– Perché i froci devono sempre sbattertelo in faccia?
– Il fatto è questo papà: per loro non è una cosa di cui vergognarsi.
(American Beauty)
Tutto è cominciato nei bagni di scuola – il mio primo ricordo di maturità sessuale e la riprova delle mie tendenze omosessuali. I bagni erano quelli del mio asilo nido, io avevo 4 anni – uno dei miei primi ricordi.
Non volevo proprio andarci, a vedere lo spettacolo dei Motus: una compagnia italiana che viene in scena a Berlino – fa tanto provinciali in gita nella capitale dell’impero. Mi sono bastate due frasi di sinossi e una foto per avere tutte le peggiori aspettative: sarà uno di quegli spettacoli antichi nel loro voler essere dichiaratamente contemporanei, con i neon e gli strobo sparati negli occhi, con il testo gridato nel microfono a graffiarti le orecchie. Le aspettative, purtroppo, non sono state tradite, ma almeno il testo e l’idea, luci e suoni fastidiosi a parte, mi son piaciuti. Eppure esco e mi sento strano: qualcosa mi è dispiaciuto profondamente. Mi chiedo: siamo rimasti alla pubertà?
La maestra d’asilo mi dice di accompagnare a far pipì un bambino piccolo (lui 2 anni) per aiutarlo. Mentre gli tiro su i pantaloni la mia mano indugia sul suo culetto glabro e il mio cervello da bambino di quattro anni pensa, con una maturità che ancora mi impressiona: “Michele ma sei un pedofilo”! Lo ricordo come fosse ieri. Ah!, periodo d’oro dell’asilo, quando col mio amichetto giocavamo a far stendere le bambine sulla panchina e a giocare ai dottori. Nessuna malizia, solo il piacere della scoperta. Poi, non molto poi, sono arrivati i dubbi, le convinzioni sociali imposte, i tuoi che si domandano “nostro figlio è frocio?”
Lo spettacolo è nello spazio off – back side – nel posteriore del Gorki: Studio R. Attraverso Mitte come fossi in un quadro: una città deserta, pietrificata e vuota. Tutto è immobile. Solo il cantiere del Pergamon fa intuire che qui, in altri orari, forse c’è vita. Palazzi nuovi, perfetti, assoluti, e strade metafisiche dai lampioni radi. Come abbiamo fatto a scordarci cos’è una città? Ma la lobotomia non è solo spaziale: è riverberata nella fauna dispersa che, lentamente, anch’essa rada, senza legarsi a niente di ciò che gli è attorno, inizia a puntinare il teatro. Cappottoni neri e scarpe bianche, a prescindere dall’età, dal genere, dalla provenienza o dal gusto. Vicino la porta, come un gatto randagio impaurito, una lesbica piccola e sola, coi capelli fluo sotto lo zuccotto nero, la camminata da ballerina che cerca di atteggiarsi a camionista, e un marsupio anni ’90 a tracolla sotto l’ascella; immancabili, alle otto di sera nell’inverno berlinese, gli occhiali da sole. Nel foyer un signore roscio sulla cinquantina si distingue dalla massa monocromatica: camicia a righe bianche e salmone sotto un completo jeans su stivaletti di pelle nera. Mi sorride e ammicca malizioso, insistente: se mi facessi seguire in bagno, sicuro ci rimedierei un pompino fatto con amore.
La mia famiglia era abbastanza libertina: mia madre a sei anni mi spiegava come si fa sesso, mi diceva che masturbarsi è sano e giusto, mi faceva vestire da donna e mi regalava le bambole (elementari, unico maschio della classe che non gioca a calcio, passavo le ricreazioni ad essere il Ken delle cinque compagne femmine). Quando ho chiesto ai miei di fare danza, però, anche a loro è sembrato troppo rischioso. A 11 – 12 anni, nelle mie scuole medie dell’EUR, andavano di moda le seghe di gruppo. A ricreazione la capetta delle ragazzine ci mostrava come fare un ditalino, e vidi la mia prima vagina dal vivo (mamma esclusa). Dai 14 anni avevo la ragazza e facevo sesso regolarmente e con pieno gusto. Anche quello è stato un gran bel periodo. Poi a 16 anni, per togliermi lo sfizio e ogni dubbio, ho provato per la prima volta ad andare con un ragazzo.
Lo spettacolo prende le mosse dal libro premio Pulitzer 2003 Middlsex di Jeffrey Eugenides, ma per farlo più hipster titolano MDLSX. A quei ricordi biografici di un ermafrodito americano si aggiungono, “collidendo”, quelli autobiografici di Silvia Calderoni, protagonista e unica performer di un soliloquio videografico. Dall’inizio alla fine questo essere androgino alterna racconti microfonati a scatti di convulsioni corporee e bui in cui macchina con i suoi aggeggi elettronici. Di spalle e quasi mai con il pubblico, tutta la comunicazione avviene attraverso una videocamera che la riproietta sullo sfondo. Delle luci e dei suoni, tristemente post-punk, ho già detto. Colori acidi, acri, pungenti. Tutto è fatto per rifuggire da qualcosa, gridare vendetta e soprattutto, come dichiarano nel programma di sala, per aggredire. “Aggredire le consuetudini percettive” e, sembra, anche il pubblico. Per quanto video, neon e compagnia bella siano in realtà ormai abbastanza consuetudinari, quest’immagine a metà tra l’uomo e la donna, tra i flash, risulta effettivamente conturbante e straniante, e in questo riescono bene. Mi affascino di questa figura, prima bambina e poi ragazza; di questo essere fragile dietro le apparenze, che non si accetta e urla. La trovo bellissima nei video di quando, ancora preadolescente, sprigiona il suo fascino senza paranoie di genere. E ora?
Nelle notti berlinesi mi domandano spesso ob ich Schwul bin (dal tedesco, “se sono gay”). E cazzo per me è una domanda difficile. La risposta, di solito, è che es kommt darauf an (“dipende”). Poi mi chiedono di specificare, sono bisex? Boh, mica tanto, perché quello che faccio con una donna non lo faccio ambivalentemente con un uomo. No, bisex non mi definisce. E allora chi sono? Sono gay quando mi va, di solito fino al farmi rimorchiare, o al massimo al lasciarmi spompinare. Godo nel vedere un altro uomo, magari più muscoloso, più alto e figo di me, esaltarsi per la dimensione del mio pene. Ma no, preferisco la vagina al culo, preferisco andare a letto con una donna, la mia donna, che pervertirmi costantemente con un uomo. Non che non ci abbia provato: per due anni sono stato felicemente fidanzato, e adoravo andare in giro a sbaciucchiarmi con lui scandalizzando i passanti. Tuttora non disdegno l’abbraccio di un omone peloso che mi fa sentire un bambino protetto, dove non mi devo preoccupare del ruolo di uomo nella società. Perché gender o non gender, dicano quello che vogliono, siamo diversi – tutti.
Alla fine, nell’ultimo video di famiglia, per la prima volta vediamo la Calderoli con suo padre. Lei, maschiaccio dalla testa rasata, a mio parere di una bellezza comunque tutta femminile, prova a farlo ballare. Alla fine del video lui la abbraccia, e nel pubblico, finalmente, un movimento di emozione vera, appassionata: finalmente qualcosa di bello. Poi Silvia, allora adolescente, si divincola dall’abbraccio, imbarazzata; il padre resta inquadrato, un po’ triste. Fine. Finalmente qualcosa di bello, ho detto. Perché la Calderoli in scena nomina apollineo e dionisiaco, e lo spettacolo è tutto votato al dionisiaco: movimenti come in trance vomitano parole – la misura dell’apollineo difetta. In quell’abbraccio però c’è qualcosa di bello non esteticamente (è un filmino casalingo anni ’90), ma perché qualcosa di finalmente edificante avviene: l’esistenza della ragazzina adolescente e ribelle, che si dichiara diversa per trovare il suo posto nel mondo e farsi accettare, finalmente sembrerebbe poter far pace con il mondo dei padri – un minimo di speranza. Perché tutto l’infastidire, il provocare, il voler per forza scandalizzare del teatro contemporaneo sono schemi vecchi, ancorati a quei movimenti, dal secessionismo in poi (da fine ‘800), in cui, come nell’adolescenza, il definirsi è nel dichiarare la rottura – definirsi per contrasto con qualcun altro, per negazione, invece che affermare positivamente nuovi esempi per il futuro. Non sarebbe ora che cominciassimo a riparlare con i nostri genitori, ma, adesso, da adulto ad adulto? Perché in quell’abbraccio, veramente, era la vergogna di un’adolescente l’unico ostacolo alla resa. I Motus si dichiarano, in tutto, contro: contro le parole patriarcali, contro le apparenze stereotipate, contro le differenze. Ma se c’è un motivo per cui a Berlino non indosso la gonna, o i miei tacchi a spillo sotto il completo da uomo, è perché qui, così, sarei conforme alla massa, dichiaratamente. Perché essere per forza negazione e non poter far pace con i nostri genitori e con i predecessori – con generazioni passate di cui accettare anche gli errori, le paure e le sconfitte? Mettiamo ancora i cuscini e facciamo sedere il pubblico a terra perché siamo a parole tutti uguali, ma quando un settantenne deve vedersi da lì lo spettacolo per un’ora e venti magari possiamo pensare che se hanno inventato le poltrone potremmo fare uso, anche, di quello che ci hanno tramandato in positivo – all’occorrenza, certo, senza nazismi. MDLSX parla di un impossibile io, di impossibili noi, perché impossibile sembra il nostro fare pace con la società. Ma non sarebbe forse, invece, possibile? Non sarebbe, forse, invece, auspicabile, passare alla vita adulta?
È da quando ho 16 anni che nel momenti in cui mi trovo tra gay mi sento denigrato perché non completamente omosessuale: “forse ancora non l’hai capito, bello”. Chissà, ma il fatto, triste, è che mi sembra i veri nazisti, a volte, siano proprio quelli che proclamano LGBT, senza considerare la E di etero. Non sono forse proprio i padri di famiglia di destra i primi ad andare a trans? Non hanno forse anche loro solo bisogno di essere accolti? Che ci hanno fatto di male, gli etero? Lo capisco, l’ho vissuto, che ghettizzarsi in un locale, in una strada o in un quartiere per soli gay dà sicurezza: lì non ti vedono i tuoi colleghi d’ufficio, lì non ti vengono a linciare i fascisti. Ma non dovremmo costruire l’accettazione sull’accettazione, invece che dichiarare muri dove i muri sono quello che vorremmo abbattere?
Lo Studio R, nel foyer, ha due bagni, entrambi bisex. In onore di questa rassegna di teatro queer, anzi, con dei fogli di carta, sono stati aggiunti i simboli di uomo, donna, trans e tutte le altre combinazioni possibili. Entro in un bagno e non ci sono pisciatoi a muro. Rattristato entro nell’altro e, incredibilmente, vedo che i pisciatoi ci sono, ma sono occupati da vasi di improbabili piante esotiche. Sopra, al muro, su uno striscione di fogli di carta stampano: “blumen für eine welt ohne gender” (“fiori per un mondo privo di generi) – senza maiuscole. Ma perché il voler fare i fichi ad esaltare l’abbraccio delle diversità deve privare me del piacere di pisciare come mi pare e piace? Mi sento escluso. In più mi tocca pisciare come dicono loro – nazisti. Alzo la tavoletta, ma non chiudo la porta: anche io sono tornato alla mia fase ribelle.
Ci sono volte che mi metto a spiegarmi e faccio il mio solito, complicato, altalenante coming out. Non ogni secondo, non con tutti, ma quando serve lo dico senza problemi. Lo faccio, come qui, perché penso fermamente che dare l’esempio sia l’unico modo per cambiare il mondo. E se un ragazzo giovane e insicuro della sua sessualità o un benpensante sicuro del suo schifo per i gay, scoprono che anche io sono stato ambivalente, magari, entrambi, aprono la mente. Io non mi vergogno di amare, mi vergognerei piuttosto di essere un consumatore poco coscienzioso. Eppure non sento di dover affermare con la forza nessun ego specifico: sono molteplice. Lo dichiaro, senza problemi, sempre. Speriamo serva.
Tornando a casa, aspettando la metro, incontro una ragazza e parliamo. Le dico che sono stato a teatro, mi dice che a lei il teatro contemporaneo fa venire gli attacchi di panico: “perché ti devono per forza gridare addosso le cose?” A lei, mi dice, piace L’importanza di chiamarsi Ernesto. Il primo video di MDLSX, ricordo ora, la prima immagine in assoluto della performance, è di Silvia ragazzina che canta, stonatissima, il C’era un ragazzo di Morandi. Il pubblico ride, ghigna alle sue stonature. Ma lì, credo, sta tutto il messaggio. Stonare, forse, se non è fatto contro nessuno, è una bellissima forma di essere.
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