendendo come esempio le foto stampate. Per uno che non è abituato a parlare è minuzioso nelle spiegazioni e sembra tenerci molto al fatto che io capisca a fondo. Mi dice che ha insegnato alla Scuola di Cinema IFA di Pescara.
Gli domando che reparti dirige e lo vedo in imbarazzo. “Nessuno.” C’è un attimo di silenzio perché io sono perplessa dalla risposta e non capisco bene cosa stia succedendo. “Non dirigo nessuno, io collaboro con elettricisti, macchinisti e operatori alla macchina, oltre che con il regista, ovviamente.” Quando mi parla delle sue responsabilità le suddivide in tecniche, pratiche e artistiche, ed io inizio a figurarmi la quantità di cose da prendere in considerazione per ricreare delle immagini avvincenti. Ci soffermiamo su quelle artistiche che comprendono la disposizione degli elementi all’interno dell’inquadratura, l’illuminazione, la scelta delle ottiche, il posizionamento delle macchine da presa. “Niente è lasciato al caso, è studiato tutto nel minimo dettaglio, per questo se si fa una buona preparazione girare è una sorta di automatismo. Naturalmente però ci sono sempre gli imprevisti —come il meteo— infatti è importante non rimanere troppo attaccati alle proprie idee, bisogna sapersi adattare in fretta.”
Con ogni nuova informazione che acquisisco mi accorgo di quante ancora me ne manchino.
Quindi sotto mia richiesta Palma mi descrive le fasi di realizzazione di un video. Mi dice che dopo la lettura della sceneggiatura c’è la ricerca di suggestioni visive e per spiegarmi che significa sfoglia un libro di Vittorio Storaro — suo insegnante all’Accademia dell’Immagine de L’Aquila. Mi mostra i quadri del Rossetti a cui Storaro ha fatto riferimento per girare alcune scene di Lady Hawk. Gli chiedo se per essere un buon direttore della fotografia bisogna avere una cultura immensa, conoscere tutti i pittori e tutti i fotografi. Mi dice che di sicuro aiuta, ma che l’importante è guardare un sacco di film. So che lui va al cinema quasi tutti i giorni.
Mi parla dei sopralluoghi, della scelta sfondi, della palette colori: tutto si fa confrontandosi con gli altri membri della troupe. Sembra una mole immensa di lavoro per un processo che si esaurisce in massimo due settimane. Conferma che è così e che c’è anche tutta la parte fisica di cui tenere conto, caricare e scaricare i furgoni di materiali, automaticamente si poggia una mano sul fianco come a reggersi la schiena. “Ma c’è anche il momento decompressione,” continua, “appena finite le riprese andiamo a mangiare e bere tutti insieme, lì si appiana ogni tensione, si ride, si scherza, ci si rilassa.”
Ora che ho capito le specifiche ed ho un’idea della vita sul set, è arrivato il momento delle domande che tutti gli artisti temono, o schivano o alle quali ruotano gli occhi quando le sentono.
La prima, non ci giro troppo intorno, riguarda lo scopo di ciò che crea. Temevo tentennamenti invece Gianluca risponde senza esitazione, lo scopo è quello di trovare la fotografia giusta per la storia che si sta raccontando. Porta come esempio il video ‘Del Verde’ di Calcutta — nominato al premio Pivi insieme ad altri tre clip girati sempre da Palma con la regia di Francesco Lettieri: ‘Sold out’, ‘Completamente’, ‘ Del tempo che passa la felicità’. Mi dice che non ha una fotografia bella nel senso puramente estetico del termine perché, ad esempio, non c’erano proiettori per gestire al meglio la luce, ma era la fotografia giusta per trasmettere quello che Calcutta voleva raccontare: il disagio di trovarsi nel lusso di Cortina D’Ampezzo. Le zoommate da campi totali a primi piani servono a convogliare la sensazione di inadeguatezza, a sottolineare l’essere outsider di Calcutta in quel contesto, ma anche a rendere il tutto un po’ più giocoso, stile ‘Dov’è Waldo?’
Alla seconda domanda mi risponde che il suo maestro è Paolo Carnera — suo insegnante all’accademia e direttore della fotografia di Suburra il film, Gomorra e Romanzo Criminale le serie — perché tra le tante cose, gli ha trasmesso un modo di approcciarsi alla realizzazione più realistico e meno estetizzante.
Alla terza domanda non ci arrivo neanche perché Palma ormai è lanciato. Continuando a parlare di realismo mi spiega che per lui è la direzione a cui tende il suo gusto personale. Che per inclinazione gli piacerebbe girare nel modo più naturalistico possibile. Prosegue in un discorso che non sembra specificatamente rivolto a me, ma quasi più a se stesso, dice che gli piacerebbe fare video impegnati, che gli piacerebbe trasmettere un messaggio attraverso le immagini. Questo però nei videoclip musicali non è sempre fattibile, ammette, sono per forza di cose più legati all’estetica, più pop. Ride. Gli chiedo perché rida. Mi dice “no, niente,” ma io lo guardo fisso, allora lui si esprime: “Ho creato una specie di manifesto, ero tipo alla quarta birra quindi all’inizio l’ho chiamato ‘poppero’.” Non riesco ad indovinare di cosa si tratti. Lui torna serio e mette ‘Gajola Portafortuna’ da Youtube.
“Provo a fondere i due aspetti,” dice. Manda avanti il video fino al minuto 2.27. “Prendi le storie di Liberato, sono girate a Napoli, dove l’ambientazione e le scenografie sono decadenti: muri scalcinati, palazzine semi-crollate, costruzioni abusive.” Mi indica con il mignolo l’intonaco scrostato nell’immagine, il cavo elettrico penzolante, i graffiti sbiaditi. “Io cerco comunque di tirarci fuori qualcosa di pop. È da qui che sta nascendo quello che un po’ per ridere, un po’ per definirlo, ho chiamato uno stile ‘pop povero’.”
Segui Paola Moretti su Yanez | Facebook
immagine di copertina: Gianluca Palma fotografato da Claudia Ferri © riservati
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin