Non vedo.
La mia fronte sudata è appoggiata alla fronte sudata di un’altra persona.
Fa caldo.
Da destra un braccio mi cinge la vita, la mia mano sinistra tiene la mano di chi sta ballando un poco più in là, che ricambia la stretta.
Ho il capo chino.
Qualcuno da dietro mi accarezza i capelli, lo fa usando un po’ di pressione sui polpastrelli. Brividi lievi mi scendono dal collo e mi attraversano la schiena. Solleticano giù fino alle piante dei piedi.
C’è odore di pelle.
Un ragazzo dai riccioli neri sta suonando il violino nell’angolo ovest della camera in cui stiamo danzando. Quasi tutti i presenti – cento paia di occhi chiusi in affanno – la vocalizzano con degli oooh più o meno acuti, più o meno profondi.
Siamo quasi alla fine.
Non vedo da quindici minuti e non parlo da cinque ore, ma sento gli odori. Sento tutti gli accenni di fragranze diverse che una persona trasuda. L’acido della pelle, quella punta acre che primitivamente accende gli istinti, è diversa, in ognuno, di un guizzo e mi attrae o mi respinge in base ad un principio che non riconosco.
Non sento solo gli odori, sento anche le curve e il tepore dei corpi. Tasto le fisionomie delle facce, stringo le carni, mi aggrappo ai vestiti, inciampo nelle spigolosità delle ossa.
Quando voglio, mi abbandono in un abbraccio. Allora sospiro e mi dissolvo completamente nel petto dell’altro.
Liebe Tanzen è un evento che cade una volta ogni due settimane nel loft di un palazzo a Mehringdamm, a Berlino. Gli organizzatori lo descrivono come un misto fra un workshop e un rave. Un workshop dove le regole sono pochissime e un rave dove le droghe sono nessuna. L’essenza dell’esperienza è lasciarsi andare completamente alla musica e a chi condivide lo spazio con te, senza paura delle conseguenze, senza filtri e senza parole, rimanendo completamente presenti nel momento di condivisione.
Il contesto in cui si sviluppa è quello del poliamore, posizione che si contrappone alla monogamia. Ovvero, chi pratica il poliamore può avere contemporaneamente più partner con cui intrattenere relazioni sessuali e sentimentali. Nella sua versione etica, chi è coinvolto è al corrente della situazione e la accetta in un clima di totale apertura verso gli altri. A Berlino la poligamia è molto in voga e gli incontri dove la si vive e si discute a riguardo sono molti – in fondo, si tratta di una pratica tutt’ora poco accettata e diffusa, e di una teoria etica che richiede lo stabilirsi di una base concettuale ed esperienziale che la appoggi. Io non so ancora se fa per me, per ora mi sento più anarchica, ma mi va di esplorare l’ambiente più a fondo.
Lo sto facendo, in verità, non solo per testare dinamiche relazionali, ma soprattutto per rientrare in contatto con una parte di me più fisica e meno intellettiva. Ho notato che la maggior parte delle mie amicizie – su qualsivoglia livello platonico esse si appoggino – sono basate soprattutto su ciò che mi dico con l’altra persona, sulla compatibilità cerebrale che viene raggiunta.
Mi manca la mia parte animale. Voglio abituarmi ad ascoltare il rumore delle mie budella, a comunicare quello che provo con uno sguardo o con una stretta, e non con mille parole che alla fine faticano a dire quello che sento.
Raggiungo il loft alle 19 e sono agitata, lo ammetto. Spesso la prossimità fisica mi fa sentire a disagio e l’idea di ballare in mezzo ad altre cento persone senza nemmeno un paio di drink per sciogliermi i nervi mi preoccupa un poco. Ma l’ambiente è caldo, la gente sorride e io mi rilasso.
Ci sono due stanze. La prima è un salottino dove the e frutta sono messi a disposizione, ma io ho lo stomaco chiuso. La seconda è un ampio spazio vuoto, con la sola presenza della console e alcuni strumenti musicali nell’angolo in fondo.
Ci raduniamo nella seconda stanza e io indugio con lo sguardo su quelle persone. Il più giovane è un ragazzo sui venti, magro e pallido, che dal rosso degli occhi deduco avere un buon rapporto con l’erba. La signora più vecchia ha sui sessantacinque anni, sorride tantissimo e si muove in quel modo lento e un po’ rigido, che io trovo tanto carino, che appartiene agli anziani. In secondo piano vedo Erik, il ragazzo che un quarto d’ora prima, fuori dalla stazione, mi ha chiesto indicazioni su come raggiungere il posto. Nel tragitto mi ha detto che lui non riesce a muoversi bene perché è nato in ritardo. Lo ha detto ridendo e ci siamo dovuti fermare, perché Erik non riesce a ridere e camminare nello stesso momento.
Quando tutti si sono sistemati, Christian, il moderatore, spiega come si svolgeranno le cose.
Per la prima mezz’ora faremo un gioco di preparazione, l’Ampel Spiel (il gioco del semaforo), che funziona così: ad occhi chiusi, con una musica leggera di sottofondo, cammineremo per la camera. Allo stop prenderemo le mani della prima persona che incontreremo, la quale sarà il nostro partner, provvisoriamente. A turno inizieremo a toccarci. Se quello che il nostro partner farà ci piacerà, diremo grün, se andrà bene ma con riserva gelb, se ci darà fastidio rot. Tutto molto easy, insomma. Lo scopo del gioco è creare uno spazio di sicurezza e di consenso. Nessun obbligo, nessuna restrizione agli impulsi.
Agli estremi opposti della stanza sono poi state ricavate due aree: in una ci si andrà nel caso si voglia proseguire il contatto sdraiati su dei materassi – aber kein Sex, però niente sesso – e nell’altra nel caso si voglia restare da soli. Là nessuno ti può toccare o parlare.
Dopo il gioco inizierà la serata vera e propria. La musica sarà live – vedo in un angolo un violino, uno djembe e un didgeridoo – all’inizio ognuno ballerà da solo con se stesso, poi, quando Christian dirà vier, si ballerà in gruppi di quattro, sieben, in sette, zwei, in due, e così alternando fino al cento, tutti con tutti.
Comprendo come la gestione della dinamica che si andrà a creare si basi sul ritmo. Si devono cogliere gli umori, capire quando iniettare energia e quando diffondere pace, quando comunicare allegria, quando lasciare spazio all’intimità. Il lavoro del moderatore è una direzione d’orchestra, ci vuole sensibilità per entrare in armonia perfetta col gruppo e guidarlo in un coro equilibrato, dove nessuno si annoia e dove nessuno si stanca.
Iniziamo.
Il mio compagno nell’Ampel Spiel – che poi scoprirò si chiama Stefan, è un uomo gentile e fa il Sozialarbeiter – per me ora è solo un energumeno enorme e tatuato, che sembra aggressivo e che mi disturberebbe incrociare per strada di notte. Sta a me toccarlo per prima. Lui mi guarda e mi fa cenno di sì con il suo testone pelato.
Pensavo avrei provato imbarazzo, che mi sarei sentita impacciata. Invece per niente, tutto avviene naturalmente. Gli passo le dita sul viso, disegno perimetri di città inventate sul collo e sulle spalle, mi diverto a pensare cosa gli potrebbe piacere, poi rimane solo il piacere del divertimento, senza pensare. Intanto vedo che i suoi lineamenti diventano morbidi, che quest’uomo grossissimo che mi potrebbe spezzare con una manata si sta abbandonando a quello che faccio. È incredibilmente strano quello che si sta formando, non so quale nome gli potrebbe calzare, ma so che contiene un po’ di fiducia e un po’ di rispetto e che nulla di questo ha a che vedere col sesso.
Quando arriva il suo turno io chiudo gli occhi e mi concentro attentamente su ogni più piccolo tocco. Provo una sensazione di arresa. Non serve che resista a nessun attacco, posso demolire le barriere che mi stanno intorno, sono in un posto al sicuro, qui, sono in salvo. Mi commuovo. Sorrido. Poi, per pochissimo, piango.
L’allenamento finisce, io perdo il mio gigante buono fra gli altri e il gruppo inizia a suonare. Non sono pronta allo scenario in cui sarò immersa per le successive quasi cinque ore.
La musica al principio è una musica antica, che prende le ossa e ti fa tremare. Ti assale. Ci sono bassi profondi, ritmi violenti e una vibrazione costante, contagiosa, invadente. Mi inizio a muovere e il fatto che prima fossi preoccupata per quei due drink che mi avrebbero sciolta, mi sembra qualcosa di completamente surreale. Mi sento perfettamente a mio agio, connessa all’ambiente e ad ogni altra persona.
Attorno a me la stanza muta di forma. Non siamo più in un loft a Berlino, siamo lontano, in una giungla.
Qualcuno salta scuotendo tutto il corpo e mentre salta grida. Grida come un animale. Qualcun altro corre da un lato all’altro della stanza, qualcuno si sdraia a terra e balla in forma orizzontale. C’è una donna vicino a me che dondola leggermente con gli occhi chiusi e si abbraccia da sola, poi incrocio gli occhi di un uomo molto concentrato sui suoi passi, ma che subito si abbandona in un sorriso larghissimo quando vede la mia espressione contenta.
Sembra un momento di isteria collettiva. E invece è la cosa più naturale del mondo.
Penso a come balliamo nei club. Quei cunicoli oscuri e nascosti, dove ci rintaniamo perché non osiamo fare le stesse cose all’aperto. Degli spazi segreti, staccati dal mondo. Ci muoviamo fissando una presenza nascosta dietro uno schermo che mai ricambia uno sguardo. Spostiamo il peso del corpo da un piede all’altro per ore, senza vederci, ed ogni contatto sociale richiede una scusa. Una perdita di memoria postuma già programmata, uno stato mentale alterato fino allo stremo.
È una metafora triste che descrive disgraziatamente il momento di crisi umana e sociale che stiamo vivendo. Degli uomini chiusi in se stessi, sconnessi, che guardano un punto sfocato all’orizzonte senza trovare uno scopo.
La musica continua a cambiare e con essa la conformazione del gruppo. Dall’estasi si passa alla tenerezza, dalla foga al ballo di coppia sensuale. Ogni tanto si sente un rot! aleggiare nell’aria.
L’ultima parte della serata è quella più intensa. Chiudiamo gli occhi e seguiamo le note del violino che suona in sottofondo. Automaticamente partono i cori, prima lievissimi, poi più robusti. Si forma l’atmosfera di un rito.
C’è energia. Questa apertura totale nei confronti degli altri produce delle vibrazioni avvolgenti che risvegliano i sensi.
C’è vita. Anche con gli occhi chiusi, sono sicura di riconoscere dove sto andando e vengo attirata ed accolta da un gruppo che scopro formato da quattro persone. Per una decina di minuti ci accompagniamo in un ballo che pare un cerimoniale. Imparo ad ascoltare e a distinguere tutte le voci, tutti gli odori e i modi di usare il corpo e le mani.
Quando apriamo gli occhi e rimaniamo ancora avvinghiati in questo abbraccio strano, non c’è nulla che ci divida l’uno dall’altro. Ho la sensazione che quello che abbiamo trascorso ci abbia messi in contatto profondo, e ora siamo tutt’uno mentre ci guardiamo.
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Immagine di copertina: © Luca di Battista
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