A Dahlem ci si può arrivare in molti modi. Si può percorrere tutto Ku’Damm, lustrandosi gli occhi nelle vetrine dei negozi di quelli ricchi o aspiranti tali, arrivare fino alla rotonda dove ci sono le vecchie Buick messe in piedi a mo’ di menhir-memento (“vai piano, pensa a noi!”) e da lì, anziché girare a destra in tangenziale, andare dritto, tagliare Hohenzollerndamm e varcare la foresta di Grünewald. Oppure si può scegliere l’altra strada: oltrepassare Schöneberg, costeggiando le belle palazzine signorili di Hauptstraße e Friedenau, fuori dal Ring, fino a quando il bosco si avvicina e svela lentamente il quartiere delle case degli ambasciatori, ognuna costruita in un modo che dovrebbe teoricamente ricordare lo stato di provenienza di ciascuno di loro. Il kitsch architettonico applicato all’alta diplomazia: un tema che potrebbe essere oggetto di uno studio specifico.
È questa, sicuramente, la strada che fa di solito David, quando viene al Brücke-Museum, il luogo in cui oggi pomeriggio abbiamo appuntamento. D’altra parte lui abita proprio a Schöneberg e al museo ci viene una volta la settimana o quasi: U-Bahn fino a Bundesallee, poi pullman e gambe in spalla, tra le case dei signori di Berlino, alle cui figlie Christopher Isherwood insegnava inglese, negli ultimi tempi della Repubblica di Weimar. Del resto fa bene, David, a venirci così spesso: la collezione comprende centinaia di opere, ma lo spazio è piccolo, per cui periodicamente viene effettuata una rotazione tra i quadri. La sensazione è quindi quella di visitare ogni volta un museo almeno parzialmente diverso. Ovviamente tutto questo non viene in alcun modo annunciato, né sul sito internet né altrove, per cui va come va: un ottimo sistema, in effetti molto berlinese, per far tornare gli appassionati, niente da dire.
David è di qualche anno più giovane di me, questo pomeriggio. Eppure ha già vissuto più vite e fatto più cose di quante io ne riesca persino a immaginare. Smilzo e diafano, pantaloni di velluto a coste e un semplice maglione sotto il parka pesante, parla un inglese dalla perfetta cadenza lumpen di Brixton. Un accenno di baffi biondi spunta da sotto il baschetto, una innata eleganza si riverbera nella postura: lo si potrebbe quasi dire un berlinese doc, volutamente indistinguibile dalle persone che si vedono camminare per Hermannplatz.
È un sacco di tempo, che continua a dirmelo. “Il Brücke-Museum devi vederlo. È il mio posto preferito in città. Ci vengo spesso anche con Iggy. Lui lo conosci: è del Michigan, e come capita a tutti gli americani più in gamba, qualsiasi cosa abbia il sapore di Europa, arte e decadentismo lui se la beve come se fosse nello stesso tempo il cocktail più potente mai preparato e l’acqua fresca dopo una traversata nel deserto. Ma in questo museo succede lo stesso anche a me. Guarda una delle Bagnanti di Mueller, oppure Marcella, l’artista annoiata di Kirchner che con il vestito a righe e l’attitudine scocciata sembra la protagonista di un servizio di moda su una delle riviste più cool di New York. O ancora, uno dei paesaggi di Schmidt-Rottluff: ovunque ci si può scorgere l’angoscia, l’orrore dei nazi che arrivano e di un mondo intero che va in frantumi insieme all’umanità stessa, mentre danza nella velocità e sogna afriche di purezza. Io sono venuto ad abitare qui anche per cercare gli echi di quel periodo incredibile, in cui il sapore della fine, quello che solo i più sensibili riuscivano forse a cogliere, si mischiava alla più radicale libertà”.
Die Brücke è una delle due componenti (l’altra è Der Blaue Reiter, che aveva epicentro a Monaco di Baviera e di cui facevano parte anche Paul Klee e Vassilij Kandinskij) che, agli inizi del ‘900, originarono quel vasto movimento cui si dà il nome di Espressionismo Tedesco. Questo fermento culturale coinvolse un po’ tutte le espressioni artistiche, lasciando una firma indelebile soprattutto nella musica – basti pensare a Arnold Schönberg e allo sviluppo della musica dodecafonica, basata sullo sviluppo di tutte e dodici le note, sconfinando nella dissonanza – nell’allora nascente cinema (“Metropolis”, “Il Gabinetto del Dottor Caligari”: la rappresentazione degli incubi tecnologici, dell’arroganza umana e dei fantasmi dell’automazione per descrivere la crisi che attanaglia l’uomo del Novecento) e, come si nota appunto tra le opere del museo, nella pittura. L’Espressionismo diede vita a un vero e proprio immaginario estetico-visivo che ancora oggi, anche senza che ce ne accorgiamo, è pienamente nostro. Di fatto ha raccontato la modernità, la nostra e quella che era lì a svolgersi “in diretta” per loro.
Nato a Dresda nel 1905 per opera di Fritz Bleyl, Erich Heckel, Ernst Ludwig Kirchner e Karl Schmidt-Rotluff, quattro studenti di architettura che di lì a poco si sarebbero spostati nella capitale, Die Brücke si proponeva, seguendo la lezione del Zarathustra di Nietzsche, che voleva essere un tramite tra le culture passate e l’umanità nuova, di costituire un ponte – questa è la traduzione italiana del termine – tra la pittura romantica del secolo precedente (quella, per citare un’immagine che probabilmente tutti abbiamo in mente, del “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich, il celebre dipinto dell’uomo in contemplazione di fronte alla meraviglia della natura, nello stesso tempo piccolissimo rispetto al creato ma interamente immerso in esso) e le avanguardie artistiche del XX secolo, dal Futurismo al Cubismo al Surrealismo: il tutto, però, dando forma e colore alle istanze e alle storture della modernità con un carattere di “voce contro”, dal punto di vista politico e sociale, assente nei coevi espressionismi europei. È l’epoca in cui i lavoratori e le fabbriche diventano prepotentemente soggetto dei quadri. Colori accesi, quindi, immagini violente e nello stesso tempo dichiarazioni d’amore per gli idilli della paesaggistica romantica, slancio verso la purezza del corpo nudo anche e soprattutto se imperfetto, rappresentato spesso e volentieri in pose innaturali e attorcigliate; e poi totale immersione nell’atmosfera urbana di café chantant e strade affollate, di cui immortalare anche gli aspetti più degradati. Con la stessa intensità, inoltre, aspirare a un ritorno al primitivo, una tendenza che si manifesta nel culto per le popolazioni indigene dell’Africa e dell’Oceania. Van Gogh e i suoi colori, Munch e l’angoscia del suo tratto, e poi Schiele, con i suoi personaggi scheletriti e angoscianti, quali padri putativi. Già nel 1913, tuttavia, il Ponte si era spezzato e ognuno dei suoi componenti (ai quattro fondatori si erano aggiunti Emil Nolde, Max Pechstein e Otto Mueller) se ne era andato per la sua strada artistica. Peraltro, quelle strade si sarebbero rincontrate ben presto, con l’avvento del nazismo, che li avrebbe bollati tutti come “artisti degenerati” imponendo loro il divieto di dipingere.
Berlino è magnifica sempre, e così grande che ogni volta che si comincia a esplorarla se ne scopre un pezzo nuovo. Non a caso la racconta in questo modo anche Walter Benjamin, lo scrittore-filosofo che la descriveva come un paradiso per il flâneur. A me piace sempre di più girarla, a piedi ma anche in macchina, senza guardare mappe o navigatori, soprattutto quando vado in quartieri poco conosciuti. La strada per il museo, ad esempio, non la si fa così di frequente, e ci si sbaglia, perché Dahlem è tutto un altro Ovest rispetto a Charlottenburg, con cui confina, tra dignitosissime case popolari e palazzi che sembrano castelli. Oggi è domenica pomeriggio, e l’inverno cala presto il suo buio (le città in inverno sono il non plus ultra, nel mio immaginario), cosa che rende il tragitto verso il museo ancora più suggestivo. Qualche fiocco di neve punteggia i nostri cappotti, il vento punge il mento e le ombre del bosco sembrano già loro un quadro espressionista. Poi, d’un tratto, tra tigli, olmi e una concentrazione decisamente elevata di figure-umane-con-cane-al-seguito, il piccolo museo si pone davanti ai nostri occhi, timido di fianco alla più imponente Kunsthaus, alla sua sinistra. Ecco il ritorno alla natura, quello che gli espressionisti cercavano così profondamente. Già da fuori, l’edificio è una chicca per gli amanti dell’architettura: costruito in un sobrio stile funzionalista nel 1967, sembra la messa in pratica dei precetti di Frank Lloyd Wright sulla contestualizzazione degli edifici in un ambito naturale e il concepire gli edifici come organici alla natura. Contemporaneamente moderno ma di facile deperibilità, nella sua concezione razionalista: quasi un presagio dei nostri anni. Già così e già prima di entrare nel museo, posso dire che è una gita bellissima.
Una volta dentro, poi, la sensazione di viaggiare in un altro tempo aumenta: moquette, luci un filo più forti del dovuto, atmosfera ovattata come quella che ci si immagina dovrebbe esserci nella hall del palazzo di una compagnia aerea. Un percorso circolare, breve, ma ricco di opere: la dimensione migliore, per i miei gusti, perché permette di vedere tutto in modo non dispersivo e potendo poi tranquillamente fare un secondo o un terzo giro tra i quadri, per rivedere e vedere ciò che prima era sfuggito. International Style anni ’70, ovvero: come ci si figurava dovesse essere il futuro elegante.
D. me l’aveva anticipato: “Qui dentro regna il silenzio, anche se ti capita di visitarlo insieme a tanta gente. Ma un silenzio strano, diverso da quello dei normali musei. È un silenzio che sa di pudore verso un passato che è stato una ferita mortale, non solo di rispetto. Forse c’entra qualcosa con il fatto che i visitatori sono per la maggior parte tedeschi, non è un museo molto conosciuto dai turisti”. E in effetti è vero. Davanti a un paesaggio di Kirchner, una casa stilizzata e spigolosa che con i suoi angoli acuti sembra un bozzetto preparatorio della scenografia del “Gabinetto del Dottor Caligari”, ci sono cinque o sei bambini sparpagliati per terra che, sotto l’amorosa cura della guida, stanno tagliuzzando pezzi di cartoncino colorato, proprio come se fossero in una normalissima Kita (asilo), giocando a riprodurre uno dei quadri e nel frattempo scoprendo l’arte di mischiare i toni nel modo più libero possibile. Eppure, pur parlando tra di loro a voce alta e ridendo e sghignazzando, è come se per qualche strano fenomeno di fonoassorbenza tutto fosse un urlo compresso. O forse sono io che mi sto facendo influenzare dalle parole di David.
“Guarda quest’opera, c’è una coppia che si abbraccia, sullo sfondo di un muro di pietra. Sembra un paese del sud, se ti soffermi sui colori forti e accesi, e su quel sentiero che sembra scorrere tra gli ulivi. Eppure è Berlino, è il tempo successivo, quello col Muro, anche se loro non lo sapevano ancora, ovviamente. Perché è questo che fa l’arte, vede oltre l’attuale”.
Ecco, mentre mi indica “Coppia di innamorati in un giardino”, di Otto Mueller, succede la solita cosa: ogni volta che parlo con David mi manca il futuro. Ma non nel senso che mi sembra di non averne più per me, di avvenire, sia chiaro: piuttosto mi manca qualcuno che mi proponga una visione, un’idea, una prospettiva di qualsiasi tipo. Sarà perché in qualsiasi cosa che David fa c’è una tensione in avanti, uno sguardo volto a portarci da qualche altra parte, non lo so, fatto sta che parlare con lui ti fa sempre sentire come siamo troppo ancorati all’oggi, e che davvero il futuro non sia più quello di una volta. Pensateci: che cosa, nel nostro quotidiano, ci propone una visione, un’idea qualsivoglia, del futuro? Sì, mi direte “Black Mirror”, ma che tipo di futuro è, un futuro uguale a oggi e solo un po’ più brutto? L’ultima volta che abbiamo provato a immaginarci il futuro è stata negli anni ’80, pensiamo alla Los Angeles di “Blade Runner”, ai fumetti di Moebius e ai quadri di H. R. Giger, che ispiravano “Alien o i film di David Lynch, oppure ai romanzi di William Gibson e al cyberpunk. Arriviamo al massimo fino ai primi anni ’80 e ’90, a “Matrix” o a “Strange Days”. Lo stesso David ha raccontato il futuro e le sue angosce prima di trasferirsi qui a Berlino, e ancora lo farà in futuro, quasi fino all’ultima parola che pronuncerà, instancabile e sempre curioso. Ecco, la curiosità: anche lei manca terribilmente ai nostri anni. E poi manca questo, il futuro umanista e umano che si poteva trovare persino in un replicante di Philip K. Dick. C’è nostalgia del futuro, in un tempo in cui tutt’al più siamo capaci di figurarci regimi dispotici e maschio-centrici: capirai quanta differenza rispetto ad oggi.
Quelle che a me piacciono di più, in ogni caso, tra le opere del museo, sono però le xilografie e le litografie, quelle in cui robusti neri vanno a incidere forme e paesaggi colando come se fossero lava, e nelle quali poi all’improvviso arriva un’onda di blu o di rosso a scompaginare tutto. Come se si dicesse “Ecco, è l’acqua” e la speranza potesse restare e non andare via. È soprattutto Schmidt-Rotluff a dipingere quadri così, ad esempio “Dune e Moli”, una xilografia del 1917. Sempre sghembi, sempre dilaniati e in bilico tra baratri anche quando all’apparenza rappresentano sognanti panorami lacustri o di montagna. L’età orribile che stava arrivando già si intravedeva a pieno in questi artisti, l’età agitata che i loro autori vivevano in quel momento, invece, fatta di presagi e incombenze tanto quanto di lotte e rivendicazioni sociali (“La barca dei pescatori” di Max Pechstein, un quadro a tema proletario che sembra descrivere un episodio della Rivoluzione Russa), è nei tratti decisi, nei visi accorati e distanti, come quelli della coppia di “Qualen der Liebe”, i dolori dell’amore, di Kirchner, in cui le pose straziate dei due, più tragica lei, quasi assente lui, vengono sezionate dai tagli di colore. O come nel ghigno sardonico della “Testa di Pescatore”, ancora di Pechstein, beffardamente ironico e inspiegabilmente disturbante, quasi morboso. Primitivismo delle forme, sempre spigolose e inquiete. E che dire poi di quei dipinti che anticipano la fantascienza, come la “Danzatrice Rotante”, con due teste per rappresentare appunto la rotazione? Sembra l’androide di “Metropolis”.
Il giro volge al termine e David non sta più nella pelle. “Eccoci, finalmente siamo arrivati al mio quadro preferito. Guarda: ho voluto che lo vedessi per ultimo questo, fissalo bene. Si chiama “Roquairol”. Ogni volta che vengo qui ormai parto direttamente da questo quadro e mi incanto davanti a quest’uomo. Cosa puntano le sue braccia tese verso il basso? Perché sembra tagliato, all’altezza della mano destra? E la tristezza del suo viso, con la bocca semiaperta e gli occhi spalancati. Cosa ci sta dicendo? Questo quadro è un enigma, io e Iggy stiamo ore a fissarlo e a domandarci quali dolori nasconda. Sembra l’Idiota di Dostoevskij. Ne siamo ossessionati, non riusciamo a staccarcene. Non te lo dimenticare, questo quadro, in futuro: vedrai, prima o poi da questa immagine ci inventeremo qualcosa, ancora non so che cosa, di preciso. Ma di sicuro sarà un’opera di cui tutti si ricorderanno, questo te lo posso garantire”.
Io me la segno, questa promessa, intanto David e io ci salutiamo con una sobria stretta di mano. Sicuramente, in qualche tempo e in qualche spazio, con lui ci rincontreremo.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin